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La pagina bianca del 2017 – Preoccupati dal nuovo anno? Il segreto è diventare meno attenti

Se la pagina è bianca, meglio distogliere l'attenzione e attendere con calma spunti creativi oppure non scrivere nulla, compreso il proprio futuro

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 09 Gen. 2017

Anno nuovo, nuovo inizio. Entusiasti o preoccupati? Più probabile la seconda, purtroppo. La nostra mente, a torto o a ragione, è specializzata nel produrre pensieri negativi. E se preoccupati, di cosa? Dell’indefinitezza del futuro o della necessità che anche noi concorriamo a scriverlo, questo futuro? E se dobbiamo scriverlo anche noi, cosa scrivere? Come riempire questa pagina bianca?

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 31 dicembre 2016

 

 

Lo psicoanalista Bergler riteneva che lo scrittore paralizzato davanti alla pagina bianca fosse un imputato davanti al tribunale del suo super-io. Di qui il blocco. La modernità pragmatica però preferisce spiegazioni più semplici e meno romantiche. La sindrome della pagina bianca non è problema da malati immaginari, è una realtà. Quando non si sa bene ancora cosa fare o cosa scrivere, il blocco deriva banalmente dal fatto che non si sa ancora cosa scrivere.

Avere qualcosa da dire non è cosa da poco e non è un problema immaginario. Come si fa a decidere di avere un’idea, per di più buona? La mente lavora sempre certo, ma il lavoro inventivo non è frutto di decisioni. È un po’ come innamorarsi. Possiamo deciderlo? Semmai decidiamo di creare i presupposti. Di allargare la nostra cerchia sociale, ad esempio, nella speranza che nel giardino delle conoscenze sbocci l’amore.

Se dobbiamo scrivere qualcosa e ancora non sappiamo bene cosa scrivere, possiamo decidere di sistemarci in scrivania davanti alla pagina, che è appunto bianca. Se dobbiamo montare un mobile e non abbiamo idea di come fare, non c’è nemmeno un libretto di istruzioni, possiamo decidere di sistemarci li, in mezzo ai pezzi di un puzzle incomprensibile. E l’attenzione vaga a caso un po’ sui componenti sparsi sul pavimento, un po’ altrove. Possiamo decidere tante cose, possiamo decidere di cercare ma non possiamo decidere di trovare.

Insomma, il senso di vertigine che si ha davanti a un nuovo compito in cui poco o nulla è chiaro non è una debolezza della mente, è un ostacolo reale. La mente, nella sua onnipotenza, può nutrire l’illusione che basti un po’ di volontà. Non è così purtroppo. Anzi, i mezzi che abbiamo a disposizione possono essere dannosi. E questi mezzi quali sono? Nient’altro che la nostra attenzione. Un po’ di attenzione funziona, intendiamoci. Per un po’ di tempo  è giusto passare in rassegna le idee che già conosciamo. Non ci vuole tanto però, si rimane nell’ordine dei minuti. Se in questo intervallo di tempo focalizzato non ci sono venute idee, vuol dire che tutto quel che già sappiamo e sappiamo fare non è sufficiente, non serve, non funziona del tutto.

Saggezza vorrebbe che passassimo ad altro: non possiamo farci venire una buona idea semplicemente volendolo. Per una nuova buona idea abbiamo bisogno di tempo, abbiamo bisogno che la nostra mente apprenda nuove informazioni e cresca su di esse, le connetta a quello che già sa e la elabori, questa nuova buona idea. E per fare questo l’attenzione non è per nulla utile, anzi è deleteria.

L’attenzione non è una facoltà creativa, è solo una capacità esecutiva di concentrare le forze già presenti su una leva, e metterla in azione. È un “Pronti? Via!” Se però queste forze sono insufficienti o la leva scelta è sbagliata, l’attenzione deraglia a un vagabondare sterile e rimuginativo, il mind-wandering e il worry della letteratura scientifica anglofona. E ben presto degrada in un’autoflagellazione.

Insomma, davanti alla pagina bianca che non si riempie crediamo di stare continuando a cercare una buona idea e iniziamo a pensare che siamo degli incapaci. Siamo noi stessi, e non il nostro super-io, che ci giudichiamo spietatamente, e tutto solo perché non accettiamo che, per ora, non sappiamo cosa scrivere. Perché lo facciamo? Perché intestardirsi? È una forma decaduta del vecchio “conosci te stesso”. Un’illusione che l’ostacolo risieda in qualcosa che non va in noi stessi. E così ci impegniamo in una ricerca a vuoto dei nostri difetti, che a sua volta si risolve in una condanna di noi stessi che ulteriormente ci obbliga all’inazione e che in più ci illude di essere un sorta di percorso di conoscenza di sé, di analisi, di crescita. E invece è solo un’autoumiliazione.

Che fare, dunque? Di fronte al non saper che fare, meglio sarebbe concentrare la mente altrove, su qualcosa di fattivo che sappiamo già fare. Così diamo tregua al motore mentale e gli diamo tempo di elaborare una nuova buona idea. Insomma, lasciamo lavorare tranquilla la nostra mente. La nostra pedante, limitata e fastidiosa attenzione esecutiva (questo è il termine tecnico), con la quale troppo spesso erroneamente ci identifichiamo chiamandola pomposamente “Io”, è spesso solo una seccatrice che rallenta il lavoro mentale. Non ci conviene confondere noi stessi con una nostra funzione mentale sopravvalutata. Se la pagina è bianca, distogliamo la nostra attenzione dai nostri problemi e da noi stessi, alziamoci, andiamo a farci una passeggiata e attendiamo con calma che si accenda la lampadina sorseggiando un caffè al bar. Oppure no. Si può anche non scrivere nulla, compreso il proprio futuro. Il futuro è un po’ come la vita: è quel che accade mentre rimugini su altro. Vale anche per il 2017.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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