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Adolescenza e devianza, tra analisi scientifica e stigma sociale – L’evoluzione dei contributi psicologici

L’analisi della devianza in adolescenza necessita di una visione completa delle caratteristiche psicologiche e sociali specifiche di questa fase di sviluppo %%page%%

Di Elena Copelli

Pubblicato il 03 Dic. 2015

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 4

Superando le visioni causalistiche che vedono un nesso diretto tra determinate caratteristiche psicologiche e psicopatologiche e comportamento criminale, la psicologia recupera l’importanza delle mediazioni cognitive e interattive e dei significati sociali e simbolici che definiscono le azioni umane. In questo senso, si tenta un superamento delle teorie psicologiche classiche che hanno tentato di spiegare il comportamento criminale e deviante, non senza cadute nel determinismo e nel riduzionismo.

In primis si tenta un superamento delle teorie della personalità, che concepivano la personalità come rigida costellazione di tratti in gran parte immutabili nel tempo e resistenti al cambiamento; inoltre, anche le teorie che propongono come assioma quello basato sulla triangolazione frustrazione-aggressività-criminalità, risultano insufficienti e parziali nell’analisi del comportamento criminale che mostra caratteristiche tutt’altro che lineari e sequenziali.

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Alla luce di queste valutazioni critiche e di fronte alla necessità di sviluppare nuove cornici teoriche per affrontare lo studio dei comportamenti devianti e criminali, a partire dagli anni ’80, emergono nuove prospettive psicologiche e nuove cornici interpretative ricche di concetti innovativi e di grande valore epistemologico.

In ambito comportamentista, si deve ad Albert Bandura (1996) il merito di aver superato le rigide visioni stimolo-risposta e di aver proposto una teoria complessa social-cognitiva del comportamento, della personalità e quindi anche della spiegazione della devianza. I concetti di “determinismo triadico reciproco”, “autoefficacia percepita”, “agency” hanno infatti rappresentato una svolta nella lettura dei comportamenti umani, compresi quelli devianti o problematici. Il concetto di uomo che emerge dalla visione di Bandura è quello di un agente attivo, un essere complesso e competente in grado di agire in maniera attiva sul proprio ambiente sociale.

Per quanto riguarda più strettamente l’analisi della condotta deviante, Bandura (1996) introduce il concetto di “disimpegno morale”, intendendo il complesso di strategie socio-cognitive adottate dagli individui per svincolarsi da responsabilità e giudizi, pur salvaguardando il proprio sistema di valori morali (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996; De Leo, 1998; De Leo e Patrizi, 1999; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004); secondo Bandura, infatti, è sostanzialmente in virtù dell’azione di meccanismi interni di autoregolazione che può realizzarsi una forma di disimpegno morale per cui diventa ammissibile una condotta precedentemente riprovata (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995). Un forte e costante utilizzo di questi processi cognitivo-sociali, messi in atto individualmente o in gruppo, sembrano correlati positivamente con un orientamento alla devianza (Bandura, 1996; De Leo, 1998).

Più dettagliatamente, si tratta di [blockquote style=”1″]processi di disattenzione, distorsione, misinterpretazione tramite i quali si può venire a creare una frattura nel pensiero morale e tale da giustificare condotte che di norma sono incompatibili con il proprio codice morale e con il mantenimento della stima di sé[/blockquote] (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995, p. 20).

Bandura sottolinea nella descrizione degli otto meccanismi di disimpegno morale come questi permettano di realizzare un modo di pensare [blockquote style=”1″]che porta a una derubricazione morale del danno prodotto e che giustifica condotte che di norma sono condannate sul piano morale. Si creano le condizioni mentali per agire in contraddizione con il proprio codice morale senza dovervi abdicare[/blockquote] (Caprara e Malagoli Togliatti, 1996, p. 14):
– la giustificazione morale è un tipo di pratica per cui il disimpegno morale opera direttamente sull’interpretazione del comportamento stesso; il comportamento reprensibile e dannoso è reso personalmente e socialmente accettabile dipingendola al servizio di scopi sociali e morali più elevati, in modo tale da poter mantenere un giudizio positivo di sé;
– l’etichettamento eufemistico permette di mascherare attività reprensibili o di conferirvi uno status di rispettabilità;
– il confronto vantaggioso, sfruttando il principio del contrasto, permette di far passare un’azione deplorevole per accettabile o giusta, confrontandola con una ancora più riprovevole;
– il dislocamento della responsabilità permette di zittire le sanzioni interne spostando la fonte di responsabilità da se stessi ad altre persone, solitamente più autorevoli cui non era possibile sottrarsi;
– la diffusione della responsabilità permette di indebolire le sanzioni interne diffondendo la responsabilità ad altri specifici o in senso generale; questa strategia è spesso utilizzata dai gruppi o dalle bande criminali in quanto “se tutti sono responsabili, nessuno lo è veramente” (Bandura, 1996, p. 70)
– la distorsione delle conseguenze agisce ignorando o distorcendo gli effetti delle proprie azioni;
– la deumanizzazione della vittima, infine, funziona attribuendo alla vittima dell’azione reprensibile o violenta assenza di sentimenti o caratteristiche umane o spregevoli, conferendole uno status di inferiorità subumana o bestiale.

Bandura sottolinea inoltre che i diversi meccanismi di disimpegno morale possono facilmente combinarsi insieme, producendo un potenziamento reciproco e non una semplice sommatoria di effetti.

In una ricerca di Caprara, Pastorelli e Bandura (1995), gli autori hanno verificato la validità interna e di costrutto di due scale di misurazione dei meccanismi di disimpegno morale in bambini e adolescenti in correlazione ad altre scale di valutazione della condotta aggressiva e impulsiva; i risultati hanno confermato la validità delle due scale per la misura del disimpegno morale in entrambi i campioni, mostrando forti collegamenti tra disimpegno morale e condotte aggressive. In particolare nel gruppo degli adolescenti, i risultati mostrano una elevata correlazione tra disimpegno morale e atteggiamenti come la tolleranza alla violenza,[blockquote style=”1″] a conferma dell’emergenza di una precisa costellazione mentale che giustifica il ricorso all’aggressione e alla violenza[/blockquote] (ibid., p. 27).

I dati confermano quindi l’impianto teorico di Bandura e permettono di concludere che le forme persistenti di devianza, in particolare in adolescenza, risultano correlate significativamente non solo con un alto livello di disimpegno morale (Caprara, Pastorelli e Bandura, 1995; Caprara e Malagoli Togliatti), ma anche con un basso livello di autoefficacia percepita (De Leo, 1998).

De Leo (1998) concepisce la devianza minorile come una funzione comunicativa articolata e complessa, spiegabile attraverso l’analisi dei sistemi di appartenenza del soggetto (famiglia, gruppo dei pari, istituzioni). Il punto di vista dell’autore abbraccia tutte le più recenti acquisizioni epistemologiche provenienti dalla scuola sistemico-relazionale, interazionista, social-cognitiva, superando definitivamente la visione del comportamento umano come determinato da pressioni fisiche, ambientali, familiari o psicopatologiche. Il fuoco dell’attenzione viene centrato sulle funzioni e sugli effetti che la devianza svolge in questi processi e interazioni, per i sistemi e i soggetti coinvolti.

L’autore definisce la devianza come “azione comunicativa” in quanto capace di richiamare inevitabilmente l’attenzione dei sistemi sociali in cui si verifica, sollecitando risposte di controllo, reazione o disapprovazione e, ricorsivamente, la struttura sociale e i sistemi di controllo rimandano al soggetto che ha commesso l’azione deviante informazioni di ritorno che fungono da feedback e da guida nelle scelte che il soggetto metterà in atto in futuro. Parlare di devianza come di una forma di comunicazione complessa e sfaccettata, significa tenere conto della condizione di coevoluzione e di circolarità interattiva in cui sono coinvolti due sistemi simbolici: un microsistema, ovvero il soggetto che agisce e che invia messaggi precisi (anche se spesso difficili da decifrare), e un macrosistema istituzionale, che risponde con altrettanti messaggi in un processo dinamico e retroattivo. La scelta di una teoria della devianza come comunicazione consente di ottenere un’analisi più complessa delle condotte criminali, in particolar modo di quelle messe in atto da minori in quanto, in età evolutiva, la dimensione comunicativa/espressiva della devianza prevale su quella strumentale (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003):

[blockquote style=”1″]I ragazzi vivono meno la funzione strumentale del loro comportamento, mentre esprimono più bisogni legati all’identità, alle relazioni, ecc. Questo conferisce particolare rilievo ad un approccio della devianza come comunicazione per spiegare e comprendere i comportamenti fuori legge dei giovani come complessa espressione di soggettività in evoluzione e in relazione[/blockquote] (De Leo, 1998, p. 145)

Una prospettiva di questo genere può offrire preziose indicazioni su come analizzare e interpretare non solo azioni francamente criminali, di ampia gravità (come i reati contro la persona) ma anche altre azioni devianti, frequenti e diffuse tra gli adolescenti, che, ad una prima e superficiale analisi, rimangono senza spiegazione oppure sono sbrigativamente relegate nell’ambito della patologia mentale o del disagio psicosociale; ne sono un esempio il vandalismo, il consumo di sostanze psicoattive, le prepotenze in ambito scolastico, gli scontri negli stadi di calcio. Tutte queste azioni portano con sé intrinsecamente significati e valori relazionali, culturali e simbolici che le diverse figure professionali devono impegnarsi a decifrare: potrebbero essere un segnale di disadattamento psicologico, sociale o familiare, ma potrebbero anche, ad un’analisi più profonda, esprimere bisogni maturativi, identitari, affettivi (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

De Leo propone un ulteriore approfondimento nell’analisi degli effetti comunicativi ed espressivi dell’azione deviante in adolescenza, distinguendo:
– effetti legati all’identità: ogni azione comunica all’autore stesso e agli altri segni e significati relativi alla propria identità in chiave situazionale ed evolutiva;
– effetti relazionali: l’azione contiene messaggi di relazione interpersonale che riguardano sia le persone direttamente coinvolte nell’azione sia, simbolicamente, i propri gruppi di appartenenza;
– effetti legati a regole interpretative dell’azione: l’azione è il risultato di processi interpretativi regolati da codici generalizzati;
– effetti di sviluppo: ogni azione è svolta in un’ottica di mantenimento/cambiamento, esprimendo esigenze di sviluppo e cambiamento in relazione alla personalità dell’autore e/o ai contesti in cui l’azione si colloca (scuola, famiglia, coetanei);
– effetti normativi e di controllo: riguardano il rapporto con le sanzioni, le norme penali e le regole informali. Facendo diretto riferimento al concetto sistemico di “ridondanza”, intesa come strutturazione di significati (De Leo e Mazzei, 1989), De Leo ipotizza quindi che in particolare in adolescenza [blockquote style=”1″]ogni azione contenga ridondanze rispetto all’identità[/blockquote] (1998, p. 154), comunicando segni e significati riguardo l’identità in costruzione.

Questa impostazione teorica ha importanti ricadute anche sul piano metodologico; per analizzare l’azione umana nel suo senso di comunicazione di stati mentali e identitari profondi, risultano infatti inadeguati gli strumenti quantitativi come i questionari. Inoltre, il professionista che si occupa di azioni trasgressive e violente in ambito giudiziario si trova di fronte all’impossibilità di osservare direttamente l’azione in questione, in quanto già avvenuta; egli ha a disposizione resoconti, atti giudiziari, ricostruzioni dei fatti e anamnesi psicologiche avvenute dopo l’azione. Al professionista, soprattutto quando è lo psicologo clinico o forense, si prospetta quindi un lavoro di ricostruzione dell’azione e dei suoi legami complessi con l’autore, la vittima e il contesto attuale e pregresso in cui l’azione stessa ha avuto luogo (De Leo e Malagoli Togliatti, 2000). L’indagine psicologica in questo settore aspira quindi alla conoscenza della verità, pur partendo dal presupposto che il sapere scientifico non è mai possessore della verità assoluta ma in continua tensione verso di essa (Rossi e Zappalà, 2004). Infatti, se il giurista ha il compito di ricostruire la realtà fattuale e oggettiva, per avere la certezza di attribuibilità all’imputato, lo psicologo si pone l’obiettivo di [blockquote style=”1″]ascoltare, comprendere, interpretare sia le parole e la comunicazione che il soggetto va ricostruendo sulla sua azione trasgressiva, sia i significati e i segni che l’azione stessa esprime sul soggetto[/blockquote] (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986, p. 267).

Coerentemente con questa concezione della ricostruzione dell’azione, De Leo, Bosi e Curti Gialdino (1986) propongono uno schema categoriale esplorativo per l’analisi delle funzioni psichiche e comunicative dell’azione violenta in adolescenza. Tale schema scompone ulteriormente l’azione in diverse componenti tra loro correlate e in interazione:
– gli scopi e le intenzioni ai quali l’individuo lega l’azione violenta;
– le regole implicite ed esplicite applicate dall’individuo nel corso della propria azione, con  riferimento al contesto normativo e alla percezione dell’antigiuridicità dell’azione violenta;
– i significati di autorappresentazione assegnati alla propria azione, la forma e il messaggio comunicati attraverso l’azione, la funzione di sviluppo o di passaggio che l’azione assume in senso sia psicologico che relazionale.

Questo schema consente di far emergere operazioni mentali, cognitive, comportamentali utili per la conoscenza dell’azione dal punto di vista sia psicologico che giuridico. Nell’analisi delle azioni violente commesse in maniera specifica da adolescenti sono risultate particolarmente feconde le dimensioni del significato di autorappresentazione e della funzione evolutiva dell’azione, con ricadute preziose anche sul piano del lavoro clinico e riabilitativo (De Leo, Bosi e Curti Gialdino, 1986). Gli autori confermano quindi che l’azione violenta in adolescenza sia portatrice di una capacità propulsiva di rompere condizioni di staticità e rigidità nel sistema psichico e relazionale dell’adolescente, e di una funzione intrinseca e strategica di realizzare uno sblocco evolutivo (ibid.). La concezione sistemica e costruzionista della devianza come azione comunicativa e portatrice di significati personali, relazionali e sociali complessi ha quindi completamente rivoluzionato il quadro teorico e metodologico riguardo le condotte devianti adolescenziali; tuttavia, da sola, essa non spiega come da una singola azione deviante o trasgressiva si passi ad un vero e proprio stile di vita deviante, caratterizzato non solo da comportamenti trasgressivi e/o criminali, ma anche da un complesso sistema di rappresentazioni di sé e degli altri, di aspettative, di valori e significati. Rimangono quindi non chiarite le modalità e le situazioni attraverso cui avviene il passaggio dalla messa in atto di una singola azione deviante all’acquisizione di uno stile cognitivo, comportamentale e relazionale di tipo deviante o criminale. In particolare in adolescenza infatti, è alquanto probabile e altamente frequente la messa in atto di atti devianti o trasgressivi che assumono inizialmente la forma dell’attività ludica, del piacere della trasgressione, soprattutto se agiti in gruppo, tanto che alcuni autori (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004) parlano della presenza di una trasgressione “fisiologica” in adolescenza e quindi funzionale al superamento dei difficili compiti di sviluppo fase-specifici; mentire, disobbedire, saltare la scuola, avere comportamenti sessuali precoci, fare uso di tabacco, alcol o altre sostanze, commettere qualche piccolo furto sarebbero quindi espressione di una trasgressività specifica dell’adolescenza, che non necessariamente si trasforma in azioni criminali vere e proprie, anche se di diversa gravità, e in una identità deviante.

Per sopperire a questa lacuna, De Leo e Patrizi (1999) propongono un modello di analisi centrato sul concetto di “carriera deviante”, che per le sue caratteristiche di sequenzialità e processualità appare particolarmente indicato per l’analisi delle condotte devianti reiterate e recidive. La devianza viene quindi intesa come un percorso, un processo, piuttosto che l’effetto o il prodotto di fattori e cause antecedenti; tale processo presenta, secondo gli autori, un carattere attivo, costruttivo, nel senso che si sviluppa producendo e organizzando connessioni fra dimensioni situazionali, relazionali, simboliche.

De Leo (1998) descrive tre fasi del processo di costruzione e stabilizzazione della carriera deviante. La prima fase viene definita dall’autore come la fase degli antecedenti storici della devianza; si tratta di fattori di varia natura ampiamente evidenziati sia dalle ricerche classiche sulla devianza sia da quelle di nuova generazione, tra cui la deprivazione parentale e/o sociale, carenze infantili, relazioni conflittuali in famiglia, caratteristiche psicopatologiche, isolamento o emarginazione sociale. Un riesame critico di questi fattori, permette di assegnare loro il valore di rischi aspecifici, ovvero di precondizioni che, seppur rintracciabili in molte carriere devianti, rimangono in questa fase aperte ad esiti diversi, di tipo non deviante (Ingrascì e Picozzi, 2002).

La seconda fase, in genere di breve durata, è caratterizzata da una crisi che si manifesta attraverso episodi agiti e percepiti come devianti; si tratta di una fase altamente rischiosa in quanto i rischi possono ora strutturarsi verso una specificità più decisamente improntata alla costruzione di un percorso deviante. Si tratta della fase in cui il contesto socio-istituzionale inizia ad attivare reazioni sanzionatorie alla condotta del soggetto attribuendovi significati negativi; tuttavia De Leo sottolinea che questi processi mantengono ancora in questa fase livelli di flessibilità e apertura verso altre forme ed altri percorsi.

La terza fase è rappresentata da una tendenza dell’individuo e dei contesti in cui egli agisce ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni e per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del processo; se infatti [blockquote style=”1″]la storia antecedente fornisce indicatori complessi e aspecifici, e la fase critica costituisce una sfida intensa ad assumere la forma della devianza, la fase della stabilizzazione, che può risultare tormentata e molto lunga nel tempo, sembra caratterizzata dalla tendenza ad usare la devianza come funzione selettiva per attrarre e orientare azioni e attribuzioni, per produrre interazioni collusive e complici, che possono dare luogo a progressivi irrigidimenti del percorso, rendendo via via meno probabili alternative alla devianza e aperture verso altri percorsi di vita[/blockquote] (De Leo, 1998).

Il grande merito di questo modello, è quello di valorizzare la funzione attiva svolta dal soggetto che, nel processo di costruzione di sé come deviante, svolge un ruolo attivo di continua riconsiderazione e rielaborazione delle auto ed etero-attribuzioni di significato. Inoltre, in quanto modello di matrice processuale e probabilistica, attribuisce ai fattori di rischio una dimensione di aspecificità e non di causalità lineare. Quest’ultimo aspetto è di notevole rilevanza soprattutto quando l’azione deviante o trasgressiva è messa in atto da minori; considerare il processo di formazione della carriera deviante come un processo che si autodefinisce, si plasma e si dota di significato, pone le basi per un approccio qualitativo e dinamico alla devianza minorile.

De Leo e Patrizi (1999) a questo proposito, sintetizzano alcune tappe del percorso di devianza minorile, intendendole come passaggi da cui estrarre significati e rappresentazioni simboliche riguardo al sé, alle proprie azioni e agli altri osservatori.

L’inizio appare caratterizzato dall’occasione favorevole ad agire in maniera deviante, dalla dimensione comunicativa dell’atto, da vantaggi espressivi legati al sé e alle relazioni significative; l’azione deviante nasce quindi “per caso”, nel senso che non è espressione di pianificazione o di anticipazione intenzionale, bensì si costruisce nella contingenza del presente. In questa fase il gruppo assolve un’importante funzione: è contesto privilegiato di rispecchiamenti reciproci (De Leo e Patrizi, 1999), è un contenitore psichico collettivo che consente lo sviluppo di un senso di identità soggettiva e la definizione dei ruoli sociali e di genere (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004), è una nicchia protettiva fitta di identificazioni reciproche e di possibilità di sperimentazione del sé (Saottini, 1999; Ingrascì e Picozzi, 2002). Ed è nel gruppo che l’implicito diventa esplicito, la fantasia diventa azione, quando le aspettative individuali si incontrano con quelle degli altri orientando verso l’azione. Nella fase iniziale, le motivazioni sottostanti l’azione trasgressiva non sono dunque di natura strumentale ma soprattutto espressiva (De Leo e Patrizi, 1999; De Leo e Malagoli Togliatti, 2000).

La prosecuzione comporta invece la scoperta di vantaggi strumentali: il riconoscimento esterno e di gruppo (aspetto di non poca rilevanza in adolescenza, fase in cui il riconsocimento sociale e la popolarità tra i pari assume grande valore di natura affettiva e identitaria; Cattelino e Bonino, 1999; Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003), la percezione delle proprie competenze nel settore, la fruizione di vantaggi personali (De Leo e Patrizi, 1999).

Giunti a questa fase, il percorso può prendere due strade diverse: la stabilizzazione o l’interruzione della carriera deviante. Nel primo caso, il ragazzo riconosce e utilizza la devianza nell’agire trasgressivo e sente di non saper far altro; spesso, in questa fase, il soggetto vive parallelamente insuccessi in altre aree di attività, come la scuola, il lavoro, la famiglia, e sente che l’area della devianza è forse l’unica in cui sente e percepisce se stesso come competente e abile. A differenza di altri contesti quindi, la devianza rimanda al soggetto un feedback positivo sul piano dell’autoefficacia e del riconoscimento di sé come persona capace. Nel secondo caso, il ragazzo interrompe la propria carriera deviante, spesso non senza vissuti di problematicità, rispetto alla paura di giudizio morale da parte della comunità, di difficoltà a reinserirsi nella comunità stessa, di esclusione dal gruppo dei pari.

Secondo De Leo e Patrizi (1999) sembra mancare ancora un anello perché le corrispondenze tra attribuzione di personalità deviante, provenienti dall’esterno, e il riconoscimento soggettivo di identità, assuma valore costruttivo di una carriera deviante. Il passaggio da una devianza reiterata alla carriera sembra ricondurre alle funzioni che lo stesso agire deviante assume a due livelli:
– funzioni di mantenimento dell’organizzazione soggettiva e relazionale, come tentativo di riequilibrare l’organizzazione del proprio sé e dei contesti di appartenenza;
– funzioni intrinseche all’azione deviante, con i suoi vantaggi, con le relazioni che attiva, al cui interno il soggetto trova conferma di sé e delle proprie competenze soggettive.

Gli autori avanzano quindi l’ipotesi dell’interazione tra funzioni estrinseche ed intrinseche della devianza, dove [blockquote style=”1″]essa rappresenta un canale comunicativo, nelle prime, e uno strumento di autoefficacia, nelle seconde[/blockquote] (De Leo e Patrizi, 1999, p. 42); questa interazione costituirebbe il tracciato della carriera quale esito di [blockquote style=”1″]un impegno individuale a trovare equilibrio fra vissuti, talvolta preponderanti, di disagio ed esigenze di ricavare un senso di efficacia dalle proprie scelte d’azione[/blockquote] (ibid.). L’ipotesi degli autori sembra essere confermata dalle recenti indagini di Bandura sul senso di autoefficacia che dimostrerebbero un legame tra scarsa autoefficacia e comportamenti antisociali e trasgressivi.

Ad esempio, in una ricerca svolta da Bonino, Cattelino e Ciairano (2003) su un campione di adolescenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni, le autrici hanno analizzato la relazione esistente tra autoefficacia e tre categorie di comportamenti devianti (aggressione fisica, furto e vandalismo, bugia e disobbedienza); i risultati hanno dimostrato che tutti i comportamenti devianti suddetti aumentano quando l’adolescente presenta una scarsa autoefficacia regolatoria. Specularmente, l’autoefficacia si dimostra come un fattore di protezione quando si associa a:
– uno stile genitoriale improntato al controllo, alla supervisione ma anche al sostegno e all’ascolto – possibilità di discutere apertamente in famiglia dei propri sentimenti, dubbi e bisogni;
– percezione del proprio successo scolastico e attribuzione di importanza ad esso;
– contenimento da parte del gruppo dei pari;
– un uso costruttivo e progettuale del tempo libero, sia soli che in gruppo.

Inoltre, le autrici sottolineano che, in un’ottica multicausale e interazionista, questi fattori protettivi, quando compresenti, si potenziano a vicenda, in quanto fattori che [blockquote style=”1″]operano in maniera sinergica e non indipendenti dai diversi ambiti di sviluppo in cui si manifestano[/blockquote] (p. 187).

I dati confermerebbero quindi le ipotesi di De Leo e Patrizi, secondo cui la possibilità di affermare i propri bisogni di individuazione e autoaffermazione unitamente a un feedback positivo, proveniente dai diversi contesti di sviluppo, della propria immagine e delle proprie competenze socio- relazionali, svolgerebbero una funzione fortemente protettiva rispetto all’inizio e alla stabilizzazione della carriera deviante.
Il modello della carriera deviante è stato applicato da De Leo (1998) allo studio delle relazioni tra devianza e tossicodipendenza e devianza e relazioni familiari; in entrambi i casi il modello si è rivelato prezioso nel mettere in luce la sequenza di periodi diversi nel tempo nei quali si configura la stabilizzazione della carriera deviante. Le indagini sembrano confermare le potenzialità di un approccio sequenziale, proponendo una serie di fasi ma anche di trame, narrazioni, categorie interne, che possono rappresentare una “mappa” di analisi e studio, utile dal punto di vista sia clinico che della ricerca.

L’adozione di un modello di questo tipo, implica indirettamente l’utilizzo di metodologie diverse da quelle classiche e quantitative; allo scopo di estrapolare le componenti simboliche, ridondanti, comunicative dell’azione deviante e di unificarle in una sequenza di fasi tra loro concatenate, risultano particolarmente adatte metodologie come l’autobiografia e la narrazione che mettono direttamente al centro dell’analisi il Sé, le sue componenti, le sue definizioni e le sue proiezioni nel tempo. Queste metodologie sono coerenti con la recente corrente di pensiero che fa riferimento alla psicologia narrativa di Bruner, secondo cui il Sé è un prodotto della narrazione, che, grazie alle sue caratteristiche di riflessività e ricorsività, si volge al passato e modifica il presente alla luce del futuro.

Le implicazioni che questa prospettiva di mentalizzazione e significazione può avere a proposito della giustizia minorile sono notevoli, in quanto consentirebbe al minore deviante o autore di reato [blockquote style=”1″]la possibilità di narrare il contenuto violento della sua condotta e di ritrovare nel contesto del racconto il significato dell’atto stesso, mettendogli a disposizione gli strumenti per cogliere il ruolo del Sé e dell’Altro[/blockquote] (Rossi, 2004, p. 269). La comprensione profonda dei significati sociali e antigiuridici dell’atto criminale, la tensione all’autoresponsabilizzazione dell’autore e il recupero del ruolo attivo dell’Altro, soprattutto quando è vittima, rappresentano infatti le basi teoriche ed epistemologiche del modello conciliativo e riparativo della giustizia.

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Elena Copelli
Elena Copelli

Psicologa scolastica, dello sviluppo e dell’educazione.

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