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A proposito di Davis dei fratelli Coen (2013) – Recensione

A proposito di Davis - L’idea che ha di sé? Tra il sogno di raggiungere la perfezione artistica e la totale assenza di una strategia per perseguirla.

Di Camilla Marzocchi

Pubblicato il 03 Mar. 2014

A proposito di Davis

di Joel & Ethan Coen

(2013)

 

“Se non è mai stata nuova e non invecchia mai allora è una canzone folk”.

 

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A proposito di Davis

L’idea che ha di sé? Immobile e indefinita, tra il sogno di raggiungere la perfezione artistica e la totale assenza di una strategia per perseguirla.

Sa molto bene invece quello che non vuole: rinunciare, vendersi, diventare commerciale, prendere responsabilità.

ATTENZIONE! NELL’ARTICOLO VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA

Llewyn Davis è un cantante folk, vive in una New York anni 60 e la sua vita ruota intorno al Greenwich Village, tra i divani degli amici che lo ospitano e i locali in cui suona saltuariamente aspettando il concerto che gli cambierà la vita. Llewyn (Oscar Isaac) ha un animo blues, malinconico, pessimista, indifferente a tutto, rude e capace di esprimere pochissime e volubili emozioni.

Il profilo è di un irresistibile perdente: immerso nella vuota ciclicità delle sue giornate, in fuga dal destino di marinaio che già fu del padre, ma dotato di indubbio talento e capacità di mettersi in gioco nelle situazioni più bizzarre che la vita gli presenta. Unico tragico difetto: trasformare le vie di fuga in vicoli ciechi… ed è li che lo conosciamo nei primissimi minuti della pellicola.

Quello che gli altri vedono in lui dipende da chi sono gli altri: per i suoi amici dei quartieri ricchi è un famoso musicista folk e viveur del  Village, per l’amica Jean (Carey Mulligan) è un buono a nulla capace solo di distruggere quello che ha intorno, è un cattivo investimento per i discografici, uno scapestrato senza valori per la sorella e forse semplicemente un parassita per tutti gli altri.

L’idea che ha di sé? Immobile e indefinita, tra il sogno di raggiungere la perfezione artistica e la totale assenza di una strategia per perseguirla. Sa molto bene invece quello che non vuole: rinunciare, vendersi, diventare commerciale, prendere responsabilità.

In questo scenario il futuro non è mai preso davvero in considerazione, mentre il presente spinge con i rimproveri crudeli di Jean, con il freddo dell’inverno newyorkese – decisamente insopportabile per chi, come lui, non ha un cappotto! – e le grottesche disavventure che scandiscono le giornate.

Llewyn appare incastrato in quello che potremmo definire il “loop dell’auto-sabotaggio: i buoni propositi con cui si sveglia ogni giorno – sul divano di qualcun altro! – vengono letteralmente spazzati via da dimenticanze, superficialità e peccati di ingenuità, che lo fanno sentire per tutto il giorno in balia di eventi incontrollabili, finché alla sera ci appare di nuovo una vittima della sfortuna, del caso – o forse di se stesso – ma soprattutto di nuovo bisognoso di una cena e di un divano su cui passare la notte.

La consapevolezza di Llewyn è fuggevole, dura solo pochi attimi, mentre non riesce a vedere da fuori la ciclicità del suo agire, unica chiave di lettura che potrebbe forse aiutarlo a spezzare quel loop.

Persino il gatto che lo accompagna nell’odissea delle sue giornate, non a caso Ulisse, ci appare più scaltro e intelligente di lui: quando Llewyn non sa cosa fare, è Ulisse a scegliere per lui.. e quando finalmente riuscirà da solo a tornare a casa, Ulisse sarà per Llewyn lo specchio del suo scarso valore, come cantautore e forse anche come essere umano.

Il realtà, come spesso accade, la ciclicità dei fallimenti ha a tratti un sapore rassicurante: è in fondo prevedibile, familiare e protegge da emozioni ben peggiori e distruttive. Sullo sfondo c’è infatti il dolore per la perdita del suo amico ed ex socio, solo raramente ricordato, e la paralisi che segue il terrore e la disperazione vissuti di fronte ad eventi incomprensibili. Tutto si ferma da lì in poi.

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Alla fine sembra che sia proprio la struggente comicità del personaggio a permetterci di sentire empatia e autentica simpatia per lui: pur osservando i suoi grossolani errori, nessuno sembra riuscire a giudicarlo in modo definitivamente negativo. Gli si vuole bene, nonostante tutto.

La canzone che apre e chiude il film “Hang me” (di Dave Van Ronk) ci introduce subito all’umore nero che dominerà la scena e come al solito i fratelli Coen riescono a dare il ritmo perfetto a sorrisi e lacrime, queste ultime mai davvero liberate dalla morsa dell’ironia.

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