Il funzionamento della mente rende vulnerabili alla disinformazione
Com’è possibile cadere vittime della disinformazione nel 2024? Pensiamo di essere attenti, di non farci trarre in inganno facilmente, abbiamo a disposizione Internet e la possibilità di verificare le informazioni, eppure può succedere. Per capire come sia possibile dobbiamo partire da come funziona il nostro cervello.
Nessuno è completamente immune alla disinformazione e alle fake news e questo è dovuto proprio a come funziona la nostra mente: utilizza scorciatoie mentali, o euristiche, che permettono di costruire un’idea generica su un argomento senza effettuare troppi sforzi cognitivi. Sono strategie veloci utilizzate di frequente per giungere rapidamente a delle conclusioni (Euristiche – State of Mind).
Nel suo articolo pubblicato sul The Washington Post il neuroscienziato Richard Sima affronta proprio questa tematica, raccogliendo gli studi di esperti nel settore (Sima, 2022).
Per prima cosa ricostruiamo i meccanismi che possono renderci più vulnerabili alla disinformazione. L’essere umano tende a credere a ciò che vede e sente perché la maggior parte delle cose a cui siamo esposti è effettivamente vera; inoltre, usiamo la familiarità e la facilità di comprensione come scorciatoie cognitive, e più vediamo qualcosa che si ripete, più sarà probabile che la riterremo vera. Inoltre, siamo anche più suscettibili alla disinformazione quando questa si adatta alla nostra visione del mondo: siamo propensi infatti a cadere nel bias di conferma, cioè la tendenza a cercare e dare più credito alle informazioni che si adattano a ciò in cui già crediamo (Sima, 2022).
Nel mondo attuale, però, questo tipo di scorciatoie mentali è facilmente sfruttabile dall’informazione veloce che può diffondersi su Internet e tramite i social media, che possono amplificare notizie non veritiere.
Un recente esempio di disinformazione riguarda l’identità dell’uomo che ha sparato a Donald Trump durante il comizio in Pennsylvania. Prima che il nome dell’uomo fosse reso pubblico, sui social network sono circolate false notizie, tra le quali la più diffusa indicava come attentatore un giornalista italiano. Subito dopo l’attentato, una foto del giornalista accompagnata da un testo che lo definiva “il cecchino di Trump” ha iniziato a circolare sui social X (ex Twitter), Gab e Telegram. La diffusione della foto è stata probabilmente amplificata dal fatto che l’abbia condivisa un account su X seguito da oltre un milione di utenti, Wall Street Silver. La diffusione è stata così ampia (la foto ha raggiunto oltre due milioni di visualizzazioni prima di essere eliminata dall’account) che diversi giornali e agenzie stampa internazionali hanno dovuto smentirla (La fake news sull’attentato a Trump che ha coinvolto uno youtuber italiano – Il Post).
Perché la disinformazione è difficile da cancellare?
Una volta che siamo entrati in contatto con una notizia errata, è difficile sradicarla, anche quando scopriamo che si trattava di informazioni false. La disinformazione, infatti, sembra continuare ad influenzare il nostro cervello, fenomeno che prende il nome “effetto di influenza continua” (Sima, 2022).
Una meta analisi condotta da Walter e collaboratori (2019) ha evidenziato che, in media, rivelare la falsità di una notizia non elimina del tutto il suo effetto. In accordo con quanto spiegato sopra sulle euristiche e sui bias, lo studio di Walter ha riscontrato che la correzione delle notizie false ha più successo quando si basa su informazioni coerenti con la visione del mondo della persona e quando viene fornita dalla fonte stessa della disinformazione. La “correzione” tuttavia era meno efficace se la notizia falsa era stata data da una fonte credibile, se la notizia era stata condivisa e ripetuta più volte ed infine quando passava un ampio intervallo di tempo tra la comunicazione della notizia falsa e la sua correzione (Walter et al., 2019).
Per capire meglio gli effetti della disinformazione, Gordon e colleghi (2019) hanno condotto uno studio con neuroimaging cerebrale che ha evidenziato come la disinformazione, anche dopo essere stata smentita, rischia comunque di influenzare il giudizio e il ragionamento delle persone. Questo sembra essere dovuto a una competizione tra l’informazione corretta e la disinformazione iniziale, entrambe immagazzinate in memoria: in altre parole, la suscettibilità all’influenza continua della disinformazione può derivare dalla conservazione simultanea nella memoria di informazioni corrette e informazioni errate (Gordon et al., 2019). Quindi, uno dei maggiori ostacoli alla disinformazione è il fatto che ascoltare la verità non cancella dalla nostra memoria un’informazione falsa (Sima, 2022).
Come possiamo proteggerci dalla disinformazione?
Se gli studi ci dicono che una volta vista/sentita una notizia falsa rischiamo di esserne influenzati anche dopo aver scoperto che era errata, allora il focus si può spostare dal combattere la disinformazione al riconoscerla fin dal principio.
A questo proposito Sima utilizza un’immagine molto efficace: così come un vaccino prepara il sistema immunitario a combattere un “invasore esterno”, è possibile rafforzare il “sistema immunitario psicologico” contro la disinformazione (Sima, 2022). Lo studio di Roozenbeek e colleghi (2022) è partito dalla “teoria dell’inoculazione”, che è stata proposta come un modo per ridurre la suscettibilità alla disinformazione informando le persone sulle tecniche di disinformazione più diffuse. I ricercatori hanno sviluppato cinque brevi video che “vaccinano” le persone contro le tecniche di manipolazione comunemente utilizzate nella disinformazione: linguaggio emotivamente manipolativo, incoerenza, false dicotomie, capro espiatorio e attacchi rivolti alla persona.
Ogni video forniva come prima cosa un avvertimento dell’imminente “attacco di disinformazione” e spiegava già come contrastare la tecnica di manipolazione che sarebbe stata utilizzata; successivamente il video presentava una “microdose” di disinformazione sotto forma di esempi innocui e divertenti. A questo link è possibile vedere i video utilizzati. Ciò che è emerso dallo studio è che l’utilizzo dei video migliorava il riconoscimento delle tecniche di manipolazione e aumentava l’abilità delle persone nel discernere i contenuti affidabili da quelli non affidabili (Roozenbeek et al., 2022).
Tutti gli esseri umani sono vulnerabili alla disinformazione, capirne il funzionamento può aiutare a cadere meno facilmente in questo meccanismo.