Il ciclo familiare
Ciascun nucleo familiare presenta delle peculiarità che lo rendono unico, in termini di caratteristiche personologiche dei singoli componenti, rapporti interpersonali tra gli stessi, dinamiche e clima familiari.
Ogni famiglia ha origine e si evolve secondo tappe ben precise. Nel caso della famiglia con figli, ciò ha inizio con la formazione della coppia, continua con la nascita e la crescita dei figli, prosegue con l’allontanamento da casa di questi ultimi e termina con il ritorno alla convivenza della coppia di genitori, ormai in età più matura.
Il bisogno di indipendenza che spinge i figli adulti ad andar via gradualmente dalla famiglia d’origine rappresenta, dunque, una fase fisiologica. La famiglia si configura, infatti, come il naturale trampolino di lancio dei figli verso il mondo esterno.
Eppure, nonostante questa sia una fase del tutto normale del ciclo di vita di ogni nucleo familiare, alcuni genitori faticano più di altri a separarsi dei propri figli e arrivano a sviluppare un vero e proprio disagio psicologico chiamato “sindrome del nido vuoto”.
Sindrome del nido vuoto: cos’è e quali sono i sintomi
Con l’espressione sindrome del nido vuoto si denota una forma di malessere psicologico che si sviluppa in alcuni genitori quando i figli lasciano il nucleo familiare originario per varie ragioni (Badiani e De Sousa, 2016).
L’allontanamento da casa genera negli stessi un vuoto che, nei casi più gravi, può condurre alla perdita del senso della vita e assumere la connotazione di un vero e proprio lutto (Rubenstein, 2007).
Questo stato si prolunga nel tempo ed è caratterizzato da risposte disadattive che si traducono in una specifica costellazione sintomatologica che affligge i genitori (Raup et al., 1989).
I sintomi più frequenti riferiti alla sindrome del nido vuoto sono tristezza, ansia, senso di colpa, rabbia, irritabilità e solitudine, i quali a volte possono dare origine a una psicopatologia conclamata in termini di depressione maggiore, disturbi d’ansia e raramente scompensi psicotici (Powell, 1977).
Per quanto concerne le differenze di genere, gli stereotipi spingono spesso a credere che siano le donne a soffrire maggiormente dell’allontanamento da casa dei figli (Sartori et al., 2009), mentre studi recenti hanno dimostrato come anche gli uomini non ne siano esenti (Mitchell et al., 2009). Ciò che sembra differenziare madri e padri pare essere, piuttosto, la modalità mediante la quale esprimono il dolore per il distacco dai figli: le donne, infatti, sembrerebbero essere più inclini a comunicare liberamente le proprie emozioni relative all’argomento, a differenza degli uomini, che si mostrerebbero più neutrali e/o ambivalenti, probabilmente perché più restii o meno capaci di verbalizzare i personali vissuti emotivi (Oliver, 1977).
È importante chiarire che non tutte le coppie sviluppano i sintomi negativi della sindrome del nido vuoto: alcuni studi hanno persino riscontrato la presenza di emozioni positive legate a un incremento dei livelli di intimità, soddisfazione coniugale e libertà, riscoperti dopo il distacco dei figli (Wang et al., 2012).
Un fattore di protezione rispetto allo sviluppo della sindrome del nido vuoto è la capacità di ricoprire ruoli differenti. Alcune ricerche sottolineano, infatti, che le donne che costruiscono la propria identità principalmente sul ruolo di madre e devolvono la loro intera esistenza alla cura dei figli sono maggiormente predisposte a sviluppare la sindrome, poiché, conseguentemente al distacco dai figli, sperimentano una crisi d’identità causata dalla scarsa capacità di adattarsi a nuovi ruoli (Harkins, 1978).
Riempire il nido: strategie per gestire il vuoto
Lasciare andare i propri figli può, dunque, rivelarsi un’esperienza dal sapore agrodolce, soprattutto per alcuni. Sebbene la sindrome del nido vuoto non sia allo stato attuale riconosciuta come un disturbo clinico, bensì si presenti come una fase transitoria che accomuna alcuni soggetti, il disagio psicologico a essa associato è, per chi lo vive, molto intenso e reale e, nei casi più gravi, può persino sfociare in psicopatologia conclamata. Ecco perché è importante non sottovalutare la sintomatologia e intervenire per tempo.
In generale, è importante che il genitore impari a interpretare la genitorialità come un frammento della vita e accetti, dopo la separazione dai figli, di riconnettersi con se stesso/a. Gli aspetti da attenzionare e a partire dai quali lavorare per gestire il vuoto sono i seguenti (Battles, 2023):
- ridefinizione del ruolo personale
- investimento di energie in aree d’interesse
- riorganizzazione del legame con il partner e i figli
Il distacco di questi ultimi rappresenta, infatti, il momento più adatto per rivedere la propria identità personale secondo una prospettiva più allargata: non si è più soltanto genitore, ma ci si (ri)scopre anche partner e individuo portatore di bisogni e desideri. Ecco che, quindi, il sopraggiunto incremento di libertà può essere sfruttato nella fase post-parentale come mezzo per ritrovare vecchi amici e passioni messi da parte o esplorare nuovi obiettivi e interessi individuali o di coppia. Costruire relazioni o creare nuove attività rappresentano opportunità che consentono di elaborare in modo funzionale la separazione dai figli e di superare la crisi d’identità adattandosi a nuovi ruoli. Oltre a ciò, è anche utile rinvigorire la relazione con il proprio partner, che resta un immutato punto di riferimento, individuando rinnovati momenti di intimità, di condivisione e di svago in comune. Inoltre, sarà necessario trasformare il rapporto con i figli ormai grandi, riconoscendoli come adulti e creando con loro un legame più maturo, ma anche concordando dei confini che rendano la relazione affettiva stabile e funzionale.
Tutto ciò può essere affrontato durante un percorso di supporto psicologico e/o di psicoterapia con un professionista della salute mentale. Richiedere un aiuto professionale è particolarmente auspicabile nel momento in cui i sintomi tipici della sindrome del nido vuoto diventino particolarmente invalidanti per la persona, arrivando a comprometterne la qualità di vita per periodi di tempo prolungati.
Sindrome del nido vuoto: l’utilità della terapia
In conclusione, la sindrome del nido vuoto rappresenta un costrutto stimolante tutto da approfondire. La sua validità come fenomeno è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi, dal momento che nessun manuale nosografico al mondo la classifica attualmente come un disturbo clinico, piuttosto la comunità scientifica tende a considerarla come una transitoria fase di vita che alcune persone attraversano. Nonostante ciò, si configura certamente, a prescindere dagli etichettamenti diagnostici, come un ambito di interesse clinico per gli psicologi, il cui compito professionale è quello di individuare e contenere le forme di disagio significativo legate alla sindrome, oltre che strutturare interventi per prevenire o trattare i vari profili psicopatologici eventualmente da essa scaturiti. Perché, se l’esperienza di lasciar andare è fisiologica, per alcuni può essere più complicato. Come scriveva John Holmes: “Un bambino entra in casa tua e per i successivi vent’anni farà così tanto rumore che difficilmente riuscirai a sopportarlo. Ma quando se ne andrà, la casa sarà così silenziosa che ti sembrerà di impazzire”.