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Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Sviluppi nei paradigmi psicopatologici

L’analisi della devianza in adolescenza necessita di una visione completa delle caratteristiche psicologiche e sociali specifiche di questa fase di sviluppo %%page%%

Di Elena Copelli

Pubblicato il 26 Nov. 2015

Adolescenza e devianza: tra analisi scientifica e stigma sociale – Parte 3

E’ oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva.

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A lungo, la ricerca e gli studi criminologici hanno operato una serie di semplificazioni e di riduzionismi riguardo al rapporto tra devianza e disagio psicologico; il comportamento deviante e criminale è stato spesso tout court ricondotto a problematiche di natura psicopatologica, che determinerebbero la condotta deviante disinibendo il comportamento e affievolendo le capacità cognitive della persona.

Nonostante questa concezione sia notevolmente radicata nel senso comune e, anche se in maniera minore, in quello psicologico e giuridico, si tratta di un’idea riduzionistica, stereotipata, in quanto è oggi possibile affermare che i disturbi psicopatologici e psichiatrici non costituiscono una particolare causa idonea a una spiegazione del comportamento criminale; a maggior ragione se a mettere in atto tale comportamento è un soggetto in età evolutiva (De Leo, 1998).

Storicamente, le tipologie psichiatriche più frequentemente ritenute predittive della condotta criminale adulta sono state la psicosi, la nevrosi e la personalità psicopatica; per quanto riguarda l’età evolutiva e l’adolescenza l’adozione di queste categorie è stata più limitata, e si è fatto più spesso riferimento ad altre categorie diagnostiche, quali il Disturbo da deficit di attenzione con iperattività (ADHD), il Disturbo della condotta e il Disturbo oppositivo provocatorio.

In tutti questi casi, la presenza di una etichetta diagnostica non rappresenta di per sé un fattore prognostico per una condotta antisociale o criminale, né ne fornisce una spiegazione univoca e inequivocabile. Ad esempio, l’iperattività diagnosticata durante l’infanzia potrebbe in adolescenza scomparire oppure attenuarsi, confinandosi solo a specifici contesti; allo stesso modo, la cattiva condotta può variare notevolmente in base al contesto e all’età in cui insorge (De Leo, 1998). Per quanto concerne poi l’atteggiamento oppositivo e provocatorio, attualmente si è concordi nel considerarlo parte integrante dell’adolescenza, senza che per questo sia considerato un sintomo, ma piuttosto come un’espressione di bisogni di individuazione e affermazione (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2003; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Sono stati dunque messi progressivamente in crisi i modelli nosografici classici e la loro applicazione diretta ad una fase della vita così particolare e delicata come l’adolescenza; tali modelli sembrano ancorati a un’analisi del comportamento umano in termini fortemente positivistici e guidati da criteri ordinativi e descrittivi del fenomeno, inappropriati a cogliere il senso in cui gli adolescenti costruiscono percorsi anomali o devianti (De Leo, 1998). Manca, in sostanza, la considerazione del rapporto tra contesti (affettivi, normativi e sociali) e processi di sviluppo, al cui interno la condotta si verifica e acquista significato.

Le diverse espressioni comportamentali problematiche in adolescenza, come l’aggressività, l’opposizione, le provocazioni, dovrebbero quindi essere intese non come sintomi da ricondurre a una categoria diagnostica, ma come effetti che emergono e assumono significato nell’interazione con diversi contesti produttori di norme e significati. Lo stesso concetto di normalità deve essere sottoposto a valutazioni critiche quando si parla di adolescenza. Maggiolini e Pietropolli Charmet (2004) sostengono che in adolescenza difficilmente la normalità si configura come assenza di sintomi e deve quindi essere valutata in funzione dei compiti che questa fase propone. Gli autori, confermando la scarsa utilità dei sistemi nosografici classici nella valutazione clinica in adolescenza, propongono di considerare il funzionamento psichico formulando la valutazione in termini di bilancio evolutivo; in questa prospettiva, le diverse aree di sviluppo possono essere considerate come sistemi in fase di riorganizzazione e che non hanno ancora trovato un assetto definitivo sufficiente a consentire la valutazione della personalità nel suo complesso, così come avviene per gli adulti.

Al bisogno di modelli e strategie di valutazione clinica che tengano conto della specifica fase evolutiva in cui si trova l’adolescente, con tutte le conseguenze sul piano affettivo, cognitivo, relazionale e sociale, tenta di rispondere l’approccio della psicopatologia evolutiva o developmental psychopathology; tale approccio si basa su concetti e metodologie utili alla comprensione dello sviluppo mentale e patologico durante l’età evolutiva (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004). Secondo questa impostazione teorica, il soggetto si confronta, nella fase di sviluppo in cui si trova, con diversi compiti adattivi, in una relazione dinamica con l’ambiente; la psicopatologia viene dunque considerata un fallimento nella risoluzione dei compiti evolutivi, da cui derivano distorsioni e disadattamenti. Il processo evolutivo è considerato un’interazione dinamica tra organismo e ambiente, in cui si succedono fasi d’adattamento e di crisi che obbligano l’individuo ad elaborare nuove strategie.

Hudziak, Achenbach e colleghi (2007) affermano che la psicopatologia in età evolutiva differisce da quella adulta sotto diversi aspetti. Prima di tutto, l’espressione della psicopatologia nei bambini si modifica sia nella sue manifestazioni che nella sua gravità nel corso dello sviluppo; inoltre, è necessario tenere conto dei cambiamenti riguardo a cosa deve essere considerato normale e adattivo, in quanto alcuni comportamenti considerati patologici ad una certa età possono essere considerati normali ad un’altra età. Infine, l’assessment della psicopatologia in bambini e adolescenti necessita di una molteplicità di fonti di informazioni, tra cui i genitori, gli insegnanti e i ragazzi stessi. Gli autori propongono di affiancare alla diagnosi categoriale proposta dal DSM, una diagnosi di tipo dimensionale, maggiormente adeguata a cogliere gli aspetti peculiari delle manifestazioni psicopatologiche in infanzia e adolescenza, la loro plasticità e il loro cambiamento nel tempo; dal momento che l’uso combinato ed integrato dei due sistemi diagnostici è sensibile alle differenze di età, di genere e della fonte di informazione, è possibile valutare i miglioramenti o peggioramenti del soggetto anche in relazione ai diversi contesti di sviluppo.

La psicopatologia evolutiva propone quindi un approccio evidence-based alle manifestazioni patologiche in infanzia e adolescenza, di grande utilità anche per quanto riguarda la cura e la presa in carico del minore autore di reato (Rossi, 2004). La psicopatologia evolutiva si basa sull’analisi attenta in maniera congiunta, sinergica e interattiva di due tipologie di fattori: quelli di rischio, che aumentano la probabilità di condotte o manifestazioni disadattive, e quelli di protezione, che agiscono in direzione opposta favorendo l’adattamento dell’individuo e modulando l’effetto dei primi (Connor, 2002).

In letteratura vengono elencate diverse tipologie di fattori protettivi e di rischio in rapporto allo sviluppo delle condotte devianti in adolescenza. Ingrascì e Picozzi (2002) elencano a questo proposito cinque specifici fattori di predizione della violenza giovanile: fattori individuali, fattori familiari, fattori contestuali. I fattori individuali comprendono la presenza di caratteristiche psicopatologiche (iperattività, irrequietezza, deficit di attenzione, disturbo della condotta) e la comparsa precoce di comportamenti aggressivi e antisociali, ma non possono essere considerati se non in costante interazione con i tre più importanti e rilevanti contesti relazionali in cui l’adolescente cresce, ovvero la famiglia, la scuola e il gruppo dei coetanei.

Connor (2002) sottolinea inoltre che gli effetti delle relazioni con i genitori e con gli amici non si escludono a vicenda ma, al contrario, sono compresenti e si potenziano reciprocamente; Cattelino e Bonino (1999) confermano questo dato sostenendo che il rischio risiederebbe dunque nell’interazione tra un atteggiamento di scarso controllo da parte dei genitori, uno scarso investimento di tempo trascorso con la famiglia e molto tempo passato con amici che non impongono divieti sufficienti verso comportamenti trasgressivi. Infine Ingrascì e Picozzi annoverano tra i fattori di predizione anche quelli attinenti la sfera socio- culturale, tra i quali la disponibilità di droghe e armi, coinvolgimento nella criminalità di adulti vicini, esposizione alla violenza e al pregiudizio razziale.

Dodge e Zelli (2000) non parlano di fattori di rischio e protezione, ma propongono un modello multidimensionale ed ecologico in cui fattori distali (biologici e socioculturali) sono mediati da fattori prossimali, ovvero esperienze vissute dall’adolescente nei vari contesti di sviluppo:

Nel corso dello sviluppo il funzionamento neuro e psicofisiologico, il contesto socio-culturale e le esperienze vissute con i genitori e con gli altri si influenzano reciprocamente e in modi diversi, che possono favorire od ostacolare il manifestarsi di comportamenti antisociali.

I fattori distali, che rappresentano dunque il bagaglio biologico, genetico e socio-culturale dell’individuo, possono esporre l’adolescente a particolari esperienze a scuola, in famiglia o con i pari; queste esperienze, in maniera interattiva e ricorsiva, interagiscono con i fattori distali, modulandone e mediandone l’impatto in direzione protettiva oppure deviante. L’interazione costante tra i due tipi di fattori riveste dunque un ruolo cruciale nello sviluppo delle condotte devianti o, al contrario, nella loro prevenzione, e nel favorire o ostacolare l’adattamento dell’adolescente ai suoi contesti di vita.

Per quanto riguarda invece i fattori di protezione, Connor (2002) li definisce i fattori come risorse che modificano e migliorano la risposta dell’individuo ad alcuni pericoli ambientali che altrimenti lo predisporrebbero a conseguenze disadattive; i fattori protettivi modulano l’impatto degli agenti stressanti, aumentando le abilità di coping, migliorando l’adattamento e costruendo nuove competenze. L’autore elenca, per esempio, tra i fattori protettivi quelli individuali (buona autostima, competenze sociali, successo scolastico), quelli familiari (attaccamento sicuro con il caregiver, relazioni positive) e quelli extrafamiliari (supporto sociale esterno, relazioni amicali positive).

Connor aggiunge inoltre che la semplice analisi dei fattori di rischio e protezione non è sufficiente per spiegare la reale comparsa del comportamento violento e propone quindi un modello multidimensionale e integrato che prevede la necessaria presenza di altre condizioni, quali la concreta possibilità di compiere il reato, la mancanza di supervisione e di controllo parentale, l’associazione a gruppi delinquenziali e la possibilità di ottenere rinforzi diretti e indiretti alla propria condotta; i vantaggi ottenuti da un crimine non sono solamente di natura materiale, ma riguardano anche il rispetto, l’acquisizione di un certo status all’interno del gruppo dei pari, la paura o l’ammirazione suscitata negli altri (e ciò è particolarmente vero per gli adolescenti), l’esercizio del potere, il piacere della trasgressione (De Leo, 1998; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004; Rossi, 2004).

Secondo questo modello, quindi, il comportamento criminale è preceduto da alcuni fattori di rischio che devono però necessariamente associarsi a fattori precipitanti e di mantenimento della condotta violenta, che portano nel tempo all’assunzione di un ruolo deviante e alla cristallizzazione di un’identità in questo senso. Anche Ingrascì e Picozzi (2002) sottolineano l’importanza di tenere conto, all’interno della dinamica criminogenetica, della catena multicausale che sfocia nell’atto antigiuridico; occorre considerare, dal punto di vista dell’autore, i rapporti tra costi e benefici che l’azione criminale produce e la complessità dei fattori non solo contestuali, situazionali, sociali ma anche psicologici e psicopatologici che circondano l’atto criminale.

L’ottica adottata è quindi multifattoriale, multidimensionale e probabilistica. I comportamenti devianti possono essere letti e interpretati, adottando quest’ottica, come modalità di risposta a costellazioni di fattori cointeressati, superando alcuni limiti storici appartenenti alla criminologia minorile: si pensi ad esempio alle problematiche dell’etichettamento che discendono da una valutazione moralistica della condotta minorile, o alle facili letture dell’agito criminale come esito di una causa precisa e identificabile (Rossi, 2004).

Il contributo che la psicopatologia evolutiva può offrire nella valutazione e nella presa in carico dell’adolescente a rischio di condotte criminali è rilevante, in quanto consente di tenere conto della complessità delle diverse istanze di sviluppo e della loro costante interazione tra loro, fornisce concetti teorici e metodologie qualitativamente adeguate alla fase evolutiva in esame e sostituisce definitivamente la logica universalisitica-determinsitica con una logica probabilistica, dinamica e temporale.

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Elena Copelli
Elena Copelli

Psicologa scolastica, dello sviluppo e dell’educazione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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