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Il disturbo dissociativo di identità: il trattamento cognitivo-comportamentale – Recensione

La terapia cognitivo comportamentale del disturbo dissociativo di identità si basa sulla teoria della dissociazione strutturale della personalità 

Di Massimo Amabili

Pubblicato il 20 Set. 2016

Il Disturbo Dissociativo di identità è un argomento notoriamente complesso, su cui è da tempo aperto un interessante dibattito scientifico. Questo libro si offre come valido contributo su tale tema, affrontandolo a partire dalle basi neurofisiologiche della coscienza fino ad arrivare alle metodologie diagnostiche e all’intervento clinico (psicofarmacologico, psicoterapeutico e riabilitativo).

 

Introduzione

L’approccio terapeutico cui gli autori dedicano lo spazio maggiore è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, declinata nelle sue varie accezioni (CBT, EMDR, terapia dialettico-comportamentale, ACT e mindfulness), considerata in questo periodo la psicoterapia più efficace da un punto di vista scientifico (Layard e Clark, 2014), offrendo spunti interessanti sul ruolo della riabilitazione psichiatrica nei disturbi dissociativi.

Nella prima parte il testo offre spazio ai più recenti aspetti di neurofisiologia della coscienza, partendo dalle concettualizzazioni di Jaspers fino alle teorie di ordine superiore della coscienza e agli studi effettuati attraverso le tecniche di neuroimaging dei giorni nostri. Molto interessante ed esplicativo è il capitolo dedicato alle patologie della coscienza, che partendo dalla patologia estrema, il coma, descrive tutti gli stati intermedi di patologia di tipo quantitavo, qualitativo e quali-quantitativo.

Tra i disturbi qualitativi della coscienza vengono individuati i disturbi dissociativi, di cui il testo propone un approfondimento diagnostico secondo le caratterizzazioni del DSM-5 e dell’ICD-10, precisando che: [blockquote style=”1″]la dimensione “dissociatività” si colloca in un continuum psicopatologico che spazia da un livello “normale” ad uno “patologico”, questa va da un’attenzione divisa, focalizzata o totalmente concentrata su di uno stimolo come quello ipnotico a disturbi che causano un notevole disagio psicosociale (disturbi dissociativi).[/blockquote]

La teoria della dissociazione strutturale della personalità

Viene quindi spiegata la teoria della dissociazione strutturale della personalità, che, in seguito ad un evento traumatico, distingue due prototipi dissociativi dell’identità: la Parte Apparentemente Normale (PAN) e la Parte Emotiva (EP) (Schlumpf et al. 2014). I soggetti che manifestano la Parte Apparente Normale non riescono a personificare le esperienze traumatiche e i ricordi, in essi si riscontra un certo grado di amnesia retrograda, presentano sintomi di depersonalizzazione ed una sensazione di intorpidimento fisico. I soggetti con PAN mostrerebbero un basso coinvolgimento emotivo nei confronti del trauma subito.

Altri individui mostrano quella che è definita Parte Emotiva (EP), a sua volta suddivisa in due principali sottotipi:
– Difesa attiva: associata ad emozioni intense, come la paura (regolate dal sistema nervoso simpatico).
– Difesa passiva: che si manifesta con un intorpidimento emotivo, come se l’individuo fosse anestetizzato.

Le risposte al trauma degli individui che mostrano EP attive sono emotive e corporee (come riscontrato anche nei soggetti affetti da Disturbo Post Traumatico da Stress).

Gli autori distinguono tra 3 tipi di dissociazione strutturale della personalità: Primaria (con la presenza di una Parte Apparentemente Normale e una Parte Emozionale. Solitamente la PAN è quella che prevale con una sorta di autocontrollo che può sfociare nell’amnesia dell’accaduto. La Parte Emozionale è presente in maniera latente, causando disagi al soggetto, non essendo pienamente cosciente), Secondaria (sopravvento delle Parti Emozionali rispetto alla Parte Apparentemente Normale), Terziaria (caratterizza la maggior parte dei casi di disturbo dissociativo di identità e rappresenta la forma più grave di dissociazione. Sono presenti più Parti Emotive e più Parti Apparentemente Normali, che interagiscono fra loro, fino a essere indistinguibili.).

Gli autori affrontano quindi il tema del Disturbo Dissociativo di Identità, presentandone le differenze nosografiche tra la versione del DSM-IV e quelle del DSM-5, le caratteristiche cliniche, il corso del disturbo, gli aspetti epidemiologici ed etiologici (con attenzione orientata alle differenti forme di trauma e le risposte umane ad essi), la comorbidità con gli altri disturbi psichiatrici (ad es. epilessia del lobo temporale, sclerosi multipla, trauma cranici, emicrania, DPTS, disturbo Borderline di personalità, ecc.) ed infine la diagnosi differenziale.

Gli strumenti di valutazione del disturbo dissociativo di identità

Successivamente il testo presenta sommariamente gli strumenti di valutazione utilizzati per la diagnosi del disturbo dissociativo di identità: Dissociative Experiences Scale (DES); Dissociative Experiences Scale-II (DES-II); The Child Dissociative Checklist (CDC); Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS); Structured Clinical Interview for Dissociative Disorders (SCID-D); Questionnaire on Experiences of Dissociation (QED); Cambridge Depersonalization Scale (CDS); The Dissociative Experiences Scale Taxon (DES-T); The Multidimensional Inventory of Dissociation (MID); The Depersonalization Severity Scale (DSS); The Adolescent Dissociative Experiences Scale (A-DES); Fewtrell Depersonalisation Scale; Wessex Dissociation Scale.

Le terapie del disturbo dissociativo di identità

Gli autori affrontano in seguito le possibili terapie, partendo da quelle farmacologiche che sono legate ai mutevoli sintomi che il paziente può presentare, a quelle psicoterapiche che mirano all’integrazione delle diverse personalità presenti nel disturbo dissociativo.
Viene poi descritto l’intervento attraverso l’ipnosi, che permette di esplorare tematiche latenti nella coscienza dell’individuo. L’intervento con l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) invece prevede il riaffiorare dei ricordi relativi ad un evento traumatico da parte del paziente mentre fa con gli occhi dei movimenti, che seguono uno stimolo luminoso o sonoro.
Questi movimenti permetterebbero l’intensificazione delle connessioni fra l’emisfero destro e quello sinistro del cervello, migliorando la memoria del soggetto (Samara et al., 2011).

Particolare approfondimento è dato dagli autori alle Tecniche Cognitivo-Comportamentali (CBT), che tendono a promuovere con molta attenzione la trasformazione degli errori cognitivi (che nel disturbo dissociativo hanno anche un grande significato strategico e difensivo) con cognizioni più salutari, piuttosto che ad una loro semplice classica sostituzione; per questi motivi si preferisce promuovere l’apprendimento di un più ampio repertorio di strategie di coping.

Successivamente viene descritta anche la Terapia dialettica comportamentale (DBT), tesa fondamentalmente ad ottenere nei pazienti l’accettazione (volta a contrastare le sensazioni di impotenza del paziente) e il cambiamento (di quei pensieri disfunzionali, che causano una disregolazione delle emozioni). L’ Acceptance and Commitment Therapy (ACT) è anche un intervento che può aiutare i pazienti con Disturbo dissociativo di identità, attraverso l’accettazione delle proprie emozioni legate ai traumi passati, che non consiste nell’acconsentire in ogni situazione (ad esempio, relazioni
violente), ma nell’accettare quelle che sono le circostanze legate al passato, con l’aspettativa di un eventuale cambiamento. Questo cambiamento deve avvenire nel presente (Mattaini, 1997). Uno degli scopi dell’ACT è quello di raggiungere una flessibilità psicologica, per stimolare il soggetto a vivere il presente, modulando i comportamenti secondo la situazione che si sta vivendo (Masuda e Tully, 2012).

Gli autori descrivono anche l’intervento Mindfulness, che attraverso un’apertura all’esperienza e al riconoscimento dei propri sentimenti, e una maggiore conoscenza dei contenuti a livello cognitivo che garantisca una possibilità di cambiamento delle cognizioni disfunzionali, mira a rendere i pazienti consapevoli e capaci di accettare la realtà, permettendo loro di tollerare meglio le situazioni stressanti.

Spunto originale è il capitolo dedicato al ruolo della riabilitazione psichiatrica (tuttora sperimentale), che si prospetta utile considerando che la terapia può durare molti anni (Braun, 1986; Cohen et al., 1991) e gli interventi effettuati possono essere necessari per mantenere o sviluppare competenze funzionali o per facilitare l’integrazione dei traumi passati con la vita presente. Gli interventi riabilitativi, affiancati alla psicoterapia, aumentano il senso di benessere del paziente, permettendo l’emergere spontaneo delle differenti identità.

E’ fondamentale però che tali interventi avvengano in equipe, in modo tale che il riabilitatore sui supervisionato da un possibile coinvolgimento eccessivo nei confronti di un paziente con una diagnosi così affascinante. Tra i possibili interventi del riabilitatore psichiatrico vengono descritte le attività espressive (disegno, produzione musicale, movimento), l’arteterapia (un buono strumento per promuovere la padronanza in esperienze di vita che impediscono l’indipendenza personale) e la tecnica del gioco con la sabbia. Quest’ultima è una tecnica che in origine era utilizzata solo da psicoterapeuti ad orientamento psicodinamico; oggi, invece, può essere utilizzata anche dai riabilitatori psichiatrici, con il supporto di un terapeuta.

Questa tecnica è riconducibile ai rituali primitivi, in cui erano disegnati nella sabbia dei cerchi a scopo protettivo ed apotropaico.
Sostanzialmente gli autori offrono un testo utile per gli addetti ai lavori, evidenziando nozioni e spunti applicativi interessanti sul Disturbo dissociativo di identità, disturbo molto complesso il cui trattamento risulta essere molto impegnativo: [blockquote style=”1″]Il paziente ha la necessità di vedersi come “intero” e non come uno specchio rotto, in cui la sua immagine riflessa risulta come sconnessa. Per farlo deve scoprire cosa è accaduto, chi e che cosa hanno ridotto quello specchio in più pezzi. Non è in grado di farlo da solo, a causa delle amnesie e deve essere aiutato da persone competenti, che riescono ad ottenere la sua fiducia.[/blockquote]

 

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Massimo Amabili
Massimo Amabili

Psicologo e Psicoterapeuta specializzato in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • D'Ambrosio, A., Costanzo, F. (2016). Il disturbo dissociativo d'identità. Il trattamento cognitivo-comportamentale. Franco Angeli editore.
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