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La teoria dell’attaccamento

L'attaccamento si esplica attraverso dei comportamenti innati, messi in atto dal bambino per sollecitare le cure materne e attirarne l'attenzione

Di Manuel Trasatti

Pubblicato il 06 Set. 2022

Aggiornato il 09 Set. 2022 13:55

La teoria dell’attaccamento è una teoria concettualizzata dallo psicologo e psicoanalista inglese John Bowlby (1907-1990) e derivata da una serie di studi osservazionali di carattere sperimentale incentrati sulla forte relazione esistente tra madre e bambino e sui processi che favoriscono lo sviluppo dei legami affettivi nel contesto familiare. 

 

Tale teoria si prefigge l’obiettivo di indagare il modo in cui si forma e, nel corso del tempo, si sviluppa il legame di attaccamento, come esso influisca sulla maturazione psicobiologica del bambino, sul suo sviluppo personologico, sulla strutturazione di abilità sociali, su peculiari competenze emotive (la capacità di regolazione degli stati affettivi, la comprensione degli stati emotivi propri e altrui, l’espressione delle emozioni, la tolleranza alla frustrazione, la reattività allo stress, la resilienza, ecc), sulla creazione di rapporti interpersonali, di relazioni sociali e sentimentali, e sulla rappresentazione che il bambino costruisce di sé, dell’altro e del mondo circostante.

Bowlby colloca il periodo di formazione del legame di attaccamento in un lasso di tempo specifico, detto “periodo sensibile”, che circoscrive al primo anno di vita. Per legame di attaccamento si intende un particolare vincolo di carattere affettivo ed emotivo – selettivo, intimo, intenso e indistruttibile – che lega indissolubilmente il bambino a una figura di riferimento preferita e differenziata (generalmente la madre o un caregiver) che possa prendersi cura di lui e trasmettergli amore, protezione e calore umano. Il legame di attaccamento, quindi, non è un rapporto di dipendenza, quanto piuttosto una relazione primordiale, basata sulla ricerca, da parte del bambino, di una sicurezza fisica ed emozionale, di un senso di protezione, vicinanza e conforto, che resta immodificabile per tutto il corso della vita, seppur sia possibile stringere legami molto forti con altri individui durante tutto l’arco della nostra esistenza.

Le funzioni del legame di attaccamento

Nello specifico, Bowlby teorizza l‘attaccamento come un sistema di motivazione intrinseca e primaria, cioè una predisposizione biologica del bambino verso una persona che possa prendersi cura di lui: siamo geneticamente portati a cercare amore, a stare accanto a chi ci fa sentire al sicuro, a stringere relazioni di natura affettiva. L’attaccamento è per Bowlby un termostato, cioè un sistema di controllo, teso a mantenere costante una certa condizione, ovvero la presenza di una figura affettiva forte e significativa, nonché un sistema psicobiologico che assicura all’individuo successo riproduttivo e sopravvivenza biologica. Secondo Bowlby, Il bambino mira a soddisfare un bisogno fondamentale che motiva le sue condotte: cioè la ricerca di un contatto fisico e di una vicinanza emotiva con una figura che gli infonda protezione e benessere. Tale figura assolve una funzione importante, quella di base sicura: affinché tra bambino e caregiver si possa costruire un solido legame di attaccamento ed esso consenta al piccolo di intraprendere percorsi evolutivi positivi e sviluppare delle efficaci risorse interiori, affettive, emotive, cognitive e delle buone competenze sociali, è necessario che il bambino si fidi della figura con cui si relaziona fin dai primissimi mesi di vita, cioè che l’attaccamento si fondi su un reciproco senso di fiducia e che il caregiver costituisca l’equilibrio adeguato perfetto tra il bisogno primario di sicurezza che nutre il bambino e la sua motivazione, parimenti innata, di esplorare il mondo, conoscere l’ambiente circostante, esperire la realtà attorno a lui e interagire con gli altri. Il caregiver, quindi, ha un importante compito evolutivo, cioè quello di offrire al bambino un rifugio affettivo, ma anche di consentirgli di relazionarsi con la realtà in maniera graduale e propositiva, per ottimizzare la qualità del suo sviluppo.

L’attaccamento si esplica attraverso dei comportamenti innati, messi in atto dal bambino per sollecitare le cure materne e attirarne l’attenzione; tali comportamenti possono essere di segnalazione (come il pianto o il riso) o di avvicinamento (come l’atto di aggrapparsi alla madre e di seguirla). Il sistema di attaccamento, in particolare, si attiva nel momento in cui il bambino percepisce una sensazione di disagio, di minaccia o di pericolo, quando non si sente al sicuro (per esempio quando si trova in presenza di un estraneo) o quando desidera che qualche suo bisogno venga soddisfatto (per esempio quando ha fame). I comportamenti attuati dal bambino svolgono quindi un’importante funzione adattiva, in quanto segnalano al caregiver l’esistenza di una situazione di disagio e di stress e lo esortano a rispondere alle richieste del piccolo. Un esempio eclatante di comportamento di attaccamento con scopo adattivo è certamente la protesta che il bambino emette nel momento in cui viene separato dalla madre: la separazione dalla figura di riferimento è un evento per lui stressante, spesso fonte di ansia, angoscia, rabbia e paura; il pianto che ne deriva serve pertanto a richiamare la madre e a spingerla ad accorrere il prima possibile.

Le fasi di costruzione del legame di attaccamento

La costruzione del legame di attaccamento – profondo vincolo affettivo che unisce indissolubilmente il bambino al caregiver fin dai primissimi anni di vita – avviene nell’arco di quattro fasi specifiche individuate dallo stesso Bowlby: preattaccamento, sviluppo dell’attaccamento, attaccamento ben sviluppato, relazione di attaccamento regolata in funzione dell’obiettivo.

  • Prima fase – preattaccamento (0-2 mesi): in questa fase i comportamenti di segnalazione messi in atto dal bambino non sono né intenzionali né selettivi e il bambino manifesta una risposta sociale indiscriminata, una certa selettività percettiva (tendenza a focalizzare l’attenzione sui volti umani) e una forma di pre-adattamento sociale, cioè una motivazione innata all’esplorazione dell’ambiente e al contatto con gli altri.
  • Seconda fase – sviluppo dell’attaccamento (2-7 mesi): la ricerca di contatto diventa selettiva, cioè rivolta in maniera preferenziale verso una sola persona. Il bambino comincia a comprendere le principali caratteristiche della relazione diadica e mette in atto comportamenti di segnalazione. Bambino e caregiver in questa fase raggiungono un’armonia interattiva, caratterizzata dalla presenza di una mutua regolazione reciproca degli stati emotivi, affettivi e dell’attenzione, una forma di sincronizzazione in termini di interazione e risposte comportamentali.
  • Terza fase – attaccamento ben sviluppato (7-24 mesi): in questa fase si comincia a parlare di vero e proprio legame di attaccamento, cioè un legame selettivo e preferenziale. Il bambino rivolge le sue richieste affettive su una specifica figura di riferimento, che considera come fonte della sua sopravvivenza psicobiologica; sente il bisogno di vicinanza affettiva, di contatto fisico, ma desidera anche esplorare il mondo attorno a lui: il caregiver ha il compito di coniugare le due dimensioni volitive del bambino. Il bambino comincia a organizzare i rapporti in termini di relazioni durevoli, a sperimentare l’ansia da separazione, cioè la paura che il caregiver possa allontanarsi da lui e abbandonarlo, e la paura dell’estraneo, cioè un senso di diffidenza nei confronti di una figura non familiare.
  • Quarta fase – relazione d’attaccamento regolata in funzione dell’obiettivo (>24esimo mese): la relazione tra la figura di affidamento e il bambino assume connotazioni di reciprocità e bidirezionalità, in quanto operano in vista di scopi comuni, come la ricerca di una vicinanza interattiva, e il bambino inizia a comprendere maggiormente le esigenze della madre e a tollerare le separazioni precoci con meno ansia e angoscia. In questa fase avviene lo sviluppo di quelli che Bowlby definisce “Modelli Operativi Interni” (MOI).

Il termine MOI identifica un modello mentale che il bambino costruisce di sé e della figura di attaccamento. I modelli operativi interni si sviluppano grazie all’acquisizione, da parte del bambino, di importanti conquiste cognitive, come la capacità di simbolizzazione dell’esperienza sensoriale, cioè l’abilità di rappresentarsi in maniera semplicistica gli eventi e di manipolare gli oggetti e gli stimoli esterni senza operare concretamente su di essi. Questo vuol dire che la maggiore resilienza che manifesta il bambino quando si separa dalla madre è dovuta al fatto che in questa fase egli sia capace di sentire la madre vicina a sé anche quando non è fisicamente presente, di crearsi una raffigurazione mentale del ricongiungimento tra di loro e di pensare che, anche se in un determinato momento si trovano l’uno lontano dall’altra, presto la madre tornerà da lui e lo accoglierà nuovamente. I MOI si configurano come rappresentazioni mentali della relazione che il bambino ha fin dai primissimi mesi con la figura di riferimento e si strutturano attraverso regolari e ripetute esperienze affettive e relazionali che intercorrono tra di loro: sono pertanto astrazioni delle dinamiche interattive tra bambino e genitore che vanno a incardinarsi nella struttura psichica del piccolo. I MOI sono schemi mentali, di natura affettiva e cognitiva, tramite cui il bambino categorizza la relazione diadica; essi rispecchiano la personale visione che il bambino ha del suo rapporto con il caregiver, ma non sono unicamente circoscritti alla relazione diadica primordiale, in quanto vengo presto generalizzati a tutti i legami sociali e i rapporti interpersonali che il bambino comincia a sperimentare –e che sperimenterà nel corso della sua esistenza–, andando a confluire in quello che gli psicoanalisti contemporanei definiscono “inconscio rappresentazionale”. Altresì i MOI rappresentano meccanismi inconsci, stabili e resistenti al cambiamento, nonché una mappa conoscitiva del mondo, tramite cui il bambino si costruisce un modello di riferimento che orienti in maniera generale la sua comprensione del funzionamento delle relazioni e del mondo, fortemente condizionata dalla percezione che ha del suo rapporto con la figura di riferimento. I MOI consentono al bambino di strutturare le sue conoscenze, di organizzare azioni e ricordi, di filtrare gli input sensoriali, di offrire alla realtà una sua personale interpretazione, di esperire e scandagliare il mondo circostante, di relazionarsi con il caregiver e con gli altri, di interagire e di porsi nei confronti di altre persone. I MOI permettono al bambino anche di formulare ipotesi, congetture e supposizioni circa il comportamento umano e gli stati emotivi propri e altrui, di crearsi aspettative circa la sua vita sentimentale, relazionale e interpersonale, di direzionare le sue esperienze presenti, di configurare il suo futuro, di veicolare le sue impressioni, le sue sensazioni e i suoi processi percettivi. I MOI sono il prodotto di un processo inconscio di internalizzazione e interiorizzazione del legame di attaccamento e rappresentano importanti strutture di memoria, dal momento che, secondo i teorici dell’attaccamento, il modo in cui in età adulta ci relazioniamo con gli altri è particolarmente influenzato dal modo in cui è andata a snodarsi la relazione con la figura di riferimento e il bambino l’ha vissuta e interpretata.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Santrock J. W. (2017). Psicologia dello sviluppo. McGraw-Hill.
  • Ainsworth M, D.S., Blehar M.C., Waters E. e Walls S. (1978). Patterns of attachment: A psychological study of the strange situation. Lawrence Erlbaum Associates Publishers.
  • Bowlby, J. (1982). Costruzione e rottura dei legami affettivi. Raffaello Cortina Editore.
  • Bowlby, J. (1982). Attaccamento e perdita. Vol.3: la perdita della madre. Boringhieri.
  • Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Raffaello Cortina.
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