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Storie di Terapie #23 – La Testa Girata di Luca

Storie di Terapie #23 - La Testa Girata di Luca. Nessuno crede ai suoi disturbi, non lo prendono sul serio e non gli prestano le cure adeguate.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 11 Mar. 2013

Aggiornato il 13 Apr. 2022 15:28

 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso

– LEGGI L’INTRODUZIONE – 

 

Storie di Terapie #23 - La Testa Girata di Luca. - Immagine: © squadcsplayer - Fotolia.comL’unico motivo sano per fare questo lavoro è il denaro, diceva uno psicoanalista apparentemente cinico ma in realtà molto saggio.

Tutti gli altri motivi sono inquinanti: il desiderio di sentirsi buoni e la voglia di gratitudine, il voyerismo verso le vite degli altri, la necessità di sentirsi sani perché sono gli altri ad essere matti, il potere che si sente di esercitare, l’intimità che si sperimenta senza bisogno di aprirsi davvero all’altro (quella che chiamo la scopata con la scrivania in mezzo o, peggio, quella senza scrivania).

Sono tutti motivi peggiori del vile denaro.

Ma chi fa questo lavoro ha, soprattutto, bisogno di sentirsi buono, è spesso un accudente coatto.

Allora, per cercare di tenere distinte le cose, mi regolo in questo modo: normalmente lavoro per soldi, poi alcuni li vedo in regime di volontariato e, così,  mi salvo l’anima che perdo con gli altri.

Per accedere al regime di volontariato, i pazienti devono avere  due caratteristiche che si associano spesso: essere particolarmente matti e/o particolarmente poveri. L’importante è raggiungere una soglia, elevata per merito, di uno dei due addendi della sommatoria.

Luca non era ancora del tutto povero quando è arrivato da me ma lo sarebbe diventato rapidamente se avesse continuato a curarsi.

Solo nell’ultimo anno, a soli scopi diagnostici, aveva fatto tre TAC total body e cinque RMN alla colonna cervicale.

Come terapie: la posturale, due mesi di osteopatia, due ricoveri in riabilitazione intensiva, massaggi di tutte le scuole esotiche esistenti e tre mesi di Pilates.

Si era comprato tutti i possibili apparecchi riabilitativi sul mercato, ad emissione di  elettroni, positroni, raggi gamma, ultravioletti e infrarossi.

Faceva la ionoforesi con il cortisone, la massoterapia, lentamente aveva attraversato l’area della meditazione e dello yoga ed era poi approdato a guaritori e maghi di ogni risma, che toglievano malocchi e fatture senza rilasciarne mai, perché quando si sta male si provano tutte anche se non ci si crede.

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Aveva sfinito gli agopuntori di tutta la provincia e rischiato di intossicarsi persino con l’inerte omeopatia.

L’ostinazione della sua sofferenza l’avevano, infine, spinto ad un Centro di Salute Mentale dove si era preso una psicoterapia con una giovane tirocinante di bioenergetica e persino un ricovero in clinica psichiatrica con una bella scarica di psicofarmaci.

Arrivò da me su invio di alcuni sacerdoti esorcisti con i quali, talvolta, collaboro per tenermi buono l’aldilà, che non si sa mai. Quando lo vidi con la faccia e gli occhi gonfi di pianto mi venne in mente una scena del  film “La notte di San Lorenzo” dei fratelli Taviani, quando un partigiano, preso da pietà per il fascista compaesano che  rotola disperato intorno al corpo del figlioletto, odiosissimo fascistello, appena ucciso con una fucilata, invita il compagno ad un gesto di pietà dicendogli in toscano “O tiragli, un lo vedi come patisce!”.

Sparare immediatamente a Luca sarebbe stato un gesto di pietà, ma ho paura del botto e non tengo armi in studio, per cui mi predisposi ad ascoltarlo tra un tirar su col naso ed un singhiozzo.

Il disturbo sembrava avere un inizio precisissimo, connesso ad un evento concreto: estate di tre anni prima, lui si trova in  spiaggia  su una sdraio, a leggere il giornale sportivo. Poco distante un gruppo di coetanei scherza e ammicca alle ragazze. Tra questi Antonio, un prepotente che lo ha “bullizzato” sin dalle elementari, arrivando persino a fratturargli una gamba durante una partita di calcio. Antonio si alza per andar via e, quando gli passa accanto, gli afferra la testa tra le mani e la gira in senso orario. Gli altri ridono. Luca sente una fitta a livello del collo e torna a casa arrabbiato con Antonio, cui non dice nulla. La mattina successiva si sveglia con forti dolori alla colonna ed una evidente difficoltà a camminare. Tutti gli accertamenti immediati e susseguenti non evidenziano alcun danno, ma la sintomatologia aumenta fino a diventare invalidante perfino per il lavoro di inserviente al supermercato che Luca svolge. Inizia a pensare che la sua vita è rovinata per sempre e nulla potrà tornare come prima.

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 Al momento del consulto con me, il fastidio residuo è una sensazione di diversità, non meglio precisabile, che avverte sul cuoio capelluto nelle zone in cui è stato afferrato da Antonio.

La disperazione di Luca risiede nel fatto che nessuno crede ai suoi disturbi, non lo prendono sul serio e non gli prestano le cure adeguate pensando trattarsi di suggestione e, per questo, la sua vita resterà bloccata per sempre. Non parla d’altro che dei suoi sintomi fisici e delle possibili cure per risolverli. Qualsiasi altro argomento è sentito come una svalutazione della sua sofferenza fisica, la prova che non lo si prende sul serio.

Se il futuro appare a Luca come un calvario senza fine, il suo passato lo è stato effettivamente.

E’ venuto a vivere nel capoluogo all’età di sei anni perché il padre, tagliaboschi, aveva trovato un lavoro come usciere presso un ente provinciale dopo essersi tagliato una mano con la sega elettrica. L’incidente aveva peggiorato il suo alcolismo e la sua violenza. Mosso da una gelosia delirante, massacrava quotidianamente la moglie di botte e, altrettanto,  aveva preso a fare con Luca che riteneva complice della madre. Per due volte lo aveva spedito all’ospedale con fratture multiple alle costole ed una volta gli aveva cavato due denti  con una ginocchiata. La vita era un inferno di violenza, terrore e follia.

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Il padre, per affermare il suo dominio sulla moglie, tentava di possederla sessualmente appena tornava a casa, nella cucina, di fronte a Luca. Quando non ci riusciva, a causa dell’ubriachezza, vedeva ciò come la prova del tradimento della donna e questo scatenava una rabbia incontrollata.

Luca pregava perché il padre morisse e ne provava colpa.

Somatizzazione. - © Albix - Fotolia.com
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Nel quartiere, la famiglia del boscaiolo ubriacone e senza una mano era emarginata e derisa. Luca, in particolare, era preso in giro per i suoi modi gentili e riservati e i compagni di classe dicevano malignamente che il padre non scopasse solo la madre, ma anche con  lui, quando riusciva ad acchiapparlo con la mano buona.

L’adolescenza era stata segnata dal bullismo dei compagni e dalla paura di essere, prima o poi, ucciso dal padre.

All’età di 17 anni chiese ad un medico se esistessero farmaci per smettere di bere e questi gli prescrisse l’Antabuse, raccomandandosi però di mandargli il padre a visita per poter spiegare a lui come assumerlo. Luca era certo che il padre non sarebbe mai andato e lo avrebbe gonfiato di botte, perciò decise di agire in proprio: con un mortaio ridusse in polvere tre compresse e le mischiò alla minestra di ceci e farro che il padre adorava.

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Il padre, effettivamente, smise di bere ma anche di mangiare e di respirare. La mattina successiva giaceva in bagno, gonfio come un rospo, con la testa spaccata tra il water e il bidet.

Senza lo stipendio del padre Luca non poteva continuare a studiare per geometra e perciò, grazie ad un fratello della madre, fu assunto come magazziniere in un supermercato di Novara e partì.

Nonostante mi avesse raccontato di essere stato sempre bene, prima dell’episodio della testa girata, non era esattamente così.

A Novara aveva avuto un primo “esaurimento nervoso”, per il lavoro faticoso e la lontananza da casa. Non dormiva, mangiava pochissimo fino ad una  notte, un  quindici  agosto, che si svegliò in preda ad un incubo terrificante: lo avevano condannato a morte e la mattina seguente, per la festa di Maria, sarebbe stato bruciato su un rogo in piazza. Era certo che, della sua cattura ed esecuzione, fossero stati incaricati i cinesi. Si diede alla fuga verso il confine, prese un treno senza il biglietto, ma a Chiasso fu bloccato alla frontiera per mancanza di passaporto. Tre giorni di ricovero presso un SPDC di Milano e poi il ritorno nella sua città,  con un ambulanza.

Rientrato a casa dovette abituarsi alla presenza di Carlo, il nuovo compagno della madre, lo stesso che era stato oggetto delle gelosie del padre. Carlo era un gigante di  oltre due metri e anche lui beveva e picchiava la madre.

 Luca decise che, per il momento, non se ne sarebbe occupato. Riprese a lavorare come magazziniere in un autoricambi e si fidanzò con Marta, studentessa di Scienze della Comunicazione. Era una ragazza mite, costruita su due piedistalli, la bruttezza e la bontà, cercando di compensare con la seconda la prima.

La scelta di Luca era stata osteggiata dalla sua famiglia, ma lui era contento così.

La mattina in cui tutto ebbe inizio, Marta era stata a Tarquinia con Luca. Avevano tentato in auto, nella pineta, di avere un approccio intimo ma l’erezione era venuta a mancare nel momento decisivo. Mentre si rivestiva angosciato, Luca ricordava di aver pensato che forse non ci riusciva perché era Marta a non concedersi in quanto coinvolta con un altro.

In seduta  riuscì a ricordare che, mentre era seduto sulla sdraio al sole e sentiva ridere il gruppetto di Antonio e dei suoi amici, aveva pensato che sapessero del suo insuccesso e ridessero di lui. Era sicuro che fosse proprio Antonio, il bullo che gli aveva rotto una gamba, l’amante segreto di Marta. Nel girargli la testa aveva voluto dirgli di fronte a tutti “guardati intorno e ne vedrai delle belle!” e ancora “siccome sei un testa di cxxxo abbassa la testa così come si è abbassato il tuo …… “.

Luca aveva provato un’ umiliazione ed una rabbia forsennate ma non aveva mosso un dito, nè detto una parola. Era paralizzato dalla paura, pensava che tutti sapessero  che era un vigliacco impotente.

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Quando arrivò al mio studio nonostante due anni di terapie di tutti i generi e relative spese non aveva mai detto nulla al suo aggressore, né  presentato alcuna denuncia per ottenere un risarcimento.

Io pensai di dover  agire, almeno per il momento, su un piano prevalentemente comportamentale: avevo l’impressione che la vergogna e l’umiliazione fossero per Luca ancora inelaborabili su un piano intrapsichico. Gli vietai di intraprendere qualsiasi  terapia che fosse a pagamento; i soldi risparmiati li avrebbe usati per frequentare un corso di arti marziali, allo scopo di acquisire  maggior sicurezza di sé. Gli consigliai, inoltre, di  incaricare un avvocato che facesse causa ad Antonio per ottenere un risarcimento.

Il lavoro successivo, più squisitamente terapeutico, fu  dedicato allo sviluppo dell’assertività in tutte le situazioni in cui si sentiva umiliato e sopraffatto dall’altro.

Lo stato d’animo di Luca stava lentamente migliorando quando improvvisamente smise di venire.

Lo richiamai dopo un paio di settimane per capire le sue intenzioni. Mi disse che stava bene e il problema si era risolto. Antonio, con la sua automobile, non aveva frenato a sufficienza e, su un curvone, aveva abbattuto il muretto ed era finito nel fosso,  cinquanta  metri più in basso. L’auto si era incendiata, nonostante fosse una notte invernale, fredda e piovosa.

Il mio compito era finito e non volevo saperne di più, ma credo che anche Carlo prima o poi abbia smesso di bere.

 

LEGGI L’INTRODUZIONE ALLA RUBRICA “STORIE DI TERAPIE”

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