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Il rimpianto del passato e dell’amore perduto negli italiani

Spesso vi è la tendenza a ruminare e a rimpiangere le esperienze passate per un senso di perdita di sé ma questo genera tristezza e pessimismo.

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 18 Dic. 2015

Aggiornato il 23 Giu. 2016 09:53

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il  12/12/2015

 

Si dice che gli italiani siano perennemente rivolti a un passato da sognare o da maledire e rimproverare. Rinchiusi in un pensoso ruminare, rivanghiamo un’età dorata ormai sfuggita e preferiamo perderci in essa, invece che goderci il presente.

Alcuni rimpiangono Berlinguer, altri l’Impero Romano, altri ancora –più laici- il Rinascimento. I migliori sono forse quelli che rimpiangono un amore perduto. In questa perdita hanno perso il senno, come un Orlando Furioso senza un Astolfo che si sobbarchi il viaggio sulla luna per recuperarlo.
Eppure anche in questo caso abbiamo nostalgia di noi stessi, di un noi stessi immaginario e migliore che affonda la sua esistenza nel passato.

[blockquote style=”1″]Quello che mi manca di lui sono io quando stavo con lui[/blockquote]

scrive Chiara Gamberale, ed è un buon modo per individuare il nocciolo di ogni nostalgia. Ritorniamo a cercare noi stessi in un’illusione di felicità. Può accadere volontariamente oppure il ricordo può sorgere inaspettato, come nella madeleine di Proust. In quel caso, fu la fisiologia a squadernare la psicologia del ricordo e della nostalgia. Anche se non si trattava di un ricordo d’amore, ma di una memoria infantile, quello delle vacanze estive a Balbec e delle visite alla zia Leonie. Grazie al profumo di un alimento.

O come le poesie d’amore di Vincenzo Cardarelli, intrise dello struggimento autunnale dell’amore perduto per Sibilla Aleramo, troppo spregiudicata e libera per il timido poeta. Il senso desolante della fine si mescola all’amarezza per la delusione:

[blockquote style=”1″]Dovevamo saperlo che l’amore / brucia la vita e fa volare il tempo.[/blockquote]

L’ansia patologica di cui era vittima Cardarelli era il terrore di essere lasciato solo, il timore pervasivo del non sentirsi adatti. Non solo nell’addio definitivo, ma perfino negli arrivederci Cardarelli coglieva i presagi di una separazione:

[blockquote style=”1″]Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo/così, senza speranza./Se tu sapessi com’è già remoto/il ricordo dei baci/che poco fa mi davi,/di quel caro abbandono,/di quel folle tuo amore ov’io non mordo/ se sapore di morte.[/blockquote]

Si tratta di un trauma, e del trauma ha tutte le caratteristiche. Il senso d’irrealtà con i sensi al tempo stesso acutizzati e rallentati, la realtà quotidiana attorno a noi diventata falsa e irrilevante, come se ci trovassimo sotto ad una campana di vetro. Arrivano involontariamente pensieri, ricordi e immagini di quello che è successo e che è stato per sempre perduto. Sono i pensieri intrusivi, sgraditi compagni del dolore. E poi si rimugina infinitamente sull’evento, si rimestano i ricordi, si pensa ripetutamente a quello che è accaduto per cercare di capire le ragioni dell’infelicità; ma non c’è nulla da capire.

È la cosiddetta ruminazione, studiata dalla ricercatrice Nolen-Hoeksema (1991). Una catena di pensieri e quesiti generici e astratti che una persona inizia a porre a se stessa in risposta al suo stato emotivo triste e depressivo.

Perché succede a me? Perché mi sento così triste? Perché reagisco sempre in questo modo? Perché non riesco a dare un senso a quello che mi succede?

Un altro termine che si usa in psicologia è brooding, la passiva contemplazione di ciò che c’è di sbagliato nella propria vita; è una forma di ragionamento astratto orientato a ripetersi domande sul “perché” degli eventi e dei sintomi senza cercare una soluzione attiva (es: “perché capita sempre a me e non agli altri?”).

Indubbiamente questa situazione riflette una mentalità passiva e una situazione nella quale non vi è possibilità di riscatto e progresso. Può essere la situazione di un amore disperato, o anche il riflesso di una condizione amara e priva di speranze. Questa mentalità dovrebbe essere stata spazzata via dalla nozione moderna di progresso e di fiducia nelle capacità umane di migliorare se stessi e il mondo. Le culture antiche erano invece malate di nostalgia. Il passato era inevitabilmente migliore, anzi perfetto. Un’età dell’oro che non si sarebbe mai più ripetuta. Poi la decadenza, dall’argento al bronzo fino al presente grigio e ferreo, violento e ingiusto. Questa psicologia pessimistica rifletteva le difficili condizioni di vita del passato e così inventava una nostalgia per un’epoca immaginaria e senza tempo dove si può godere di un’abbondanza illimitata, un mondo privo di sofferenza e mortalità, pieno di vitalità e piaceri. È il mito dell’Età dell’Oro.

Fu Jung, ispirandosi all’antropologia di Fraser e Antkinson, a proporre che il mito sia un’espressione narrativa e simbolica, di una realtà psichica umana.

Il mito come una manifestazione collettiva dello spirito umano, di cui rivela e, al tempo stesso, dissimula le tendenze inconsce. La psicologia moderna ridimensiona l’importanza della componente inconscia ma accetta le intuizioni di Jung: la psiche umana nasconde un sogno –per nulla inconscio- di un’utopia, un sogno in cui risuoni l’eco di un passato antico ormai perduto in cui si godeva di un’ideale e perfetta società. Questo sogno è anche la speranza di una rinnovata epoca di pace, giustizia e abbondanza che raggiungeremo in futuro.

La modernità ha segnato una svolta, il passaggio da una mentalità pessimistica e volta al passato a un atteggiamento diretto al futuro, ottimistico e fiducioso nel progresso. Non è detto che la nuova mentalità non condivida qualcosa di quella antica. Il sogno dell’abbondanza forse rivive nella previsione di una futura potenza tecnologica che inaugurerà un’età di abbondanza per l’umanità, stavolta non più nostalgica ma realizzazione pratica dell’esplosione dell’Intelligenza con la I maiuscola, nuova dea della modernità disincantata, e dell’avanzamento esponenziale della sua sposa, la Tecnologia.

Nei popoli mediterranei questa fede nel progresso è meno diffusa e lo sguardo all’indietro sopravvive più strenuamente. Il presente si unisce a un senso d’insufficienza e di delusione, mentre l’antichità, che sia trascorsa da pochi decenni o da secoli e perfino millenni, si colora dell’oro della felicità e dell’amore perduto. E su questo ci piace ruminare, magari leggendo i versi di Vincenzo Cardarelli.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Nolen-Hoeksema, S. (1991). Responses to depression and their effects on the duration of depressive episodes. Journal of Abnormal Psychology, 100, 569–582.
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