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È stata la mano di Dio (2021) di P. Sorrentino – Recensione del film

È stata la mano di Dio di Sorrentino reclama diversi concetti cari alla psicologia: la colpa del sopravvissuto, il mito salvifico, l'attaccamento, il lutto

Di Giuseppe Femia

Pubblicato il 21 Gen. 2022

È stata la mano di Dio, il film di Paolo Sorrentino candidato all’Oscar 2022, è la rappresentazione di un lutto che riecheggia, segna la vita e genera creatività. Un’immersione nel passato che travolge. Il trauma di cui finalmente il regista sembra liberarsi dando in pasto agli spettatori i propri vissuti emotivi

 

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

Una bolla di ricordi in cui la resilienza creativa spicca, spacca, smuove e commuove. Il trauma di cui finalmente il regista sembra liberarsi dando in pasto agli spettatori i propri vissuti emotivi, con abilità cinematografica, orgoglio e umiltà e abbandonando per una volta l’immagine del “protettore distaccato”.

È stata la mano di Dio, il film di Paolo Sorrentino candidato all’Oscar 2022, è la rappresentazione di un lutto che riecheggia, segna la vita e genera creatività. Un’immersione nel passato che travolge. “Tuuf, tuuf”, lo schiaffo del motoscafo offshore sull’acqua, scandisce un refrain di suoni che lo portano a rivivere la sua vita, come se fosse il nastro riavvolto di un percorso terapeutico.

La pellicola del regista de La grande bellezza però parla soprattutto un linguaggio psicologico, intimo, elabora un vissuto traumatico, regalando così al grande pubblico la parte più vulnerabile del suo autore: disvela la sua sofferenza che sembra essere l’origine dell’esaltazione estetica, della bellezza, dell’erotismo, dell’eccesso come antidoto alla tristezza, tratto caratteristico della sua opera cinematografica.

Il film reclama infatti (volutamente?) concetti cari alla psicologia: la colpa del sopravvissuto, il mito salvifico (Maradona), l’attaccamento, le fasi del lutto: dalla rabbia all’accettazione e alla capacità di reinvestire su altri scopi; affronta il tema complesso della perdita: la tendenza verso la fuga e poi il ritorno in un dinamico conflitto fra distacco e appartenenza. Offre spunti di riflessione sul quel duro e al contempo adrenalinico passaggio fra adolescenza ed età adulta, sulla separazione e l’individuazione. Seppure potrebbe non essere un evento autobiografico, ma una mera costruzione artistica, la scena di sesso con l’anziana nobildonna che inizia Fabietto al piacere sembra rappresentare un trauma nel trauma che paradossalmente scuote il protagonista, tirandolo fuori dalla stasi in cui lo aveva costretto il dolore.

La morte e il trauma, come la città di Napoli, nel film, fungono da sfondo e da cornice alla scelta creativa, cinematografica, futura, del giovane e, per noi spettatori, retrospettivamente, a tutte le opere di Paolo Sorrentino.

Un continuo flusso di ricordi che tornano, montati quasi fossero una narrazione del regista che da esterno racconta il suo processo interiore di elaborazione del proprio vissuto doloroso passando per i ricordi più ancestrali come il “Monaciello” che rappresenta la doppia faccia della natura, al contempo magnanima e dispettosa.

Appare interessante come la pellicola viene prodotta in un periodo che porta con sé qualcosa di traumatico, vale a dire la pandemia, che certamente risveglia tematiche di lutto, morte e solitudine. Sembra plausibile pensare che vi sia una connessione tra il clima pandemico durante il quale il film viene concepito e il trauma narrato nel film.

Una madre che si diverte a fare scherzi, una giocoliera con un carattere meravigliosamente dolce che soffre per un tradimento, una famiglia unita, scherzosa e il dramma improvviso che irrompe e trasforma tutto.

“Ti hanno abbandonato! Non ti disunire! Devi piangere! Devi riprenderti la vita”.

Come nello stile sorrentiniano, il film offre una carrellata di personaggi, tipi umani, tipi psicologici, diversità espresse in ogni manifestazione, tipizzando le emozioni quali la rabbia (la donna che fagocita la mozzarella), la vergogna e al contempo la gelosia (del marito della zia che con fare istrionico seduce alla vita), la tristezza (che appartiene in qualche senso a tutti i protagonisti).

Tutte figure che cercano di smuovere un dolore ancora vivo, seppure lenito da un’estetica meravigliosa e da un’ironia travolgente, catapultando lo spettatore fra risate e pianto, fra comico e tragico, con un saliscendi di dolore che non dà tregua.

Non mancano la descrizione del vuoto e delle strambe e stravaganti forme di riempimento, la sofferenza psicologica e la volontà di combatterla o affrontarla, fra esuberanza e creatività.

La cornice resta la bellezza in sincretismo con l’erotismo “napoletano”, sincero, senza vergogna, spudorato, che si mescola a un materno tanto giocoso quanto disperato. La donna come filo costante della sua ispirazione che ti conduce a cogliere in ogni minimo dettaglio “gli sparuti, incostanti, sprazzi di bellezza” che decantava nel film già premio oscar.

Sembra come se il protagonista nel dolore cercasse il piacere, passando per il sesso e provando poi a superare la colpa, finché non realizza che il cinema, il suo mezzo, gli serve per affrontare una “deludente realtà”.

Un film autentico che porta chi guarda a rivivere la storia del regista, fin dentro al suo trauma: una catarsi, che rappresenta l’ineluttabile compiutezza di una fase cruciale della sua vita, una sintesi nel senso greco del termine che unisce e integra e ri-scrive gli scenari traumatici.

L’opera tutta spinge sulle emozioni, senza però trascurare tecnica e acrobazie cinematografiche in cui ogni personaggio ritorna, reclamando i precedenti film di cui il regista ci ha già omaggiati: i topos dei suoi film, le memorie incostanti di personaggi, vestiti, luci, dettagli, gli affreschi umani che hanno costellato i suoi ricordi. Questa storia però, così intima, stimola empatia e solletica le lacrime di chiunque abbia vissuto una perdita o la teme. È la perfezione di una creatività dolorosa che afferra l’emotività e la porta a spasso nei cieli della cinematografia.

 

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