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Lombalgia cronica: come gli atteggiamenti degli specialisti influenzano il trattamento e le credenze del paziente

Nel trattamento della lombalgia cronica bisognerebbe lavorare sui pensieri catastrofici del paziente sul proprio dolore, incrementando la sua autoefficacia.

Di Antonella Sanzò

Pubblicato il 01 Dic. 2016

Aggiornato il 02 Lug. 2019 12:07

Per un trattamento adeguato della lombalgia cronica sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente. 

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La lombalgia cronica è un dolore persistente a livello della zona lombare della schiena e può essere definito un disturbo complesso, in quanto è influenzato non solo da fattori di natura biologica, ma anche psicologica (credenze catastrofiche sul dolore, depressione, ansia, basse aspettative sulla possibilità di guarigione e scarsa motivazione, adozione di strategie passive di coping), sociale (ad esempio, fare un lavoro in cui sono richiesti eccessivi sforzi  fisici) e dallo stile di vita (scarsa attività fisica) (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, K., 2015).

In alcuni casi, questi fattori contribuiscono ad acuire il disturbo tanto da portare ad una riduzione delle attività svolte normalmente dalla persona e un’assenza prolungata dal lavoro. In genere, non c’è una causa specifica per la lombalgia cronica, ma si possono riscontrare frequentemente problemi di natura muscolo– scheletrici non gravi, quali distorsioni e stiramenti muscolari oppure cause di maggior entità, quali ad esempio forme tumorali o infezioni. Secondo la maggior parte delle ricerche, il mal di schiena lombare si distingue in acuto se ha una durata inferiore alle sei settimane, subacuto se ha una durata di 6 – 12 settimane e cronico se i sintomi hanno una durata superiore alle 12 settimane (Violante, Mattioli e Bonfiglioli, 2015).

Per la maggior parte dei pazienti che presentano mal di schiena acuto il problema si risolve spontaneamente e solo una piccola percentuale di essi sperimenta sintomi cronici. Tuttavia, considerando che la lombalgia può anche cronicizzarsi ed il suo trattamento in tal caso è più difficile e richiede costi elevati, è importante fare degli accertamenti per tempo quando si ha un mal di schiena persistente e curarlo adeguatamente. A tal proposito, le linee guida per la cura della lombalgia generalmente riconoscono l’importanza di un trattamento bio- psico-sociale del paziente, basato su un modello sviluppato da Engel negli anni Ottanta e che pone il malato al centro di un sistema influenzato da diverse variabili di natura organica, psicologica e sociale.

 

L’approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia cronica

Una recente revisione di alcuni studi sul tema ha rilevato che nonostante gli specialisti supportino un approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia, sono pochi coloro che lo mettono in atto nella pratica. In uno studio condotto su fisioterapisti qualificati che trattavano pazienti con lombalgia cronica si sono indagati quali fossero le percezioni dei professionisti rispetto all’importanza di identificare e trattare fattori cognitivi, psicologici e sociali che possono essere degli ostacoli alla guarigione dei pazienti (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, 2015); è stato riscontrato che essi soltanto parzialmente riconoscevano l’importanza di tali fattori oppure assumevano un atteggiamento poco comprensivo quando i pazienti alludevano a qualcuno dei precedenti fattori, esprimendo una preferenza maggiore per gli aspetti organici della lombalgia.

Fornendo esclusivamente una spiegazione biomedica del disturbo, basata sulla nozione che il dolore e la disabilità derivano esclusivamente dalla patologia fisica e proponendo un trattamento in linea con questa tesi i fisioterapisti incrementano le credenze dei pazienti basate sull’idea che il dolore dipenda esclusivamente da un danno significativo ai tessuti. Gli studi dimostrano come un approccio bio-psico-sociale, incoraggiando nei pazienti una gestione attiva del problema e una comprensione di esso in tutti i suoi aspetti, potrebbe, invece, risultare più efficace nella riduzione del dolore e della disabilità a lungo termine (Jones, Johnson, Wiles, Chaddock, Phys, Roberts,S Ymmons e Macfarlane., 2006).

 

Gli aspetti psicologici della lombalgia cronica

La percezione del dolore è influenzata anche dal modo in cui l’individuo con lombalgia cronica gestisce le sue sensazioni corporee: alcuni studi hanno rilevato che l’umore depresso e credenze negative sul dolore, ad esempio credere che il proprio stato di malessere fisico persisterà a lungo nel tempo, sono fattori che facilitano una condizione di disabilità prolungata. (Young, Greenberg, Nicassio, Harpin e Hubbard, 2008).

La tendenza alla catastrofizzazione del dolore può essere considerata una modalità tipica del funzionamento cognitivo di alcune persone: essa è caratterizzata dall’amplificazione della sensazione di dolore attraverso il rimuginio su di esso, da un senso di impotenza nell’affrontarlo e incapacità a tollerarlo, con conseguenti emozioni di paura ed ansia. Ciò influisce negativamente sul funzionamento sociale ed emotivo e sulla risposta ai trattamenti (Lo Sterzo 2015).

Tuttavia, questa modalità cognitiva può anche essere influenzata da fattori esterni, quali le informazioni che le persone ricevono sul loro malessere: nel corso delle interazioni tra pazienti e specialisti gli atteggiamenti di questi ultimi rispetto alla patologia potrebbero influenzare quelli dei pazienti.

 

Lombalgia cronica e credenze disfunzionali: uno sguardo alla letterattura

In una review della letteratura (Darlow, Fullen, Dean, Hurley, Baxter e Dowell, 2012) sono stati messi a confronto diciassette studi condotti in otto paesi differenti; lo scopo di tali studi era quello di verificare se ci fosse un’associazione tra atteggiamenti e credenze degli specialisti e atteggiamenti e credenze dei pazienti. Gli specialisti presi in considerazione erano, nello specifico, fisioterapisti, chiropratici, ortopedici, reumatologi e altre figure paramediche. I pazienti erano persone con mal di schiena lombare cronico, acuto o sub acuto o alla prima esperienza di lombalgia.

L’associazione tra gli atteggiamenti e le credenze degli specialisti e quelli dei pazienti erano indagate attraverso i comportamenti riportati dagli stessi specialisti, questionari e interviste fatte ai pazienti, osservazioni, verifiche dei trattamenti oppure attraverso una combinazione di queste misure. Tali studi hanno dimostrato che gli atteggiamenti e le credenze dei pazienti con mal di schiena lombare erano associati agli atteggiamenti e alle credenze dei professionisti che i pazienti avevano consultato.

Molti specialisti avevano credenze di “paura – evitamento” (Linton et al., 2002; Coudeyre et al.,2006; Poiraudeau et al., 2006; Sieben et al., 2009) e ritenevano opportuno suggerire ai pazienti di non fare eccessiva attività fisica, limitando anche l’attività lavorativa; tali credenze erano associate a quelle di evitamento dei pazienti. Le credenze di “paura – evitamento” sono caratterizzate dal pensiero che certe attività dovrebbero essere evitate per non sentire sensazioni fisiche spiacevoli: esse si riscontrano maggiormente in coloro che hanno pensieri catastrofici sul dolore, i quali attuano un continuo monitoraggio delle proprie sensazioni fisiche, interpretando stati di dolore acuto come segnali di pericolo oppure come segnale della presenza di gravi lesioni; ciò induce ad evitare alcune attività per paura di provare dolore; si istaura in tal modo un circolo vizioso in cui la persona riduce sempre di più la sua sfera di azione e ciò incrementa stati emotivi di tristezza, ansia e rabbia per la propria condizione.

Uno studio che ha preso in esame circa 1600 pazienti con mal di schiena cronico ha rilevato che i pazienti che hanno credenze negative sulle loro capacità di far fronte al problema e poca fiducia nella loro possibilità di poter fare delle attività nonostante il dolore, tendono maggiormente al catastrofismo e alla depressione (Foster, Thomas, Bishop, Dunn, e Main, 2010).

Da quanto detto, si può supporre che gli specialisti, in alcuni casi, possano contribuire ad incrementare i comportamenti protettivi dei pazienti con lombalgia cronica, inducendoli anche a lunghi periodo di riposo dal lavoro. In uno studio (Reme, Hagen e Eriksen, 2009) condotto su 246 pazienti che presentavano dolore alla zona lombare della schiena sono stati indagati i fattori che contribuivano ad un congedo dal lavoro per malattia per periodi di  tempo prolungati. Sono risultati influenti diversi fattori, ad esempio l’intensità del dolore percepito durante il periodo di riposo, le aspettative negative nel ritornare al lavoro e l’essere stato in cura da un fisioterapista durante il periodo di malattia; l’influenza  di quest’ultimo fattore è ancora poco chiaro, ma una spiegazione che può essere fornita è che i fisioterapisti potrebbero comunicare eccessive precauzioni ai pazienti, consigliando loro di non tornare a lavoro troppo presto.

Da uno studio (Houben, Ostelo, Vlaeyen, Wolters, Peters e Stomp-van Den Berg,, 2005) sembrerebbe che sono i terapisti con un orientamento maggiormente biomedico a percepire le attività quotidiane come pericolose per i pazienti con lombalgia cronica e non solo rispetto ai terapisti con un orientamento bio-psico-sociale e a consigliare ai loro pazienti di limitare l’attività quotidiana e lavorativa. Un’eccessiva focalizzazione da parte dei clinici su ciò che i pazienti non dovrebbero fare piuttosto che porre l’attenzione sulle attività che essi sono in grado di svolgere  potrebbe rinforzare le credenze disfunzionali dei pazienti di poter guarire solo se sono evitati alcuni movimenti e azioni.

 

L’importanza dell’atteggiamento degli specialisti nel trattamento della lombalgia

Le linee guida per il trattamento del mal di schiena cronico sottolineano l’importanza di motivare il paziente a riprendere le normali attività il prima possibile. Gli studi dimostrano che i comportamenti protettivi non riducono il dolore, quanto piuttosto incrementano la preoccupazione e lo stato di frustrazione dei i pazienti (Darlow, Dowell,  Mathieson,  Perry e  Dean, 2013).

I clinici sono visti come una fonte di certezza e i pazienti hanno una grande fiducia in loro: essi tendono a dare un significato ai propri sintomi tenendo in considerazione ciò che viene detto dagli esperti. Per tale motivo, gli specialisti dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che i loro atteggiamenti e credenze hanno sui loro pazienti. Le ricerche dimostrano che anche le aspettative sulla riuscita del trattamento sono influenzate dalle credenze che i terapisti trasmettono ai loro pazienti. (Van Wilgen, Koning e Bouman, 2012).

Quindi, è opportuno che gli specialisti che si occupano del trattamento della lombalgia cronica diventino consapevoli delle loro credenze disfunzionali sulla malattia al fine di modificarle per approcciarsi adeguatamente ai pazienti. A tal proposito, si potrebbe pensare a programmi educativi in cui incrementare tale consapevolezza attraverso l’uso di questionari self report che indaghino le credenze che i fisioterapisti hanno sul dolore, come il “Pain Attitudes and Beliefs Scale for Psysiotherapist” (PABS. PT) (Nijs, Roussel, Van Wilgen, Köke e Smeets, 2013). E’ importante  incrementare anche le conoscenze dei professionisti sul ruolo che hanno i fattori psicologici e sociali nel decorso della lombalgia cronica e non considerare soltanto gli aspetti strettamente organici del problema.

Da quanto è stato esposto sinora, per un trattamento adeguato del dolore lombare cronico sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente.

Le evidenze sulla riabilitazione di pazienti con lombalgia cronica hanno sottolineato l’importanza di lavorare non solo sugli aspetti organici del disturbo, ma anche sui pensieri catastrofici che il paziente fa sul proprio dolore e sulla malattia, per incrementare il senso di autoefficacia dei pazienti e le loro capacità di gestione del problema (Miles, Pincus, Carnes, Homer, Taylor, Bremner, Rahman e Underwood, 2011).

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