Un crescente corpo di letteratura continua a documentare l’esistenza di un qualche tipo di relazione tra stati d’ansia, sia temporanei che veri e propri disturbi dello spettro ansioso e la percezione del dolore fisico.
Andrea Mereu, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO
Numerosi studi in questo ambito indicano la co-presenza di condizioni di dolore clinicamente significativo in persone con disturbi d’ansia, e, vice-versa, stati d’ansia clinicamente significativi in persone con condizioni mediche che comportano dolore acuto e cronico. Diversi ricercatori hanno documentato che disturbi d’ansia come esempio il disturbo post traumatico da stress (PTSD) e condizioni di dolore cronico spesso si presentano in concomitanza (Asmundson e Katz, 2009). Si stima che dall’11 al 60% dei pazienti con dolore cronico riportino una copresenza di diversi disturbi d’ansia (Roy-Byrne e coll., 2008). La maggior parte di queste ricerche tuttavia si sono focalizzate sul disturbo di panico (PD) e sul PTSD. Ad esempio Kuch e coll. (1991) hanno riportato che il 40% dei pazienti con PD avevano dolori cronici, più comunemente alla testa, alle spalle e nella zona lombare. Il 10% di questi utilizzava analgesici su base giornaliera. Sono presenti in letteratura anche dati preliminari che indicano che pazienti con SAD (social anxiety disorder) non differiscono da quelli con PD nella prevalenza, natura, o esperienza del dolore cronico (Asmundson e coll, 1996; Asmundson et al., 2000).
E’ una comune esperienza clinica, in caso di patologie che comportano dolore, che la paura anticipatoria dello stesso possa amplificarne la percezione d’intensità. Alcuni autori, hanno riscontrato che il livello di ansietà sia un buon predittore della severità del dolore e dei comportamenti associati in pazienti con dolore cronico (Kain et. al, 2000; Van Den Hout et. al, 2001).
Inoltre, a rinforzare l’ipotesi di questo legame, agire sulla riduzione dei livelli d’ansia attraverso farmaci ansiolitici si è riscontrato avere un buon successo nel migliorare il dolore associato a procedure mediche (Suls and Wan, 1989; Dellemijn and Fields, 1994).
La questione se l’ansia aumenti o diminuisca la percezione del dolore, o, ancora più a monte, quale sia dei due fattori a condizionare l’altro, è comunque una questione ancora dibattuta. Diversi autori sostengono l’ipotesi che l’ansia intensifichi la percezione del dolore; ad esempio il modello di Melzack (1973) sull’influenza dei fattori psicologici rispetto alla sensazione dolorosa sostiene che l’ansia amplifichi quest’ultima. D’altra parte, sebbene molti studi mostrino un’intensificazione e una minore tolleranza al dolore, altri indicano che l’ansia abbia l’effetto opposto, ovvero che diminuisca la percezione del dolore, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984).
Questo aspetto si riscontra particolarmente negli studi sul PTSD (Mostoufi e coll., 2014). Nel loro studio questi autori comparano la soglia e la tolleranza nel tempo al dolore in soggetti con PTSD rispetto a soggetti con altri disturbi d’ansia, e rispetto ad un gruppo di controllo utilizzando un cold pressor task (la sensazione di dolore era prodotta attraverso dell’acqua in un contenitore a temperatura intorno a 1-2 gradi). I loro risultati mostrano che i soggetti con PTSD avevano una ridotta sensibilità agli stimoli sia rispetto al gruppo di controllo, sia rispetto ai soggetti con altri disturbi d’ansia.
Due tipologie di studi hanno cercato di far luce sul rapporto tra ansia e dolore: studi sperimentali, che cercano di individuare una causalità tra i fattori, e studi correlazionali. Il riscontro di una correlazione positiva tuttavia non deve essere confusa con un rapporto di causalità. Potrebbe essere il dolore a causare l’ansia o viceversa, oppure potrebbe esserci una terza variabile interveniente. Sostanzialmente, anche se in letteratura è abbastanza concorde l’osservazione che condizioni di dolore clinicamente significativo e stati ansiosi momentanei o conclamati disturbi d’ansia si verifichino insieme con una frequenza troppo alta per essere casuale, dalla stessa letteratura si evince anche che la relazione tra questi possa essere non unilaterale, e dipendente da altri fattori coi quali vanno a interagire e a costituire un rapporto complesso. Di fatto, il dolore non è determinato semplicemente dall’intensità delle stimolazioni nocicettive, ma dipende anche da fattori psicologici, come gli stati emotivi e motivazionali.
Ansia, paura e percezione del dolore
Come riportato sopra, gli studi che cercano di indagare la relazione tra stati d’ansia negli esseri umani riportano risultati talvolta contraddittori o perlomeno non univoci. Rhudy, Meagher (1999) propongono che la causa di ciò sia dovuta al fatto che i paradigmi sperimentali usati potrebbero in realtà aver indotto due differenti stati psicologici: paura e ansietà.
Studi su animali suggeriscono che la paura inibisca il dolore mentre l’ansia ne aumenti l’intensità percepita, tuttavia non è ancora chiaro se questo effetto si possa generalizzare agli esseri umani.
La paura è una reazione di allarme immediata ad una minaccia presente, caratterizzata da impulsi alla fuga, o all’attacco della fonte, e in genere si traduce in un aumento di eccitazione del sistema simpatico (Barlow et al., 1996). L’ansia, d’altra parte, è un sentimento orientato al futuro, caratterizzato da sensazioni negative e apprensione anticipatoria verso minacce potenziali, e si traduce in ipervigilanza attentiva e tensione somatica (ad esempio la tensione muscolare). La paura mobilita l’organismo verso l’azione (risposta di attacco o fuga), mentre l’ansia conduce ad un aumento della scansione ambientale e corporea che facilita la ricettività sensoriale. Alla luce di queste distinzioni, diversi ricercatori hanno sostenuto che la paura e l’ansia rappresentino stati emotivi qualitativamente differenti (Maier, 1993; Barlow et al., 1996; Davis et al., 1997). Rispetto alla paura inoltre, l’ansia avrebbe un effetto opposto sulla percezione del dolore: diversi studi hanno mostrato che è presente un’aumentata sensibilità nocicettiva o iperalgesia (Rhudy e Meagher, 2000; Ploghaus, A. et al. 2001).
Un supporto per questa ipotesi viene da diversi studi su animali che indicano come i circuiti neurali che mediano la paura possano essere distinti dai circuiti coinvolti nell’ansia (Gray and McNaughton, 1996; Davis et al., 1997).
In alternativa, altri autori suggeriscono che gli stati emotivi rilevanti per il dolore potrebbero dipendere dagli stessi circuiti neurali, i quali possono manifestarsi in differenti aspetti comportamentali e somatici a seconda del livello di attivazione: un’attivazione intensa potrebbe indurre un’emozione di paura e conseguente analgesia, mentre un’attivazione moderata potrebbe indurre ansia e iperalgesia. Anche per questa visione quantitativa riceve supporto dalla ricerca su animali (Walters, 1994; King et al., 1996; Meagher et al., 1998).
Comunque, indipendentemente dal fatto che la paura e l’ansia si differenzino qualitativamente o quantitativamente, entrambi i punti di vista predicono effetti divergenti sulla percezione del dolore. Entrambi infatti prevedono che l’esposizione diretta a un evento nocivo dovrebbe indurre alti livelli di paura e di eccitazione che inibiscono il dolore, mentre la minaccia moderata e relativamente diffusa di un evento futuro incerto, senza esposizione vera e propria, indurrebbe con frequenza uno stato di ansia anticipatoria (bassi livelli di paura e di arousal) che abbasserebbe la soglia del dolore.
In accordo con questo, la ricerca clinica indica che le vittime di traumi molto stressanti hanno una sensazione di intorpidimento e insensibilità al dolore durante lo stato di paura provocato dall’evento traumatico (Burgess e Holmstrom, 1976; Suarez e Gallup, 1979). Al contrario, i pazienti con ansia generalizzata sono ipervigilanti sui loro stati corporei interni (Barlow et al., 1996), cosa che aumenterebbe il focus attentivo sulla fonte del dolore, amplificando così la sua intensità percepita.
Rhudy e Meagher (1999) hanno deciso di esaminare direttamente gli effetti separati della paura e dell’ansia rispetto alla reattività al dolore nei soggetti umani. I loro risultati indicano che ansia e paura abbiano effetti divergenti sulla soglia di sensibilità al dolore. Più specificamente, hanno trovato che la paura, determinata dalla presentazione di shock moderati mediante uno stimolo ad alta temperatura, aumentavano la soglia di “ritrazione” del dito rispetto alla fonte di calore radiante; lo schema inverso è stato osservato invece nella condizione sperimentale che induceva ansia: avveniva un decremento della soglia di dolore ed una ridotta tolleranza dello stesso.
Bolles e Fanselow (1980) sostengono che ansia e paura siano stati mutualmente esclusivi. Assumono che la paura sia una condizione legata ad un allarme immediato verso una minaccia alla sopravvivenza, e dunque riduca la percezione del dolore promuovendo una reazione di attacco-o-fuga. Un possibile meccanismo di riduzione del dolore sembra essere legato agli effetti del rilascio degli oppioidi endogeni. Chapman e Turner (1986) argomentano che l’ansia invece aumenti l’attività del sistema simpatico, e il rilascio di epinefrina la quale può sensibilizzare o direttamente attivare i nocicettori. Questi autori hanno suggerito inoltre che la tensione muscolare che spesso si presenta negli stati ansiosi possa causare del dolore addizionale. D’altra parte, ci sono processi fisiologici associati all’ansia che possono ridurre il dolore, come ad esempio il rilascio di oppioidi endogeni (Thyer e Matthews, 1989).
Il ruolo delle aspettative e la predicibilità degli eventi avversivi
La capacità di predire la probabilità di un evento avversivo è un’importante capacità di adattamento. La certezza o l’incertezza riguardo agli stimoli dolorosi possono causare comportamenti, stati emotivi, orientamento del focus attentivo e cambiamenti percettivi differenti. Recenti studi di neuroimaging funzionale indicano che aspettative certe vs incerte vengono mediate da differenti circuiti cerebrali. La prima è associata all’attività della corteccia cingolata rostrale anteriore e del cervelletto posteriore, mentre la seconda situazione invece con cambiamenti di attivazione nella corteccia ventromediale prefrontale, nel cingolato mediale e nell’ippocampo (Ploghaus e coll., 2003).
L’aspettativa sembra essere un’importante fattore cognitivo che gioca un ruolo nel processo della percezione e della tolleranza del dolore. L’aspettativa inoltre, ha un ruolo importante non solo nel dolore acuto e cronico, ma anche in altri disturbi caratterizzati da aspettative certe (fobie specifiche) o incerte (ansia generalizzata) di eventi minacciosi.
La certezza soggettiva che un particolare evento avversivo sia imminente è solitamente associato con l’emozione di paura. Questa mobilita l’organismo verso l’azione (di attacco o di fuga) o, se queste opzioni non sono disponibili, comunque ad una minimizzazione dell’impatto della minaccia (ad esempio attraverso reazioni di freezing, a livello più comportamentale o, ad un livello più mentale, con reazioni dissociative).
In contrasto, l’incertezza riguardo la natura degli eventi (aspettative incerte) ha conseguenze alquanto differenti: si associa a stati emotivi di ansietà piuttosto che di paura, caratterizzati da comportamenti di accertamento del rischio o inibizione comportamentale e dall’incremento dell’allerta per l’ambiente circostante. La neuroanatomia funzionale in caso di aspettative “certe” di stimoli dannosi è stata esaminata da diversi ricercatori (ad es. Buchel, C. et al. 1998; Chua, P. et al. 1999; Ploghaus, A. et al. 1999)
In questi esperimenti dei segnali anticipati fungevano da predittori affidabili dell’imminente stimolazione, i quali consentivano ai soggetti di imparare dall’esperienza ad anticiparne le caratteristiche.
Questi studi concordano nel suggerire un ruolo della corteccia cingolata rostrale anteriore, dell’insula anteriore, e del cervelletto posteriore, che si attivano maggiormente, mentre non hanno trovato cambiamenti nell’attivazione di aree che solitamente sono associate alla percezione nocicettiva, come il cingolo-medio, l’insula mediale e il verme cerebellare. La funzione delle prime aree sembra essere dunque quella di mediare l’influenza delle aspettative “sicure” sulla percezione del dolore. Queste aree si attiverebbero inoltre indipendentemente dal fatto che le aspettative aumentino o diminuiscano la valutazione di pericolosità di uno stimolo.
Ansia ed aspettative incerte, aspetti neurofunzionali
A partire dallo studio pionieristico di Reiman e coll. (1989) sono state condotte diverse ricerche sulle aspettative associate al dolore. Sostanzialmente sono stati esaminati due tipi di incertezza: una relativa al verificarsi o meno dello stimolo nocivo, e l’altra relativa alla portata dell’intensità del dolore e dei danni conseguenti. Emerge che aspettative incerte sull’evento avversivo (se si verificherà o meno) sono associate all’attivazione della corteccia ventro-mediale prefrontale (vmPFC) della corteccia cingolata mediale e della corteccia somatosensoriale primaria.
Ad esempio Bechara e coll. (1996) dimostrarono che pazienti con lesioni alla vmPFC non avevano un aumento dell’arousal autonomico durante l’esecuzione di compiti di gambling ad alta incertezza e alto rischio. Un differente pattern di attivazione emerge invece quando i soggetti hanno la certezza che un certo evento sarà doloroso, ma sono incerti riguardo alla sua intensità.
Al riguardo, Simpson e coll (2001) mostrarono che l’incertezza circa l’intensità dello stimolo nocivo era associata ad un decremento dell’attività nella vmPFC e che la quantità della deattivazione era inversamente correlata all’ansietà circa la probabilità dell’imminente dolore: più i soggetti erano ansiosi, minore era la riduzione di attivazione nella vmPFC. Drevets e coll. (1995) trovarono anche una diminuzione di attivazione nella corteccia somatosensoriale primaria, mentre Hsieh e coll. (1999) trovarono similmente una riduzione di attività nella corteccia cingolata mediale.
Il ruolo dell’attenzione nella modulazione del dolore
In letteratura emerge che tra i fattori che si ritiene essere implicati insieme all’ansietà e alle aspettative nella mediazione del dolore ci sono quelli che concernono i meccanismi dell’attenzione.
La distrazione, intesa come il processo di spostamento dell’attenzione dalle sensazioni prodotte da uno stimolo nocivo, ha generalmente l’effetto di aumentare la tolleranza verso il dolore acuto. Sebbene molti studi indichino una diminuita tolleranza, altri studi mostrano che l’ansia ha l’effetto opposto, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984). Di particolare interesse è l’ipotesi che l’ansia possa esacerbare o alleviare la percezione del dolore, a seconda della direzione del focus attentivo. Evidenze empiriche suggeriscono che eventi particolarmente ansiogeni abbiano una grande efficacia nel distrarre l’attenzione dalla fonte dolore (Eccleston e Crombez, 1999).
Al contrario, il dolore indotto da un certo stimolo può essere esperito in modo più intenso se lo stimolo doloroso è esso stesso il focus dell’attenzione e provoca anche ansia.
James e Hardardottir, (2002) hanno esaminato gli effetti sia separati che combinati del focus attentivo e dell’ansia di tratto sulla tolleranza del dolore acuto. Dai loro risultati emerge che distrarsi dalla fonte di dolore migliora il grado di tolleranza allo stesso; inoltre, la tolleranza era maggiore in persone con una bassa ansia di tratto rispetto a quelle con elevata ansia di tratto.
Hanno trovato inoltre che il focus dell’attenzione e i tratti ansiosi del soggetto interagiscono, influenzando la soglia di tolleranza al dolore.
In linea di massima, gli autori suggeriscono che l’ansia di stato e l’ansia di tratto condividono gli stessi tipi di influenza sulla tolleranza al dolore ed entrambe le condizioni sembrano influenzate da fattori attentivi.
Arntz, Dreessen, e Merckelbach (1991) giungono ad ipotizzare esplicitamente che non sia l’ansia ad influenzare la percezione del dolore, ma piuttosto l’orientamento e l’intensità del focus attentivo. L’attenzione costituirebbe dunque una terza variabile interveniente nella relazione tra ansia e percezione del dolore, giocando un ruolo determinante in questa complessa dinamica.
L’influenza del fattore attenzione potrebbe spiegare anche perché alcuni studi trovano una correlazione positiva tra ansia e sensibilità al dolore, mentre altri studi trovano il pattern opposto: negli studi empirici l’ansia potrebbe essere stata confusa o condizionata da fattori attentivi.
Gli autori della ricerca hanno testato 4 ipotesi: 1) l’ansia aumenta la percezione del dolore 2) l’ansia diminuisce la percezione del dolore 3) l’attenzione focalizzata verso il dolore aumenta la sua percezione 4) solamente la combinazione di ansia e attenzione al dolore aumenta la percezione del dolore stessa.
In un disegno sperimentale 2×2 l’ansia (alta vs bassa) e l’attenzione (attenzione focalizzata vs distrazione dal dolore) sono state manipolate.
Il fattore di interazione tra ansia e attenzione non ha ricevuto supporto; Il fattore critico sembra essere stato il focus attentivo. L’attenzione verso lo stimolo doloroso era correlata ad un maggiore impatto del dolore, e ad una minore abituazione soggettiva allo stimolo doloroso rispetto alla condizione sperimentale di distrazione.
I risultati del loro esperimento indicano che l’attenzione focalizzata verso la sensazione dolorosa sembra legarsi ad una sua maggiore intensità percepita. In secondo luogo, i risultati di questi autori non supportano l’ipotesi che l’ansia sia direttamente correlata ad una maggiore sensazione dolorosa. Tuttavia, neanche l’ipotesi opposta, ovvero che l’ansia sia collegata ad una minore sensazione di dolore, riceve supporto.
Questo studio apre comunque la possibilità all’ipotesi che i risultati contraddittori trovati in precedenti ricerche siano il risultato dell’intervento dell’attenzione come terzo fattore, e dell’interazione di questa con gli stati d’ansia indotti sperimentalmente.
Basi neurali della regolazione emozionale del dolore
Ploghaus e coll. (2001) utilizzando la risonanza magnetica funzionale hanno comparato le risposte di attivazione ad una stimolazione termica dolorosa, mentre l’intensità percepita del dolore veniva manipolata sia attraverso cambiamenti nell’intensità fisica dello stimolo, che nell’intensità dell’ansia indotta. Come risultato hanno trovato che la corteccia entorinale della formazione ippocampale rispondeva in modo differente a stimoli della stessa intensità fisica, a seconda che l’intensità percepita del dolore fosse aumentata dall’ansia o meno. Durante questa regolazione “emozionale” le risposte della corteccia entorinale predicevano anche l’attivazione di aree cerebrali vicine connesse a risposte affettive (cingolato perigenuale) e di codifica dell’intensità degli stimoli (aree dell’insula mediale). Secondo gli autori questo supporta l’ ipotesi che durante uno stato d’ansia, l’ippocampo amplifichi la sensazione percepita degli stimoli avversivi, in modo da innescare poi risposte comportamentali che siano adattive di fronte alla peggiore delle eventualità.
In un precedente studio gli stessi autori (Ploghaus et al, 1999) hanno rivelato come il dolore prodotto da uno stimolo fisico e la sua anticipazione siano codificati da differenti substrati neurali; la modulazione della soglia dolorifica in conseguenza delle emozioni è stata comunque indagata anche da precedenti studi su animali (Fanselow, 1985; Helmstetter, 1992) ma attualmente non c’è un modello animale che descriva l’iperalgesia indotta dall’ansia.
Lo studio di Ploghaus e coll. del 2001 è stato condotto con l’intento di esaminare i meccanismi neurali attraverso i quali l’ansia è associata all’iperalgesia negli esseri umani. Nel loro compito sperimentale, un segnale visivo era seguito sempre da una stimolazione nocicettiva a bassa temperatura della mano sinistra. Il segnale veniva mostrato anticipatamente per evocare un basso livello di ansietà per lo stimolo doloroso in arrivo. Ad un secondo segnale visivo si faceva invece seguire nella maggior parte delle prove una stimolazione a bassa intensità, tuttavia, occasionalmente veniva presentata una stimolazione a temperatura più alta e quindi da maggiormente dolorosa. Questo segnale aveva lo scopo di evocare un’elevata ansia anticipatoria.
Attraverso questo compito, hanno potuto valutare se le sensazioni riportate dai partecipanti e le corrispettive risposte di attivazione cerebrale variavano in funzione dei livelli di ansietà. Dai risultati è emerso che la variazione emodinamica della corteccia entorinale era significativa.
La variazione dell’intensità del dolore prodotta semplicemente dallo stimolo fisico, dunque dalla temperatura, produceva invece una risposta emodinamica sempre nella formazione ippocampale ma in una regione più dorsale.
Già nel 1968 Melzack e Casey avevano proposto che l’ippocampo e le aree associate partecipassero nel mediare le risposte emotive agli stimoli avversivi e nell’influenzare le caratteristiche del dolore. Seguenti studi confermano un ruolo dell’ippocampo nel processamento della sensazione dolorosa.
Studi su stimolazioni e lesioni della corteccia cerebrale confermano che il processamento del dolore è una funzione primaria dell’ippocampo. Prado e Roberts (1985) dimostrarono che la sua regione dorsale è una delle aree cerebrali dove la stimolazione elettrica altera la nocicezione ma crucialmente, la stimolazione stessa non viene percepita come dolorosa.
La teoria di Gray-McNaughton sulla modulazione del dolore
La teorie di Gray-McNaughton (2000) propone che la formazione ippocampale risponda ad eventi avversivi (come ad esempio il dolore) quando questi conducono ad un conflitto comportamentale, e risolve il conflitto inviando segnali di attivazione alle rappresentazioni neurali degli eventi avversivi attesi, polarizzando così l’organismo verso un comportamento che possa essere adattivo anche nel peggiore degli scenari. Questo processo è accompagnato da uno stato d’ansia. Un ruolo della corteccia entorinale nella detezione dei conflitti è stata proposta anche in modelli teorici della memoria nell’ippocampo (Lavenex and Amaral, 2000; Witter et al., 2000). Applicato allo studio di Ploghaus e coll. di cui si è parlato sopra, il conflitto comportamentale può nascere nella condizione Bassa temperatura/alta ansietà; poiché il segnale di alta ansietà non è un predittore affidabile dell’intensità del dolore che sopraggiungerà, risposte di adattamento differenti, corrispondenti a diversi livelli di dolore atteso, competeranno tra loro in assenza di una predicibilità precisa rispetto all’evento avversivo incombente.
La teoria di Gray-McNaughton predice che in una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/alta ansietà rispetto ad una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/bassa ansietà, ci dovrebbero essere: 1) più alti livelli di ansia 2) maggior percezione del dolore 3) attivazione della formazione ippocampale 4) rappresentazioni mentali di dolore e ansietà. L’ippocampo sembra essere deputato a risolvere precocemente questo conflitto amplificando l’intensità della sensazione di dolore, in modo da favorire la priorità a risposte comportamentali adattive nella peggiore delle eventualità, ovvero quando il dolore è molto intenso.
Questo modello costituisce un’interessante e plausibile spiegazione di stampo biologico-evoluzionista che rende conto di come gli stati d’ansia siano dei meccanismi evolutivamente fondati con il preciso scopo di tutelare l’organismo da danni, lesioni e dalla morte stessa, mettendolo in allarme e permettendogli di evitare le potenziali situazioni dannose. E di come talvolta in natura siano necessarie delle reazioni paradossali come quella di aumentare la sofferenza dell’individuo rendendolo più sensibile al dolore abbassandone la soglia di detezione e amplificando la percezione della sua intensità pur di assicurarne la sopravvivenza.