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Il legame di attaccamento come fonte di protezione e pericolo. Una paradossale combinazione 

Il sistema di attaccamento non dipende solo dalla sperimentazione di vissuti piacevoli con il caregiver ma può perdurare anche nelle relazioni maltrattanti

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 23 Mag. 2024

La figura di attaccamento

Sin dai primordi della vita, l’individuo è alla ricerca di una figura che gratifichi i suoi bisogni primari e lo protegga dalla vulnerabilità che caratterizza gli stadi arcaici dell’esistenza. Ciò sulla scia di un istinto di sopravvivenza finalizzato a neutralizzare tutti i fattori, endogeni e ambientali, che potrebbero mettere a rischio il Sé. 

Ma la pulsione vitale non è diretta unicamente alla sopravvivenza. O, in altri termini, la sopravvivenza non è soltanto una questione di carattere fisiologico, essendo implicata anche alla presenza di un legame affettivo stabile, al quale affidarsi totalmente, in un rapporto di dipendenza che corrobora le dimensioni fisiche come quelle emotive. Creando, di fatto, le basi di un Sé funzionale.

La spinta al legame di attaccamento

La necessità di relazione, insopprimibile in ogni essere vivente, viene espressa tramite la ricerca precoce di prossimità fisica, capace di trasmettere sensazioni di calore termico ed elicitare vissuti di benessere globale. 

La vicinanza corporea è fondamentale sin dalle prime fasi della vita. Già Hofer (1990) parla di benessere nel contatto epidermico, fattore indispensabile a mantenere un senso di coesione interna e a garantire il mantenimento di funzioni organiche primarie, come la termoregolazione, la funzionalità del respiro e della suzione, il ritmo sonno-veglia. 

Ma al di là degli effetti fisiologici, sentirsi contenuto tra le braccia del genitore serve anche a neutralizzare stati di abbandono e minaccia. Senza un appiglio fisico al quale consegnare le proprie angosce interiori, il neonato si sentirebbe letteralmente cadere nel vuoto (Bick, 1962). 

Studi osservativi di Spitz (1958) hanno confermato i dolorosi effetti che una vicinanza materna difettiva può provocare sul benessere psicofisico del neonato: bambini gravemente deprivati o istituzionalizzati manifestano frequenti infezioni immunitarie, disturbi dell’arousal, disregolazioni emotive, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione anaclitica ( Spitz, 1946; Goldfarb, 1945). Nei casi più gravi possono persino andare incontro alla morte, causata nello specifico dal marasma, deperimento organico irreversibile causato da una prolungata lontananza materna (Spitz, 1945; 1958). 

La vicinanza della madre può avere effetti terapeutici. Uno studio condotto nello Zimbabwe da Bergman e Jurisoo (1994) ha infatti riscontrato un sostanziale aumento di peso, anche in assenza di incubatrici e altre attrezzature di supporto, in bambini nati prematuri e posti a stretto contatto fisico con la madre. Egualmente, una costante presenza della figura materna può contribuire alla parziale remissione del “nanismo da separazione”, patologia evolutiva derivata da una brusca diminuzione dell’ormone della crescita, a sua volta  conseguenza del distacco dalla madre. 

Studi scientifici hanno confermato l’importanza del contatto corporeo precoce anche nella specie animale: piccoli di ratto- sottoposti ad una percezione olfattiva associata ad una sensazione di dolore – non ne sembravano infastiditi né spaventati, se potevano contare sulla vicinanza fisica della madre (Moriceau, Sullivan, 2006). Egualmente, topolini sottoposti ad una situazione di pericolo in presenza della madre hanno reagito con una deattivazione del sistema attacco fuga, sopprimendo l’attività dell’amigdala- coinvolta nella sperimentazione di emozioni negative – e la produzione di cortisolo, meglio noto come ormone dello stress, che segnala la presenza di uno stato psicofisico di allerta. 

Questo perché si sentivano al sicuro.

Dunque è sufficiente che i piccoli di ratto percepiscano un pericolo in presenza della madre per non considerarlo più tale, a dimostrazione che il sistema di attaccamento considera l’allontanamento della madre un fattore più rischioso del pericolo esterno (Sullivan et al., 2000).

Attaccamento e pericolo possono coincidere

Il bambino che si sente minacciato va alla ricerca di qualcuno che sia in grado di difenderlo: ma non si tratta di mero istinto di sopravvivenza. In caso contrario la richiesta di protezione sarebbe rivolta indiscriminatamente all’esterno (Bowlby, 1988; 1967). Al contrario, dopo la percezione della minaccia il bambino ricerca il soggetto con cui ha instaurato uno specifico legame affettivo, al fine di sentirsene protetto non soltanto fisicamente, ma anche emotivamente. È così che il sistema di attaccamento si trasforma in un legame di attaccamento e dà vita ad un rapporto insostituibile.

Il motivo?

In età infantile il pericolo più grande è costituito dalla sperimentazione di uno stato di solitudine. Il bambino ha paura di trovarsi da solo, e pur di evitare questa terribile conseguenza sarebbe disposto ad accettare condizioni finanche svantaggiose. Nella convinzione che sia preferibile tollerare uno stato di disagio, o anche di dolore, se il cessare di quest’ultimo comporterebbe anche l’allontanamento dell’oggetto affettivo ( Bowlby, 1973). 

Non si tratta di una smentita della teoria comportamentista, che giustifica l’utilizzo di una condotta soltanto se la stessa è in grado di apportare un attributo migliorativo – il c.d. rinforzo- alla condizione originaria. In realtà il rinforzo esiste anche in questo caso, ed è costituito dalla possibilità di mantenere il contatto con quel legame affettivo che rappresenta anche la fonte di dolore. Il rinforzo è dunque la vicinanza stessa del caregiver, per il cui mantenimento si è disposti a tollerare anche condizioni svantaggianti.

Studi specifici condotti sui primati hanno confermato che il sistema di attaccamento non dipende soltanto dalla sperimentazione di vissuti piacevoli con il caregiver, e che la sua attivazione non segue un semplice modello di ricompensa-punizione, ma viene elicitata anche in condizioni di mancato rinforzo rispetto alla condotta (Harlow, 1960). 

Il contesto sperimentale prevedeva che una scimmia emettesse uno sbuffo d’aria ogni qualvolta avvertiva accanto a sé la presenza del proprio cucciolo, al fine di allontanarlo. Ma la cosa sorprendentemente non avveniva. Al contrario. Pur infastidito dalla presenza dello sbuffo, il piccolo si avvicinava ancor di più alla madre, consapevole che soltanto in lei avrebbe trovato difesa da quella che aveva identificato come una fonte di pericolo. Da qui il paradosso. Nonostante gli sbuffi si rinnovassero ad ogni contatto, il piccolo continuava a ricercare la presenza dell’oggetto materno, perché lo considerava l’unico in grado di proteggerlo (Harlow, 1960). 

Nel contesto sperimentale appena descritto la fonte di piacevolezza e quella di pericolo sono venute paradossalmente a coincidere, in quanto la madre rappresentava la fonte e la difesa dallo sbuffo d’aria. Posta di fronte a questo conflitto motivazionale la scimmietta non ha avuto dubbi: meglio stare vicino alla madre e al pericolo piuttosto che allontanarsi dal pericolo ma anche dalla madre. 

Ovviamente la consapevolezza del dolore rimane, a livello emotivo, percettivo e anche fisiologico “Ove il genitore e il nido sono essi stessi fonte di pericolo, la soppressione dei circuiti della paura nell’amigdala funziona ancora…”  (Sullivan e Lasley, 2010, p. 62), ma la percezione di sicurezza ricavata dalla presenza del caregiver supera quella di disagio dalla stessa provocato, e impedisce l’allontanamento. 

In definitiva, quando la fonte del pericolo e della difesa convergono e nessuna strategia gestionale coerente è possibile, a prevalere è il bisogno di vicinanza e di affetto, e questo è sufficiente a rendere la vicinanza del genitore –per quanto dolorosa- un’esigenza insopprimibile. 

L’attaccamento nel legame maltrattante

Il legame di attaccamento in assenza di esperienze affettivamente gratificanti potrebbe costituire il supporto esplicativo di tutti i casi in cui, all’interno di un contesto di abuso e discuria reiterati, i bambini sono restii- o addirittura rifiutano- di allontanarsi dal caregiver maltrattante. Anche in questo caso la fonte di paura e quella di attaccamento si trovano a convergere, come è accaduto per il cucciolo di scimmia e la madre “sbuffante”. Ma ciò non basta ad impedire il formarsi di un legame di attaccamento che recidere sarebbe doloroso, per quanto oggettivamente conveniente. 

Evidentemente separarsi da un dolore conosciuto è peggio che continuare a tollerarne la presenza.

Alla luce di ciò, l’attaccamento dei bambini a quei genitori giudicati inadeguati non deve stupire più del dovuto: nello stadio evolutivo infantile il genitore rappresenta il principale supporto, e la necessità di non allontanarsene, per quanto possa trattarsi di un soggetto anaffettivo, inadeguato o addirittura maltrattante, deriva proprio dall’esigenza di non fare  a meno di quello che costituisce l’unico legame attendibile. Un punto di riferimento insurrogabile (Fairbairn, 1952). Dunque il bambino sa perfettamente che la vicinanza del caregiver comporterà il prolungarsi della sofferenza, ma sa anche che questa sofferenza, dopo un eventuale distacco, potrebbe soltanto incrementarsi. Da qui l’esigenza di mantenere in vita un legame doloroso e tuttavia indispensabile. 

L’insorgenza di un legame di attaccamento disfunzionale non va esente da alcune variabili relative: 1) all’età della vittima-  il bambino è più vulnerabile rispetto all’adulto– 2) alla presenza di ulteriori figure affettive nel contesto evolutivo- il rischio è maggiore se il maltrattante è l’unico punto di riferimento per la vittima- e  3) alla durata della condotta maltrattante– il pericolo aumenta con il prolungarsi della condotta e della vicinanza fisica del caregiver.

Non è inoltre da sottovalutare il ruolo svolto dalla “gratitudine”. Spesso il bambino non riesce a staccarsi dal nido che l’ha accudito e accolto sin dalla nascita. E il suo vissuto affettivo verso il genitore è fondato su una riconoscenza che rende dolorosa, se non impossibile, la separazione. 

Qualsiasi sia la critica che un estraneo può formulare verso di loro, il bambino prova verso i genitori una profonda gratitudine. Essi si sono occupati di lui per tutta una vita, e non c’è nessuna ragione che lo spinga ad accordare la sua fiducia ad una persona nuova prima che questa non se ne sia mostrata come o egualmente più degna” (Bowlby, 1951, p. 103). 

Sotto un punto di vista meramente “utilitaristico” ciò induce a pensare che il caregiver, per quanto disfunzionale, abbia in qualche modo contribuito al mantenimento di questa sopravvivenza, magari garantendo l’appagamento dei bisogni fisiologici primari come il nutrimento, la cura, il riparo. Anche per questo il bambino esita ad allontanarsene. Per non perdere i vantaggi collegati alla sua presenza. 

Sotto un punto di vista psicologico è presumibile che il bambino non riesca a recidere il legame totalizzante che lo unisce al genitore, grazie al quale riesce a difendersi da un dolore al quale non può sottrarsi, mantenendo al contempo quello che per lui costituisce un sostegno vitale. L’unico di cui dispone (Fairbairn, 1952, Fereczi, 1933). 

Studi sull’adozione compiuti nel secolo scorso hanno dimostrato che famiglie cattive sono spesso preferite a buoni istituti di accoglienza (Theis; 1924; Simonsen, 1947); egualmente non sono pochi i bambini maltrattati che, una volta dati in affidamento, continuano a ricercare la vicinanza degli stessi soggetti che li hanno maltrattati e abusati (Eagle; 1993; 1994). E altrettanto numerosi sono i soggetti che, anche da adulti, accettano la vicinanza di partner maltrattanti, non riuscendo a concepire un realistico distacco dagli stessi.  

Ovviamente non si tratta di un effetto automatico, né generalizzabile.

Ma può accadere. E il motivo è forse da individuare nella volontà di salvare a tutti i costi quel bisogno d’amore imprescindibile in ogni essere vivente. Cercando la fonte di protezione nella stessa fonte del pericolo non facciamo altro che attivare una logica di sopravvivenza finalizzata a difendere il Sé corporeo e quello affettivo, accettando, in un’ottica di bilanciamento, quello che costituisce il male minore. Il tutto attraverso l’impiego di un ragionamento intuitivo che suggella ulteriormente la natura innata del bisogno di relazione, affetto e reciprocità (Fairbairn, 1952). 

La speranza di ogni essere umano, in fondo, è quella di dare e ricevere amore.  E questa necessità permane sotto forma di una speranza “disperata” da salvaguardare a qualsiasi prezzo. 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bergman, N.J., Jurisoo, L.A. (1994), The Kangaroo method for treating low birth weight babies in a developing country, in Tropical Doctor, 24, pp. 57-60;
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  • Winnicott, d.w. ( 1971) Sviluppo affettivo e ambiente, tr.it. Armando Editore, Roma, 1989. 
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