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Reality e la spettacolarizzazione del nulla: recensione del film di Matteo Garrone (2012)

Reality di Garrone mette in guardia lo spettatore rispetto alle minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 24 Ott. 2012

 

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Reality (2012) di Matteo Garrone. Recensione di State of Mind
Locandina cinematografica di Reality (2012) di Matteo Garrone

Il film di Garrone mette in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale

La visione di Reality, Grand Prix al Festival del Cinema di Cannes e ultima fatica dell’ottimo regista di Gomorra (2008), mi ha provocato un deja vù.

Nell’estate del 2009 mi trovavo in una discoteca del Salento (sì proprio quello di Nosignorano…di Biagio Antonacci) e all’improvviso ho visto la folla agitarsi, contenuta a fatica da giganteschi buttafuori: stava entrando Lele Mora accompagnato mi pare da tale Gianluca (ma potrei sbagliarmi), partecipante napoletano del Grande Fratello, che io colpevolmente manco conoscevo (l’unico che mi è rimasto impresso tra le varie saghe è il povero Taricone, pace all’anima sua). Mi ricordo il sorriso stampato di Gianluca, il look vagamente metrosexual, ma soprattutto l’entusiasmo dei fans in fila per un autografo, una stretta di mano, una benedizione.

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Reality inizia proprio con Enzo, il Gianluca di turno, che arriva come un capo di stato in elicottero a fare l’ospite in un hotel per matrimoni napoletano. E’ lì che il pescivendolo Luciano Ciotola viene folgorato dall’idea di poter concorrere a sua volta per inseguire la celebrità. Luciano è supportato in questo anelito da una grottesca famiglia fortemente sovrappeso, in cui il binge eating disorder (DSM-IV) di ispirazione consumistica assume verosimilmente aspetti di epidemia da centro commerciale americano.

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Il protagonista, un po’ guascone, tipo lo zio scemotto che c’è in tante famiglie che ama fare gli scherzetti durante i ritrovi per le feste comandate, insegue il sogno del reality fino a diventarne vittima. Passa le selezioni locali e arriva a quelle romane, dove parla per più di un’ora con lo psicologo, con l’effetto di amplificare le proprie aspettative rispetto all’essere selezionato. E’ nell’attesa della chiamata definitiva che mai si concretizzerà che si consuma il dramma psicopatologico di Luciano Ciotola.

L’evento stressante in una personalità predisposta, secondo il modello stress vulnerabilità (Zubin, 1977), è in questo caso il sogno della celebrità e l’occasione (seppur remota) di poterlo realizzare, con tutti i cambiamenti che può comportare nel fragile uomo qualunque. Il protagonista inizia a vivere la propria realtà quotidiana in maniera sempre più distorta, fino a sviluppare una franca ideazione paranoide, che lo induce a scelte assolutamente avventate come il vendere la pescheria, perché già sicuro del suo futuro nella Casa del Grande Fratello.

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Oltre all’appoggio della famiglia, Luciano riceve un potente rinforzo anche dall’ambiente circostante, che pare non aspettare altro, come riscatto sociale, che avere un proprio rappresentante tra quelli che vanno in televisione, che “ce l’hanno fatta“. Ma fatta a fare cosa? A realizzarsi pienamente solo come personaggio virtuale, prodotto di punta della società postmoderna (Cianconi, 2011).

A cercare la scorciatoia per essere in un battibaleno amato da tutti, invidiato da tutti, non per qualcosa che si è fatto o si sa fare, che si è costruito faticosamente, ma solo per l’essere Luciano, un simpatico uomo qualunque.

D’altra parte gli psicanalisti ci insegnano che più che il castrante Super-io, che andava forte agli inizi del secolo scorso quando fu concettualizzato da Freud, nel mondo di oggi è l’Ideale dell’Io (prima comparsa del concetto: nel 1914 in “Introduzione al narcisismo”) che detta le nostre leggi esistenziali. Come spiega Bolognini (2008) “in presenza di un eccesso di ideale dell’Io (o – il che non è lo stesso – con un’ideale dell’Io troppo elevato) l’individuo ha praticamente la garanzia di rovinarsi l’esistenza, alla perenne rincorsa di un sé stesso irrealizzabile”.

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Credo che il film di Garrone metta in guardia lo spettatore rispetto alle nuove minacce all’umana fragilità della società postmoderna e del sogno virtuale. Quei geniali “sociologi” delle Iene1 hanno parlato tra i primi di “depressione da reality”, di cui in letteratura non ho ancora trovato nulla, in cui il termine “depressione” include in realtà alcolismi e dipendenze varie, tentativi di suicidio, disturbi del comportamento alimentare e dismorfofobie con selvaggi interventi di chirurgia estetica.

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Mi ha colpito in tal senso la storia di tale Paolo, che dopo una preoccupante crisi di nervi in diretta nella Casa del Grande Fratello, è finito in una casa meno accogliente che si chiama Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura e ora ha ritrovato un equilibrio facendo l’idraulico.

Reality, a mio avviso, va mostrato nelle scuole e propongo anche ai principali conduttori di talk show televisivi nazionali di invitare qualche vero idraulico in trasmissione. Almeno ogni tanto.

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