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Amy – The girl behind the name (2015): il documentario sulla vita di Amy Winehouse

Amy Winehouse: una voce stridula ed emozionante, che nel film, insieme alle immagini non ufficiali, risuona contribuendo a definire il suo profilo umano..

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 28 Set. 2015

Ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

Dirò forse qualcosa di prevedibile, ma ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella mente dopo la visione di questo bellissimo documentario è la voce di Amy Winehouse. Non solo la voce unica di una cantante dal talento pazzesco (una cantante jazz di 65 anni nel corpo di una ventenne come la definì il mitologico crooner Tony Bennet), ma anche la voce stridula di una ragazzina adolescente che lascia messaggi rabbiosi alla segreteria telefonica del fidanzato, la voce spensierata nei video amatoriali ai party con le amiche, la voce ironica nelle interviste con quell’accento da ragazza ebrea di Camden, resistente ai corsi di dizione. Una voce stridula e vitale, emozionante e simpatica, che nel film, insieme alle tanti immagini non ufficiali, risuona in continuazione contribuendo a definire il profilo umano di Amy.

 

CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO:

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L’altro elemento fondamentale del documentario sono i testi delle canzoni, che la cantante scriveva di suo pugno, e che la proiezione in sovrimpressione rende più apprezzabili rispetto al solo ascolto, quando la bellezza dell’interpretazione dell’artista ti distrae un po’ dai contenuti. I testi delle canzoni, oltre a essere freschi e poetici, sono straordinariamente veri e autentici, pieni di tutte le fragilità, le paure e i desideri affettivi di Amy. Ricorre spesso il tema dell’abbandono (I died a hundred times, you go back to her canta ad esempio in Back to black) e della disillusione (Love is a losing game…), che nella storia di Amy inizia nell’infanzia quando il padre esce di casa e si ripropone da adulta nelle difficili relazioni di coppia.

La scrittura acquisisce per l’artista senza dubbio una funzione catartica e non è un caso che i momenti in cui Amy appaia più serena e in cui non prenda il sopravvento la parte distruttiva, siano quelli in cui si impegna nel lavoro compositivo (in realtà purtroppo ci ha lasciato solo due dischi).

Il documentario mette in luce diversi elementi di rilevanza psichiatrica: l’esordio della bulimia in adolescenza ignorata dai genitori, la prescrizione inefficace di paroxetina all’età di soli tredici anni, la precoce iniziazione alle sostanze con l’abuso di alcol e cannabinoidi, il rapporto distruttivo con il marito e la scoperta di cocaina ed eroina, gli inefficaci percorsi di cure e rehab. Tra le altre cose, certi racconti del primo manager e amico d’infanzia Nick Shymansky (Riesce a farti sentire importante e poi un attimo dopo ti tratta male) rimandano chiaramente ad alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline.

 

CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO (Sottotitoli in italiano):

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In un’intervista degli inizi Amy ammette profetica Se dovessi diventare famosa impazzirei, sottolineando come anche il fattore successo abbia avuto un peso sulla sua parabola esistenziale. Le scene in cui Amy viene accerchiata dai fotografi all’uscita di casa o di un locale sono angoscianti e sembra che ogni scatto di flash sia come l’ennesimo colpo a un corpo già traballante. Il successo ha anche contribuito a riavvicinare le due figure maschili più importanti e controverse della vita dell’artista, il padre e il marito, i cui atteggiamenti paiono in tante occasioni più dettati dall’opportunismo che dall’amore. Lascia parecchie perplessità, ad esempio, la scena in cui il padre Mitch si porta dietro una troupe televisiva durante una vacanza nell’isola di Santa Lucia, dove Amy cercava un po’ di quiete dai demoni londinesi.

Credo che il regista sia riuscito pienamente a ritrarre la persona Amy dietro la maschera dell’artista e sono uscito dalla sala provando tanta tenerezza e compassione per la perdita di un grandissimo talento artistico e di una ragazza troppo fragile per sopravvivere al successo nel difficile mondo dello spettacolo.

 

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