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Metacognizione, scopi e credenze: la necessità di ipotizzare diversi meccanismi psicopatologici sottostanti ai disturbi mentali

Il nuovo contributo di Giancarlo Dimaggio al dibattito in corso su scopi, abilità metacognitive e credenze nella psicopatologia dei vari disturbi...

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 30 Mar. 2015

Comprendere la psicopatologia è la chiave per pianificare il trattamento. Il dibattito in corso con Francesco Mancini, Giovanni Ruggiero (leggi) e Gabriele Caselli (leggi) permette di approfondire questioni cruciali. La risposta di Francesco Mancini alle obiezione mie (leggi) e di Ruggiero (leggi) offre molti spunti per dragare il fiume e analizzare il ruolo di scopi personali, abilità metacognitive e credenze nella psicopatologia di vari disturbi mentali.

Prima di entrare nel merito delle idee, devo evidenziare un paio di artifici retorici di Mancini nel suo ultimo post. Da un lato Mancini ha “l’impressione che, trascinati dalla passione per le idee, hanno rischiato di dare una rappresentazione non del tutto chiara di alcune questioni. Cercherò di riportare il dibattito su un piano, spero, più utile per chi legge.”

Mancini va lodato per l’impegno etico, ma non era necessario, si è incaricato di una missione inutile. Credo di essere stato abbastanza lucido, e Ruggiero altrettanto. L’utilità delle nostre osservazioni lasciamola giudicare al lettore.

Il secondo punto è che gli artifici retorici non aiutano il dibattito e se qualcuno manca di chiarezza e di capacità di rappresentare il punto di vista dell’altro è Mancini quando afferma: “Personalmente non ho mai avuto grande fiducia nelle soluzioni nominalistiche, quindi mi sembra che possa non essere di molto aiuto il suggerimento di Dimaggio che ha “cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema.” Al contrario ho più fiducia nella ricerca sperimentale (per saperne di più leggi articolo).

Mancini ha dipinto uno scorcio di paesaggio in cui appare un furbacchione (Dimaggio) che risolve il problema con le definizioni, e uno scienziato praticante (Mancini) che si fida della ricerca. Divertente ma non potrebbe essere più falso. Se Mancini ha sinceramente inteso che io volessi risolvere il problema affinando la definizione ha preso uno svarione. Per investigare un problema bisogna definirlo. La mia ridefinizione serviva solo a quello, a fornire un quadro del problema metacognitivo che si prestasse ad investigare varie possibilità, ovvero: è un deficit di tratto o un problema di stato? Che io volessi chiudere la questione cambiando una parolina fa sorridere, e per capire quanto siamo lontani dal vero basterebbe vedere la quantità di ricerche sull’argomento in cui sono impegnato. Tant’è, andiamo nel concreto.

È ovvio che la questione vada affrontata empiricamente. Gli esperimenti che Mancini cita a sostegno di una teoria del DOC in cui la compromissione di scopi è centrale sono interessanti e l’interpretazione che ne fa Mancini è parsimoniosa e ragionevole. Niente da dire, anzi ritengo che per i problemi descritti da Mancini non valga la pena perdere tempo a chiamare in causa disfunzioni metacognitive: chiamare il processo descritto da Mancini fallimento della differenziazione (in questo caso distinzione fantasia/realtà) sarebbe solo una spiegazione del problema più rozza di quella fornita da Mancini stesso. O meglio, in termini metacognitivi lo chiameremmo problema di differenziazione, ma il processo ad esso sottostante “Se temo di dovermi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa, allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta” è un livello di descrizione che fornisce molte più informazioni per il clinico.

La parsimonia interpretativa di Mancini è un altro punto forte della sua argomentazione: “Tutto questo è congruo con tanti altri risultati della ricerca sul DOC, ma non dice NULLA su cosa accade in altri disturbi”. Mancini comprensibilmente sembrerebbe restare dell’idea che l’ipotesi più plausibile sia che nelle altre patologie altri tipi di disfunzioni del ragionamento, legate alla compromissione potenziale di scopi dell’individuo, causino i sintomi. Per inciso, queste non sono le parole di Mancini, ma un’idea che gli attribuisco e posso sbagliarmi.

E la metacognizione? Solo una teoria difesa per passione? La risposta va trovata negli esperimenti? Direi di sì. Ma: ne sono stati fatti un bel po’. Hanno poco valore? Vediamo. Che i pazienti con schizofrenia abbiano difficoltà a ragionare sugli stati mentali, propri e degli altri, ormai c’è poco dubbio direi. In qualunque modo la si misuri, la capacità metacognitiva o la cosiddetta social cognition è compromessa. I problemi emergono sia analizzando interviste, sia somministrando task di laboratorio che descrivono situazioni emotivamente calde, sia task semplici che richiedono capacità basiche di attribuire stati mentali. Una parte del problema di  metacognizione/social cognition dipende da deficit di capacità cognitive di base: intelligenza, memoria verbale, memoria visiva, velocità di elaborazione dell’informazione. Una parte invece non dipende dalle funzioni appena citate, almeno per quanto emerso finora. Di maggiore interesse, è che il deficit cognitivo non ha un impatto particolare sulla disfunzione sociale nella schizofrenia, il problema metacognitivo/socio-cognitivo sì  (vedi Lysaker et al., 2010a).

Sempre nella schizofrenia, si è visto che la sospettosità è predetta da due variabili differenti in diversi sottogruppi di pazienti (Lysaker et al., 2010b): in alcuni il fattore che pesava di più era l’ansia sociale. Direi, guidati dallo scopo di preservare la buona immagine, i pazienti scannerizzano l’ambiente alla ricerca di segnali che lo scopo di salvaguardare la buona immagine di sé sia compromesso e diventano sospettosi. In un altro sottogruppo l’ansia sociale era bassa (quindi non un fattore in gioco) e la teoria della mente carente. Quindi la sospettosità sembra un effetto della difficoltà a capire la mente degli altri: non capisco quello che pensi e a quel punto è facile che mi attivo per rilevare minacce e preferisco focalizzarmi sulle possibilità peggiori per prevenire rischi e quindi adottare comportamenti/ragionamenti protettivi, del tipo better safe then sorry.

In altre patologie un problema di carenti abilità metacognitive appare presente: nei disturbi alimentari per esempio Laghi e colleghi (2014) hanno trovato problemi di teoria della mente misurandola con un’intervista semi-strutturata. Schulte-Rüther e colleghi (2012) hanno trovato una ipoattivazione nelle aree cerebrali legate alla capacità di capire gli stati mentali durante un task di teoria della mente in adolescenti con anoressia. Di grande interesse per il clinico è che l’ipoattivazione della corteccia prefrontale mediale durante l’esecuzione del compito di teoria della mente era un predittore di scarsa risposta al trattamento.  

Nei pazienti con Alcohol Use Disorder (AUD), Bosco e colleghi (2014) hanno riscontrato una più carente capacità di comprendere gli stati mentali degli altri rispetto ai controlli sani. Da notare che in questo studio la teoria della mente è stata analizzata sia con un’intervista semi-strutturata che con un test di laboratorio (Strange Stories di Happè e colleghi). Sottolineo che il test delle Strange Stories è facile, richiede delle competenze mentalistiche minime ed analizza storie difficilmente capaci di evocare forti emozioni. Eppure i pazienti con AUD avevano difficoltà a capirle.

Nei disturbi di personalità le prove che ci siano problemi mentalistici è crescente. Semerari e colleghi (2014) hanno notato che difficoltà metacognitive misurata con la Metacognition Assessment Interview erano correlate alla gravità complessiva del disturbo di personalità. Può essere che le capacità metacognitive così misurate dipendano dal fatto che nel mentre i pazienti riflettono sugli stati mentali alcuni scopi  personali sono compromessi ed è questo a peggiorare la loro performance? Possibile, visto che l’intervista chiede di focalizzare su episodi emotivamente rilevanti.

Però i problemi mentalistici nei disturbi di personalità emergono anche usando task di laboratorio. Per esempio Ghiassi et al (2010) hanno trovato che usando un task di riordinamento di figure che richiedeva per essere eseguito di comprendere gli stati mentali dei protagonisti della storia, i pazienti borderline avevano una performance simile a quella dei controlli ma un sottogruppo con storia di parenting problematico aveva peggiore performance.

Con Martin Brüne abbiamo ipotizzato che il task utilizzato fosse troppo facile e così abbiamo sviluppato una versione più complessa del task. Il risultato è stato che pazienti con disturbo borderline di personalità avevano performance peggiore dei controlli in tutte le componenti del task: sbagliavano di più a rimettere le figure nella sequenza corretta e attribuivano con meno successo sia pensieri che emozioni. Storie di trauma e parenting inappropriato (stile punitivo) erano predittori della performance negativa nei pazienti (Brüne et al, in press).

Questo non è il luogo per una rassegna esaustiva e ho solo fornito pochi esempi di esperimenti che indagassero il ruolo di metacognizione e di una sua componente, la teoria della mente, in varie forme di psicopatologia. Sembra essere un fattore rilevante. Gli esperimenti non sono conclusivi e si prestano ad essere approfonditi. In molti casi si può sempre obiettare che se misurassimo lo stile di ragionamento del paziente sotto la pressione della compromissione di scopi emotivamente rilevanti troveremmo un fattore che causa la scarsa performance nella teoria della mente. Possibile. Possibile però anche il contrario: che pazienti con scarse capacità primarie di capire gli stati mentali siano più proni a stili di ragionamento disfunzionali quando scopi rilevanti sono percepiti come compromessi.

Lo studio di Lysaker e colleghi (2010 b) suggerisce che è possibile che problemi nel ragionamento sotto pressione (ansia sociale) e carenze nella teoria della mente, giochino contributi differenti nella psicopatologia. A me sembra a tutt’oggi l’ipotesi che merita più credito. La mente è un organismo complesso. La medicina da decenni ci dice come ci sia ben più di un fattore patologico sottostante ad un disturbo, anche quando l’eziologia è nota. Basti pensare al caso dell’HIV. La causa è nota: un virus. La patogenesi invece comprende innumerevoli sentieri che portano il virus a replicarsi e causare danni. La risposta dei farmacologici è stata spettacolare: esistono oggi farmaci che attaccano moltissimi aspetti della cascata di replicazione e modulano la risposta immunitaria del paziente. Il risultato è che la patologia è diventata curabile. Che sarebbe successo se gli infettivologi avessero ragionato in termini di o/o? 

 

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Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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