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Misurarsi – Tribolazioni Nr. 21 – Rubrica di Psicologia

Le mappe riguardano l’ambiente e sé stessi. La costruzione e il perfezionamento delle mappe è un prerequisito per il raggiungimento di qualsiasi altro scopo

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 31 Dic. 2013

TRIBOLAZIONI 21

MISURARSI

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Misurarsi - Tribolazioni #21. - Immagine: ©-Felix-Pergande-Fotolia.comMisurarsi: per ottenere buoni risultati è indispensabile avere buone mappe. Le mappe riguardano l’ambiente e sé stessi. Possiamo dire che la costruzione e il perfezionamento delle mappe sia un prerequisito per il raggiungimento di qualsiasi altro scopo Kelly (1955).

In altri lavori (Lorenzini, Sassaroli 1992, 1995, 2000) ho chiamato questa tendenza la spinta alla “massimizzazione della capacità predittiva” definendola una sorta di regola implicita del sistema (uno pseudo scopo). Il sistema teme l’ignoto equivalente a imprevedibile e dunque ingestibile. Cerca costantemente di perfezionare e rendere più verosimili le mappe del mondo e di sé che consentono il successo nel perseguimento degli scopi.

Possiamo vedere all’opera questo pseudo-scopo “epistemico” in una ampia categoria di comportamenti innati denominata “esplorazione”. L’esplorazione è finalizzata all’acquisizione di informazioni. Essa dunque viene rinforzata, come categoria, quando il comportamento esplorativo ancorchè punito da risultati dolorosi persino in grado di estinguerlo singolarmente, conduca comunque ad una acquisizione di conoscenza. Per essere più chiari. Toccare una lampadina incandescente produce una dolorosa scottatura. Da questa esperienza il sistema ne deduce due conseguenze:

  1. le lampadine scottano e dunque sarà meglio evitarle”: il singolo comportamento viene punito e forse estinto.
  2. toccare le cose da utili informazioni su di esse”: il che rinforza la categoria generale dell’esplorazione, in questo caso tattile.

Se dovessimo immaginare un risultato in grado di inibire il comportamento esplorativo dovremmo pensare ad un effetto paradossale per cui la conoscenza complessiva che si ha al suo termine sia minore di quella di partenza.

Molti anni fa avevo ipotizzato un meccanismo del genere per spiegare l’inibizione dell’esplorazione nei soggetti destinati a sviluppare una agorafobia. In quel modello ipotizzavo che a fronte di un comportamento esplorativo del bambino ci fosse, da un lato, un incremento di conoscenza sul mondo ma, dall’altro, un aumento dell’imprevedibilità della figura di attaccamento e di sè stessi per la scarsa conoscenza delle emozioni. La somma complessiva risultava negativa e dunque il soggetto rinunciava all’esplorazione in nome dello pseudoscopo epistemico che motiva ad accrescere o, perlomeno, non diminuire la capacità predittiva (Lorenzini, Sassaroli 1985, 1987, 1990, 1991, 1993, 1995, 1998, 2000).

In questo lavoro che si occupa di sofferenza non psicopatologica, riprendo lo pseudoscopo epistemico per tutt’altra argomentazione. E’ importante avere buone mappe ambientali per perseguire con successo i propri scopi ma la mappa più importante è quella riguardante sé stessi. La pianificazione di azioni efficaci non può prescindere da una valutazione attenta di sè. Per saltare un corso d’acqua è importante conoscerne l’ampiezza ma altrettanto la forza delle proprie gambe. Di fronte a qualsiasi compito l’autovalutazione circa l’autoefficacia è decisiva per scegliere se cimentarsi o meno. Valutare frequentemente sé stessi, in generale e su specifici compiti, è dunque attività utile e propedeutica alla scelta di quali scopi perseguire e come farlo.

A volte tuttavia questo scopo che potremmo chiamare “scopo epistemico riflessivo” (SER) è così tanto attivo e pervasivo da sottrarre risorse al perseguimento degli altri scopi dei quali dovrebbe essere al servizio. Il rapporto strumentale sembra invertito. Invece di valutarsi per avere successo si finisce per cercare di avere successo per potersi valutare positivamente. Il soggetto con un SER irrisolto si cimenta in sfide con sé stesso e con gli altri non per l’importanza della posta in palio ma semplicemente per dimostrarsi vincente. Un primo danno da SER irrisolto è il dispendio di risorse in attività non finalizzate al raggiungimento di un obiettivo esterno. Queste attività tendono a moltiplicarsi senza fine perché i campi su cui valutarsi sono molteplici. Non basta una generica valutazione di autoefficacia. Ne serve una per ciascun dominio importante dell’attività del soggetto. Oltre ad un cimento sincronico su più terreni che, peraltro, tende a peggiorare le performance, c’è anche un ripetersi diacronico delle medesime valutazioni. Infatti con un SER irrisolto non ci si accontenta della valutazione fatta una volta per tutte. Con il passare del tempo le proprie capacità potrebbero essere cambiate e sono necessarie continue verifiche. Non c’è garanzia che la propria prestanza sessuale o la propria amabilità siano immutate e dunque servono ripetuti esami.

Fin qui abbiamo argomentato sullo spreco di risorse che un SER irrisolto comporta frustrando in tal modo lo pseudo-scopo “della massimizzazione dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse”. Ma esiste tutta un’altra gamma di possibilità per generarsi tribolazioni. Questa costante attività auto valutativa, ancorchè inutilmente dispendiosa, può essere viziata da errori di ragionamento che portano a conclusioni negative su di sé. La tendenza a darsi valutazioni negative ha una spiegazione in termini di vantaggio evolutivo. Infatti se si erra nella per difetto il rischio che si corre è di rinunciare. Ma se, al contrario, si erra sopravvalutando le proprie capacità il rischio che si corre è il fallimento. Egualmente si manca il risultato ma nel secondo caso c’è anche sperpero di risorse e frustrazione. E’ preferito dunque un atteggiamento iperprudenziale e un eccesso di modestia.

Vediamo i più tipici errori di ragionamento che portano ad autosvalutarsi.

  1. In primo luogo si tende a dare per scontati i risultati precedentemente ottenuti e ad andare a testare un eventuale miglioramento come se fosse implicita una tendenza ad una evoluzione positiva (vedi capitolo 11 “l’illusione della crescita”). In questa costante sfida con sé stesso il soggetto alza continuamente l’asticella e ciò aumenta le probabilità di insuccesso. Il mantenimento non è considerato un risultato positivo. Solo l’incremento è giudicato soddisfacente.
  2. In secondo luogo per fare dei confronti è necessario un valore di riferimento, una base-line. Quando il confronto è con sé stessi e dunque diacronico il soggetto fruga nel suo passato alla ricerca di un evento con cui confrontarsi. Temendo di truccare a proprio vantaggio la prova non ricorderà un periodo qualsiasi, medio, ma uno in cui le cose sono andate particolarmente bene. In tal modo non tiene conto del fenomeno conosciuto come “regressione verso la media”secondo il quale le cose tendono a tornare alla normalità e gli eventi straordinari sono, appunto, rari e non ordinari. Nel confronto sincronico il punto di riferimento sono gli altri. La scelta dell’altro con cui operare il raffronto segue alcuni criteri. Deve essere un altro che abbia le stesse potenzialità del soggetto, per certi versi simile a lui e rientrare nell’ambito di persone verso cui potrebbe provare invidia. Non si dimentichi che i termini del confronto (anche nell’invidia) non sono su chi abbia di più ma su chi sia stato più bravo ad ottenerlo (una comune base di partenza è indispensabile per questo). In ossequio al suggerimento tipico dei genitori di guardare sempre ai migliori per trovare uno sprone al miglioramento piuttosto che accontentarsi, la scelta sul termine di paragone cade in genere su soggetti particolarmente in gamba. Essendo dello stesso ambiente potrebbero effettivamente essere proprio loro gli effettivi competitor con cui cimentarsi. Dunque è opportuno misurarsi proprio con loro. Un soggetto che si situi all’ottantesimo percentile nel suo gruppo di riferimento tenderà a non considerare i 79 che hanno prestazioni inferiori alle sue ma i 20 che le hanno migliori. Non basta. Qui si genera una ulteriore problema. Il soggetto infatti deve auto valutarsi in molteplici campi ed in ognuno sceglierà i migliori dimenticandosi che lui è sempre lo stesso. Come se un decatleta si misurasse con i campioni di ogni singola specialità.
  3. Infine sempre nell’ottica di preferire valutazioni severe e pessimistiche che il loro opposto viene scotomizzata l’importanza di fattori esterni non controllabili dal soggetto. La psicologia cognitiva ha coniato il termine di locus of control” ovvero dove il soggetto situa il centro direzionale della propria esistenza. Per alcuni tutto dipende da loro. Ognuno è totalmente responsabile della propria esistenza. Per altri è sempre qualcosa di esterno a determinare il corso delle cose. Gli altri, i potenti di turno, il proprio passato il destino, Dio. Indubbiamente un “locus of control” interno favorisce una maggiore assunzione di responsabilità e di protagonismo versus una sorta di passivo fatalismo. Tuttavia se esasperato può sfociare in una sorta di delirio di onnipotenza e/o di colpa. Il soggetto con un SER irrisolto è talmente assorbito dal continuo auto valutarsi in modo prudenziale che può attribuire i successi a cause esterne e gli insuccessi a sé. In conclusione la valutazione negativa a cui tutti questi bias conducono non fa altro che mantenere il SER irrisolto e attivo.

 

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