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Una nuova Gradiva per una nuova psicoanalisi? La violenza delle emozioni.

Ci sono libri che ci interrogano sin dalle prime pagine, persino dalle prime parole. E questo libro di Giuseppe Civitarese, nella sua versione italiana.

Di Redazione

Pubblicato il 02 Apr. 2014

Aggiornato il 23 Lug. 2018 10:23

Mauro Manica.

 

 

A proposito di…

La violenza delle emozioni. Bion e la psicoanalisi postbioniana

G. Civitarese (2011)

Milano, Raffaello Cortina Editore

 

 

 

 

                                                                                  “…né il poeta può sfuggire allo psichiatra, 

                                                                                                    né lo psichiatra al poeta; e la trattazione 

                                                                                                    poetica di un tema psichiatrico può, senza

                                                                                                    perdere la propria bellezza, risultare corretta”.

                                                                                                    (Sigmund Freud)

 

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La violenza delle emozioniCi sono libri che ci interrogano sin dalle prime pagine, persino dalle prime parole. E questo libro di Giuseppe Civitarese, nella sua versione italiana, ci affaccia su nuovi interrogativi già a partire da un’immagine che entra suggestivamente nella composizione della copertina: il fumetto, Girl with Tear III, trasformato in opera d’arte da Roy Lichtenstein nel 1977.

Il β di un’emozione, di un’esperienza sensoriale che era irrappresentabile e che diventa l’elemento basico di una rappresentazione; il primo mattone  – come direbbe Antonino Ferro – per iniziare a costruire l’edificio del sogno; un elemento α che si dà come come il filo di una tessitura: la trama e l’ordito in cerca di O.  In cerca non solo di una conoscenza (K), ma di una successione di piccole verità condivisibili, in cui paziente e analista possano riconoscersi nell’impegno di diventare sempre più sé stessi.

Così Civitarese ci interroga immediatamente attraverso l’immagine di Roy Lichtenstein; attraverso questo punto interrogativo disegnato dal frammento di un volto di donna: la curva  di un ciuffo di capelli biondi, la luce opalescente di un occhio azzurro, intrigante e seduttivo, perplesso e malinconico, sotteso dall’inquietudine di una lacrima. E dal maëlstrom delle infinite suggestioni, affiora la figurazione di una nuova Gradiva per una nuova attualità della psicoanalisi: una teoria, ed anche un metodo, che avanzano non più in equilibrio sulla punta di un solo piede, ma in equilibrio su di un solo punto.

Non possiamo allora limitarci a pensare che il focus della clinica venga ad incentrarsi esclusivamente sulla necessità di ricostruire l’attimo fuggente di un incedere trascorso nel passato, ma che si giochi anche (e soprattutto) nel qui e ora puntiforme dell’incontro tra paziente e analista, in un campo relazionale costituito come un insieme continuamente variabile di “punti” che, in un prospettiva bioniana, vengono a coniugare intersezioni di spazio e tempo: seno/non-seno, cosa/non-cosa, presente/non-presente.

Enunciato in termini più “classici” potrebbe significare una dimensione legata alla sofferenza per l’assenza dell’oggetto: una violenza delle emozioni  – come dice Civitarese – che se contenuta e sofferta partecipa alla formazione del pensiero, del simbolo, della rappresentazione della cosa in sua assenza; invece, nel caso in cui questa esperienza venga a mancare, la violenza delle emozioni si trova ad essere reificata in elementi β halla ricerca selvaggia di un contenitore.

E allora vediamo come Giuseppe Civitarese interroga immediatamente il cuore della psicoanalisi attuale. Così, alle suggestioni di una nuova Gradiva, segue un titolo che non lascia dubbi sulla scelta del campo clinico e della direzione verso cui tende la sua ricerca: La violenza delle emozioni. Bion e la psicoanalisi postbioniana.

Senza dubbio, “conosce i segni dell’antica fiamma” (p.80), come dice  – citando il verso di Virgilio e tradotto da Dante –  una/uno dei/delle tante/tanti pazienti che prendono corpo nella sua stanza d’analisi.

Sa della violenza delle emozioni che attraversano il campo perché, come ogni analista contemporaneo: “vede pazienti più gravi che in passato” (p.182), pazienti che, come recita Shakespeare, conoscono la violenza delle parole, ma non conoscono le parole. E dove l’analista si trova assegnato il compito di dare un nome ad agonie senza-nome, “di tradurre da un testo assente, di dare un senso al ‘bianco’ del trauma, alle memorie del corpo che precedono l’Io”(p. 182).

In primo piano, troviamo allora non quanto l’analista dice al paziente, ma quanto l’analista fa con il paziente: non è la ricostruzione del passato a trasformarne la sofferenza, non è rendere conscio l’inconscio a garantire l’efficacia dell’intervento terapeutico ogni qualvolta ci si trovi al di là dello spartiacque della rimozione e delle frontiere dell’inconscio simbolico. L’ a, terapeutica e trasformativa è la possibilità di fornire al paziente un apparato per costruire le costruzioni, la funzione α, il metodo per trasformare protosensorialità e protoemozioni caotiche e informi in elementi per sognare e per pensare. E’ indubbiamente importante ciò che il paziente dice e quanto l’analista risponde, ma c’è soprattutto un fare che riguarda i fatti mentali (in qualunque condizione essi siano) che intercorrono tra paziente e analista, le emozioni primitive che transitano incapaci di rappresentazione e che incominciano a vagare nella relazione in attesa di essere significate. In oscillazione tra pazienza (PS) e sicurezza (D), è la capacità negativa di bioniana memoria ad essere soprattutto richiesta all’analista, la sua capacità di sospendere ogni volontaria competenza tecnica e teorica, la sua capacità di sostare nel dubbio e nell’incertezza, la sua capacità di rinunciare alla memoria e al desiderio (sino al paradosso di rinunciare alla stessa memoria e allo stesso desiderio di disporre di una capacità negativa).

Ma Civitarese è uno psicoanalista avveduto e non si lascia acriticamente incantare dall’affascinante melodia delle sirene bioniane: conosce la spregiudicata e, a volte, provocatoria genialità di Bion. Così, come Ulisse, per poterne ascoltare il canto, si ancora saldamente all’albero maestro dell’impianto psicoanalitico freudiano, e ci avverte dell’impossibilità del compito di “spogliarsi degli assunti aprioristici che guidano l’osservazione e la conoscenza” (p.40) ma ci indica la possibilità di recuperarli da uno sfondo di passività, lasciando che si configurino come rêverie, come attività del preconscio (nel senso di Grotstein, 2009) dell’analista che ha senza dubbio a che fare con ciò che è stato (il prodotto di quella che  ho definito l’oscillazione Pr↔Rp, persona reale↔romanzo professionale), ma che soprattutto ha a che fare con la disponibilità a imparare ad aprire sempre nuovi spazi di pensabilità, per incontrare realtà emotive nuove e sconosciute (o conosciute-non-pensate), senza averne troppa paura.

Insomma, se la Marnie di Hitchcock entrasse nella stanza d’analisi di Giuseppe Civitarese, distesa sul lettino, non troverebbe alle sue spalle l’analista-detective (secondo tradizione), impegnato a decifrare i geroglifici del suo inconscio, alla ricerca della scena traumatica infantile, o dell’ancor più mitica scena primaria. Al più, troverebbe un analista-detector, un Civitarese-Connery-Mark Rutland, disposto a ‘sposare‘ il progetto di dare ospitalità alla violenza delle sue emozioni. E allora la cleptomania di Marnie potrebbe diventare un genere narrativo che racconta della sua speranza di procurarsi attraverso la relazione analitica le risorse che le mancano per sognare i propri sogni interrotti o mai sognati. E l’analista-detector le metterebbe a disposizione la propria rêverie per arruolare i personaggi di un testo onirico che le consenta di vivere le sue emozioni e di farne una lettura sognante in grado di espanderne il significato. Come Hitchcock-Connery-Rutland, avrebbe il tatto di rispettare la sua frigidità e il suo terrore nei rapporti affettivi con gli uomini, chiedendosi come mai si crei quello stato mentale in seduta, e se non monitorizzi delle variazioni troppo brusche nella temperatura emotiva della relazione: un clima torrido, o il gelo di un’incomprensione. Poi, risognerebbe con lei i suoi incubi scrivendo a quattro mani nuove (e potenzialmente infinite) trame che possano sottrarla alla traumatofilia del testo pre-scritto.

E nel teatro del sogno potrebbe comparire allora la trasformazione di una madre-prostituta-analista,  che vende le proprie emozioni per denaro, in una madre capace di contenere (♀) agonie primitive, fantasmi omicidiari, lutti intollerabili, insomma in una funzione della mente capace di ristabilire un Patto di Pietà (Grotstein, 2000): quell’accordo implicito (inconscio) per cui il paziente (come il bambino), accetta di fare del suo meglio per sopravvivere e trae profitto se l’analista (come la madre) accetta di assicurarlo contro il dolore, la pena e il pericolo non necessari.

Così, troviamo assemblati violenza delle emozioni e impianto bioniano/postbioniano. Ma Civitarese non cede mai alla tentazione di un gergo, non è, ad esempio, un ‘bioniano di ferro‘ (anche se riconosce Ferro come uno dei suoi maestri). Rifugge da ogni tentazione mimetica e devitalizzante. Usa Bion (nel senso della triade sintagmatica Freud-Klein-Bion, come direbbe Meltzer, 1978), usa Grotstein, Ogden, Green e Bleger (tra i numerosi psicoanalisti che frequenta), usa Ferro e usa il nucleo più vitale del pensiero psicoanalitico italiano; cimenta i filosofi e gli scrittori, i pittori ed i cineasti, ma facendone sempre un uso da intendere in senso winnicottiano: li traduce e li trasforma attraverso un linguaggio ed un’estetica personale in oggetti vivi e pensanti, in strumenti e metodi delle teorie con cui dialogare. Così facendo, i dispositivi teorici non vengono a darsi come il prodotto di razionalizzazioni geometriche e difensive, con cui intrattenere rapporti idolatrici al fine di evitare l’impatto con la violenza delle emozioni che transitano nel campo relazionale. Al contrario, possono germogliare come frutti onirici e poetici della mente analitica: i derivati narrativi del transfertcontrotransfert (come lo scrive Grotstein, 2009), dell’incontro tra rêveries dell’analista e rêveries del paziente, il testo di un sogno fatto sul paziente e con il paziente, che si deposita nella mente dell’analista, solo in virtù del fatto che è l’analista.

O forse, per dirlo con parole più vicine a quelle dell’autore, Civitarese fa un casting dei maestri e delle teorie, mantenendo sempre in una tensione creativa i modelli impliciti che possono operare dentro la mente dell’analista e la dimensione esperienziale a cui ricorre  quando adotta dei modelli espliciti ed i loro strumenti di lavoro: le funzioni dell’onirico, ad esempio, la logica del transfert, le (libere) associazioni, la rêverie, l’ascolto dell’ascolto, la dimensione estetica dell’incontro (p.76).

E così, con i personaggi e gli attori che si drammatizzano nella relazione tra paziente e analista, anche le personificazioni delle teorie e dei maestri entrano nel campo analitico, arruolate e trasformate per interpretare un’emozione: “cioè un ruolo o una parte del testo inconscio del dialogo analitico in cerca di un attore e di uno sviluppo narrativo” (p. 74).

E ogni attore imprimerà un’impronta personale al personaggio da cui è stato trovato,  affinché, come già aveva intuito Freud nel breve scritto Personaggi psicopatici sulla scena (1905), la funzione del dramma analitico possa diventare quella di rendere risognabile il traumatico che ritorna nel reale. All’analista è allora affidato il non facile compito di organizzazione del casting e della regia di un testo onirico alla ricerca di nuove sceneggiature. E dato che “i sogni riguardano anche il futuro” (p. 165), seguendo l’indicazione freudiana della Gradiva (1906), il compito dell’analista è reso ancor più difficile dal fatto di essere costretto a ‘girare‘ in diretta, con una sceneggiatura che viene scritta a braccio nel corso delle riprese, con un regista costantemente chiamato in campo a identificarsi e a disidentificarsi dai diversi attori, a calarsi in ruoli che mai aveva interpretato prima di allora o, in altri, in cui era già stato fin troppo coinvolto.

In più, diventa assolutamente necessario non ripetere troppe volte la stessa scena   – un ‘trapianto estraneo‘, come avrebbe detto Ferenczi (1932); un ‘crollo-già avvenuto‘, come indicava Winnicott (1963); un’ ‘interpretazione-tappo‘, nei termini di Florence Guignard (1996); o una ‘religione dell’analista‘ (Manica, 2007) –  per evitare che entri in scena il personaggio Pulsione di Morte, alla ricerca di un attore che sarà costretto ad interpretarlo. In quel caso potrebbero allora invadere il campo, teorie morte, o una morte della funzione analitica della mente dell’analista o, ancora, la distruttività del paziente che da quel personaggio era già stata alimentata.

Sviluppando il pensiero bioniano e postbioniano, è allora una nuova psicoanalisi quella che ci propone Giuseppe Civitarese? Dobbiamo trascendere i fondamenti di una psicoanalisi centrata sull’interpretazione, sull’ermeneutica delle formazioni già istituite dell’inconscio, optando per una psicoanalisi centrata sull’estetica della ricezione/trasformazione (come scrive Barale (p.186), nella sua elegante Postfazione? O ancora, dobbiamo scegliere tra una psicoanalisi delle memorie e dei contenuti (già dati) dell’inconscio e una psicoanalisi dello sviluppo degli apparati per sentire, sognare, pensare; “tra una scienza degli archivi, delle cancellature e degli scarti della memoria e una scienza dell’at-one-ment (p. 29)?

Sono domande a cui non possiamo sottrarci e che attraversano, sebbene poste da vertici diversi, tutti gli otto capitoli che compongono il libro.

Quando, ad esempio, vengono formulate da un vertice prevalentemente metodologico (Cap. I e II), la svolta impressa da Civitarese al pensiero psicoanalitico sembra essere radicale: trascendere la cesura e teatralizzare il reale. Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia (1925), aveva scritto: “C’è molta più continuità fra la vita intra-uterina e la prima infanzia di quanto non ci lasci credere l’impressiva cesura dell’atto della nascita (p. 237)“. Ma nello svolgersi della ricerca freudiana, questa intuizione è stata ribaltata, sostituendo al metodo della cesura quello della censura: come a dire, che la nascita è un trauma, una frattura della continuità della vita psichica che realizza un occultamento, da cui derivano dei resti, delle zone d’ombra che l’indagine psicoanalitica dovrebbe riportare alla luce. Ogni esperienza traumatica genererebbe delle crittografie che il trattamento analitico può e deve decifrare. Bion (1977) invece ci ha invitato a rovesciare di nuovo la prospettiva, è ritornato alla prima intuizione freudiana e l’ha oltrepassata: “Può un qualunque metodo di comunicazione essere sufficientemente ‘penetrante’ da superare questa cesura nella direzione che va a ritroso dai pensieri consci post-natali verso il pre-mentale, in cui pensieri e idee hanno la loro controparte in ‘tempi’ o ‘livelli’ della mente in cui non vi sono pensieri o idee? Questa penetrazione deve essere effettiva nell’una e nell’altra direzione (p. 86)”.

Le implicazioni di un simile rovesciamento sembrano essere serie: perché rischiamo di affacciarci sull’abisso di una condizione in cui la mente non esisteva o, comunque, non era in grado di contenere idee e pensieri. Così, dobbiamo accettare di poter ricostruire solamente ciò che in qualche modo è nato. Ma quali possibilità ci sono per tutto quanto non ha avuto la possibilità di nascere? Il mai-nato o il non-ancora-nato?

A questi livelli di funzionamento psichico, paziente e analista esistono solo nel presente e, in particolare, in quel presente circoscritto dal setting del loro incontro e in cui non è possibile fare nulla per il passato: il paziente non sa nulla di questo fondo informe e indifferenziato della propria esperienza emotiva e sensoriale, e l’analista non sa nulla del paziente, al di là di quello che (il paziente) afferma di provare. E allora va interrogato questo non sapere, trascendendo ciò che si suppone di conoscere, sospendendo qualsiasi statuto di verità per il già conosciuto. “Indagate la cesura  – suggerisce Civitarese, restituendo la parola a Bion (1977, p. 99) –  (indagate)…non l’analista, non l’analizzando; non l’inconscio, non il conscio; non la sanità, non l’insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans)-fert, l’umore transitivo-intransitivo“. Questa è la grande lezione bioniana, che viene ripresa da Giuseppe Civitarese: non c’è alcun testo pre-scritto tra paziente e analista che valga la pena di riscrivere (questo scopo, in fondo, è già sufficientemente realizzato dalla coazione a ripetere); l’inconscio è qualcosa che viene continuamente costruito, che è in continua trasformazione, che nasce dalla relazione e che si sviluppa con la nascita di tutto ciò che non ha ancora avuto la possibilità di nascere. È sicuramente meno interessante, meno salutare e meno vitale per il paziente andare a vedere cosa c’è nel suo o nel nostro inconscio rimosso, rispetto a quanto invece non sia vitalizzante e trasformativo lasciar emergere mondi nuovi e imprevedibili.

Abbiamo appreso anche dalla lezione fenomenologica (Conrad, 1958; Blankenburg, 1991) come sia caratteristica del pensiero psicotico la perdita di prospettività, della mobilità e della possibilità di scambio delle prospettive; è nel delirio che non si è grado di trascendere la centralità del soggetto, che si assiste al rifiuto (Verwerfung) di apprendere dall’esperienza che non percepiamo il mondo e l’altro come “è”, ma che possiamo solo venire a sapere il rapporto tra ciò che si incontra e noi. Così non possiamo percepire direttamente il calore o la freddezza di un oggetto, bensì il gradiente di calore o di freddezza tra noi e l’oggetto. Il delirio dice invece della necessità di allucinare la certezza percettiva della presenza dell’oggetto, accogliente o persecutorio che sia. L’illusione (winnicottiana) dice, al contrario, che si può oltrepassare il delirio teatralizzando il reale, trovando un oggetto che si lasci creare dai bisogni del soggetto: freddo e/o caldo al momento e al punto giusti. Così Civitarese può dirci che: “Per aiutare il paziente a integrarsi, non è più tanto (non solo) questione di tradurre dei contenuti (dei significati), per esempio di svelare i pensieri latenti del sogno, quanto di non introdurre effrazioni del senso (differenze) non sostenibili per l’Io (p.181)”.

Ma se il primato tecnico è quello della contemporaneità, dell’andare a tempo e dell’essere all’unisono per favorire la crescita psichica, che ne è della dimensione storica e referenziale che ha da sempre organizzato il discorso epistemologico della psicoanalisi?

Ripetutamente, ma soprattutto nei capitoli più ‘clinici‘, dedicati all’ipocondria (Cap. III) e al conflitto estetico (Cap. VI), ad esempio, Civitarese ci dimostra quanto sia necessaria l’articolazione del piano sintagmatico, verticale, con le sue fondazioni storico-biografiche e del piano paradigmatico, orizzontale, animato da logiche relazionali ed interpersonali. Di fronte all’opacità di una sofferenza che sembra soltanto poter prendere corpo (come nell’ipocondria), oppure sottrarre bellezza alla vita (come nelle patologie del conflitto estetico), è giocoforza tornare all’ambiente originario, alla madre-ambiente ed agli effetti di qualità negative della rêverie. Il traumatico si costituisce sempre come un oggetto ostruente che si oppone alla crescita mentale; e in ultima analisi, prende la forma di un contenitore negativo che, solo in aprés coup, potrà rivelare le proporzioni della miscela tossica di cui é composto: quantità proporzionalmente variabili di cattive cure genitoriali e della distruttività infantile che ha dovuto soppiantarle.

Sia che si tratti di un oggetto confusivo che crea un contenitore confondente che aliena o si aliena nel corpo, come nell’ipocondria; sia che si tratti dell’abiezione dell’oggetto che genera un fading, una dissolvenza del contenitore, come nella patologia del conflitto estetico, il punto di vista intrapsichico coglie la statica del sintomo e non la dinamica della sua comunicazione. Da un punto di vista intersoggettivo (interpsichico), il sintomo diviene invece: “il racconto dei fatti dell’analisi nel momento in cui accadono, e in questo caso potrebbe trattarsi di una malattia del campo analitico (p. 52-53)”.

In fondo, non era stata questa l’originaria intuizione freudiana (Freud, 1914) a proposito della nevrosi di transfert? Era necessario che la nevrosi clinica si trasformasse in nevrosi di traslazione, affinché il “nuovo stato” si caricasse di tutti i caratteri della malattia per potersi rendere accessibile al lavoro terapeutico. A Freud era solo sfuggito quanto l’analista fosse implicato e partecipe di quel nuovo stato di malattia, di quanto fosse necessario diventare (bionianamente) l’esperienza emotiva del paziente, l’O, la verità sconosciuta della sua sofferenza. Perché K non può precedere O, ma è necessario permettere a O di diventare K.

Freud stesso, già all’epoca degli Studi sull’isteria (1892-1895) aveva colto come nell’ottundimento della capacità di collaborare del paziente potesse intervenire il ruolo svolto dal “medico” . E nella definizione di “resistenza esterna” si era soffermato su quel particolare insuccesso del metodo associativo che poteva essere ricondotto alla qualità della relazione terapeutica.

Quando il paziente ha sofferto per un’offesa da parte dello psicoterapeuta  – notava Freud –  per una piccola ingiustizia, per una disattenzione o un disinteresse, per un segno di disprezzo, o quando ha sentito una critica alla persona del medico o al suo metodo, allora la pressione associativa non ha successo. Non appena si chiarisce però il punto di controversia, la collaborazione si ristabilisce e il procedimento torna a funzionare.

E’ evidente come la resistenza, sin dalle sue prime definizioni, venisse collocata in una dimensione essenzialmente relazionale. E saranno gli sviluppi psicoanalitici successivi a dimostrare come la sua formulazione possa embricarsi con il versante negativo del transfert e con il possibile fallimento delle funzioni controtransferali della mente dell’analista.

Così, ci dice Civitarese, senza ricerca di O, senza verità emotive condivisili, senza che il paziente possa veramente credere che l’analista sperimenti autenticamente ciò che egli sperimenta (Grotstein, 2007; Manica 2007), senza continue trasformazioni in sogno (Ferro, 2010) di quanto transita tra paziente e analista, non potrà mai avvenire un reale sviluppo della mente, perché non potrà svilupparsi un contenitore capace di trasformare l’impensabile di angosce senza nome in vita onirica prima e, poi, in vita vissuta.

In realtà, c’è molta più continuità tra la psicoanalisi della prima Gradiva e la psicoanalisi di Civitarese di quanto la cesura del titolo lascerebbe supporre. E forse, non è un caso, che nell’ultimo capitolo del libro si ritorni a Freud e venga affiancata alla Griglia di Bion la metafora del notes magico: “per evidenziare come l’ ‘illuminazione appropriata’ del transfert, che per Freud serviva a leggere le scritte apparentemente cancellate della tavoletta di cera del notes (della memoria), in Bion diventi essenzialmente la rêverie (p. 6)”.

Allora, nella transizione della psicoanalisi contemporanea da una psicologia unipersonale a una psicologia bipersonale, il rovesciamento di prospettiva amplia ed estende la portata delle invarianti del metodo: la dimensione dialogica dell’incontro (anche se fatto di silenzi o azioni), il transfert e la resistenza (Manica, 2010). Così, nella stanza d’analisi di Giuseppe Civitarese tutto può essere considerato “transfert” e prende il senso ampio di relazione (Sandler e Sandler, 1984) potendo essere considerato come il transito costante di sensazioni, di emozioni pensate e impensate, dicibili e indicibili, che si attualizzano nel presente di ogni incontro analitico (un hic et nunc marcato dagli imprinting traumatici del passato). E la “resistenza”, la cesura che deve essere trascesa, viene a rappresentare qualsiasi ostruzione, qualsiasi ostacolo che si oppone a questo flusso emotivo e sensoriale.

In una simile prospettiva, il gradiente di resistenza potrebbe essere assunto come indicatore del livello di permeabilità della mente dell’analista, piuttosto che come opposizione del paziente alla ‘pressione’ del metodo psicoanalitico. Centrale diviene dunque, in questo modo di pensare, la funzione di ascolto dell’ascolto (Faimberg, 1996), il ruolo cioè svolto dagli effetti che produce una disposizione estetico-recettiva dell’ascolto, tesa a pittografare continuamente ogni comunicazione del paziente, senza creare effrazioni di senso che turbino la ricerca di O.

E’ questa transizione nella continuità, da una psicoanalisi dei Massimi Comuni Divisori ad una dei minimi comuni multipli che, riprendendo Freud, ci permette di dire a Giuseppe Civitarese: “Lei è uno splendido analista, il quale ha afferrato irrevocabilmente la sostanza della questione. Chi riconosce che il transfert e la resistenza sono la chiave di volta del trattamento appartiene ormai, senza rimedio, alla schiera dannata” (Freud-Groddeck, 1917-34, p.17).

 

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