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Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione (2022) di Maurizio Pompili – Recensione

"Il rischio di suicidio" evidenzia il carattere multidisciplinare del tema del suicidio, nella sua cruda tragicità, con costante attenzione all’emotività

Di Elena Ritratti

Pubblicato il 15 Feb. 2023

Aggiornato il 17 Feb. 2023 10:09

Il testo “Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione” offre una panoramica dettagliata di concetti e problematiche inerenti al tema del rischio suicidio e della possibilità di prevenzione, tenendo conto dei riferimenti presenti nella letteratura internazionale e clinica.

 

 Si evince che, per la complessità dei temi trattati, il manuale risulta essere una motivazione per operatori e per professionisti a fornire il loro contributo continuo e la condivisione di esperienze e riflessioni che possano arricchire di informazioni preziose, per evitare di cadere in visioni pericolosamente riduzionistiche ed inesatte. Si aggiunga l’importante consapevolezza che i concetti riportati non possano mai essere completamente esaustivi, data la moltitudine di fattori presenti e l’interazione di variabili anche inattese, che possono scatenare una risposta così lontana da quel principio di sopravvivenza della specie che caratterizza l’essere umano e non solo. Un dato è sicuramente certo: colui che tenta un gesto così estremo si ritrova a considerare che esso stesso sia l’unica scelta rimasta, per contrastare un dolore insormontabile ed insopportabile. Il tempo vissuto sembra arrestarsi in un qui ed ora che contraria ogni elan vital, incastrato in pensieri negativi e in una condizione di sofferenza tale da far perdere il controllo. Condizione che va rispettata e affrontata con delicatezza, cercando di non rimanerne né impigliati, né condizionati da subdoli pregiudizi, spesso inconsapevoli, che possono condizionare l’intervento di ogni operatore che ha a che fare con tali dinamiche.

Nel primo capitolo il Prof. Pompili mette in evidenza il carattere multidisciplinare del tema del suicidio, in tutta la sua cruda tragicità, con una costante attenzione all’aspetto emotivo intrinseco, la guida per ogni esperienza mentale e fisica. In effetti l’emozione, dal latino ex movere, risulta correlarsi ad una spinta, ad un movimento che permette ad ogni singolo soggetto di posizionarsi nel mondo secondo le sue priorità, secondo quanto c’è di rilevante nella sua esperienza; la tonalità emotiva risulta la bussola individuale per direzionarsi nella propria esistenza, causa, essa stessa, in condizioni di sofferenza estrema, di gesti altrettanto estremi. Gli approcci sono sicuramente molteplici, da quello filosofico-esistenziale, a quello teologico, letterario, demografico, sociologico e socioculturale, fino a quello interpersonale, biologico e psicologico, più propriamente definito dal Prof. Pompili Mentalistico. In effetti, l’individuo si ritrova in uno stato perturbante che può degenerare in disperazione, intesa non solo come mancanza di speranza, ma anche e soprattutto di presenza di un dubbio, di quella incapacità decisionale che può innescare la convinzione che non ci possa essere una via di uscita. Kierkegaard parla di scheggia nelle carni, un’incapacità di ridurre la vita ad una scelta, che, in casi di fragilità estrema, può provocare quello strappo all’esistenza, come tentativo di placare un dolore incarnato, testimonianza di un rifiuto della propria essenza. E, non ultimo, l’approccio medico psichiatrico che, se da un lato ha permesso un’indagine accurata di terapie farmacologiche appropriate, dall’altro, però, rischia di concentrarsi sulla rilevanza di un disturbo o di una diagnosi e di considerare il gesto suicidario come una conseguenza. Nel corso della storia il suicidio è stato oggetto di stigma: in passato il suicida veniva considerato come colpevole e “condannato” a non avere un rito funebre e alla confisca di tutto il suo patrimonio. Tra il 1600 e il 1800 si parlava di non compost mentis, ossia di folle e di felo de se, ossia di autore di un crimine contro sé stesso. Nonostante l’importante processo di cambiamento avvenuto negli anni, sembra che tale impostazione abbia condizionato fortemente il pensiero moderno, in cui ancora risultano presenti, in alcuni contesti, precomprensioni che, a loro volta, condizionano l’approccio al fenomeno suicidario. In ogni caso, oggi il tema è osservato più da un punto di vista quantitativo che qualitativo, ossia il disturbo mentale, non ha un’importanza esclusiva; da qui ne deriva la necessità di comprendere lo stato di sofferenza, più che il tentativo di spiegarlo. Un approccio fenomenologico che porta ad interrogarsi non tanto o non solo sul cosa ha un soggetto, ma soprattutto sul come vive il proprio disagio. Il suicidio non è direttamente correlato al vizio di mente, ma alla difficoltà della stessa di “svolgere il suo ruolo auto organizzativo ed emergente”.

Nel secondo capitolo si mette in evidenza il tentativo di dispiegare le variabili maggiormente significative per delineare, almeno in teoria, coloro che sono maggiormente a rischio. Variabili importanti, ma non sufficienti, soprattutto se non inserite in un preciso modello di riferimento. Si respira smarrimento ed impotenza, in quanto tali fattori risultano dalla ricerca scientifica spesso imprecisi e limitanti; dunque debolmente predittori del comportamento suicidario. Tutto si complica se si pensa che l’ideazione suicidaria non necessariamente si correla alla morte del soggetto, nemmeno in termini di stati ad alto rischio. Pertanto, il clinico può essere invaso da senso di smarrimento e responsabilità, soprattutto in quanto permea l’idea subdola che gli operatori della salute mentale abbiano gli strumenti per prevedere e prevenire sicuramente il suicidio. L’impostazione di causa-effetto tra malattia mentale e suicidio rischia poi di caratterizzare come banale un fenomeno altamente complesso, che ancora dispone di poche evidenze empiriche e di molteplici approcci. Una metafora significativa, per rendere più evidente questa complessità, è quella di correlare le previsioni metereologiche alla valutazione del rischio di suicidio: in effetti, tale valutazione può riferirsi al momento esatto in cui viene effettuata e, dunque, la sua accuratezza può, come le previsioni del tempo a breve termine, modificarsi inaspettatamente e improvvisamente. Il rischio suicidio oscilla e può essere determinante un fattore di impulsività. Come in un oceano smisurato, dove la persona rimane aggrappata all’ultimo pezzo di una barca naufragata, con la possibilità sempre più incalzante di scivolare negli abissi dell’oscurità. Il terapeuta oscilla lui stesso in un mare pronto presumibilmente ad una tempesta, schiacciato anche dalla paura, non certo insignificante, di poter essere trascinato in contenziosi legali che possano additargli incapacità e superficialità.

E allora che fare? Sicuramente importante risulta l’indagine di aree di interesse come la storia personale, l’approfondimento dell’intenzione suicidaria, l’esame di realtà e, come già detto precedentemente, l’esperienza affettiva e la capacità di tolleranza allo stress. Ogni curante ha il dovere di indagare su ogni singolo aspetto, tenendo, però, sempre presente il fatto di non avere una sfera magica per prevedere qualcosa che accadrà all’improvviso, come una lite in famiglia o un problema al lavoro. Deve tenerlo presente per non sprofondare nella credenza di non essere in grado di, di ritenersi responsabile o di essere schiacciato da sensi di colpa. Viene sottolineata l’importanza di una buona comunicazione, spoglia di precomprensioni e autenticamente empatica, che valuti i possibili segnali di allarme, sempre nella loro totalità e non singolarità. Il clinico deva perlustrare non solo una dimensione di disperazione, ma anche e soprattutto quella possibilità di hopelessness, ossia di aspettative future che incagliano i processi di pensiero negativi in uno stato perturbato e perturbante di rigidità e di impossibilità. Necessaria risulta, pertanto, quell’alleanza terapeutica che permetta un processo di co-costruzione, incentivato dal potere narrativo e dalla sensazione per il paziente di non essere solo in mezzo al mare; una sintonizzazione con il desiderio di morte, per una maggiore comprensione, ma sempre un’attenzione dedicata a quello che può scaturire dal controtransfert.

Nel terzo capitolo si evidenzia l’importanza di una buona valutazione del rischio suicidario che comprenda un piano terapeutico ben delineato in cartella, eventuali modifiche, una buona preparazione del clinico in modo tale che, in caso di accertamenti, si possa dimostrare di avere fornito al paziente un’idonea assistenza. In effetti, oltre alle questioni primarie di ordine deontologico, non vanno sottovalutate le potenziali implicazioni legali che possono insorgere in caso di suicidio di un paziente. Sebbene la letteratura internazionale evidenzi l’impossibilità di stabilire un metodo di valutazione clinico scientifico e l’impossibilità di misure che, in assoluto, possano evitare il suicidio, esistono delle azioni che mai dovrebbero essere escluse da parte del terapeuta, come un’attenta valutazione anamnestica, un esame psichico adeguato, una diagnosi e la possibilità di valutare eventuali figure esterne (per esempio famigliari) che possano supportare in caso di crisi o che possano rilevare eventuali cambiamenti o sintomi alert, preziosi per il clinico. Si evidenzia la necessità di non prendere mai decisioni affrettate o superficiali, tenendo a mente la possibilità che una lunga degenza non sempre è la migliore soluzione, in quanto, in alcuni casi, può, invece, aumentare il rischio  suicidario.

Nel quarto capitolo viene fatta una preziosa ed interessante analisi sull’autopsia psicologica, termine introdotto per la prima volta da Shneidman nel 1951: si tratta di un’indagine accurata di ordine retrospettivo, utile in caso di chiarimenti su una morte ambigua, che permetta una ricostruzione il più dettagliata possibile sulla morte. Vengono utilizzati dati emersi da interviste a persone vicine al defunto, cercando di utilizzare domande specifiche che possano soffermarsi sui motivi del gesto suicidario. Non è assolutamente da confondere con un’indagine di ordine investigativo che, invece, cerca di delineare le dinamiche di un evento. Tale inchiesta va sempre considerata in termini probabilistici e mai come certezza assoluta, ma è sicuramente utile per chiarire il ruolo avuto dal soggetto in merito alla sua morte e per mettere in risalto il valore preventivo e clinico rispetto ai famigliari delle vittime di suicidio. Lo stesso Shneidman conia il termine di postvention per sottolineare l’assoluta necessità di non trascurare le possibili conseguenze sui famigliari e amici della vittima, sia in termini di trauma per i sopravvissuti sia anche di stigma sociale che ne potrebbe scaturire da una morte così drammatica e improvvisa.

 Sebbene in tutto il testo sia evidenziata la possibile necessità di tutela legale in caso di gesto suicidario, il capitolo cinque ne rappresenta una descrizione dettagliata, a partire proprio dal complesso significato che può essere attribuito al concetto di morte. Significato ricercato in ogni ambito, da quello filosofico-esistenziale, a quello religioso fino a quello medico, ma che ben si riconosce essere un’impresa ardua, oggetto di complicanze in caso di suicidio. La stessa storia evidenzia inizialmente l’incapacità di giustificare un gesto così estremo, tanto da essere considerato per lungo tempo un vero crimine commesso dalla persona contro sé stessa e dunque stigmatizzato. Successivamente si è cercato un capro espiatorio tra i medici ritenuti responsabili di un’azione tanto violenta e cruenta. Oggi, fortunatamente, grazie alle evidenze empiriche, l’operatore rappresenta  sempre più una fonte di salvezza per la persona a rischio suicidio e non un colpevole, in quanto i fattori scatenanti sono effettivamente molteplici e complessi. Nonostante questo, il capitolo evidenzia la possibilità per clinici e operatori di finire nel mirino della giustizia, accusati da famigliari o parenti stretti che, in alcuni casi, hanno bisogno di proiettare la colpa verso qualcuno di esterno, non riuscendo a farsene una ragione, anche dal punto di vista più strettamente umano. E allora che fare? Il Prof. Pompili, citando Black, (1979) spiega che ci si può riferire ad uno standard of care inteso come “quel grado di cura che uno staff e un professionista ragionevolmente prudenti dovrebbero esercitare in circostanze uguali o simili”. Pertanto l’intero staff dovrebbe adoperarsi sempre per garantire azioni, interventi, decisioni valutate accuratamente, ma comunque mai additabili, come causa diretta dello stesso comportamento suicidario. Ritorna l’importanza dell’alleanza terapeutica con il paziente, ma anche del continuo confronto con i famigliari, in modo tale da farli sentire sempre coinvolti e motivati a supportare la persona a rischio. In ambito legale le possibili denunce possono essere per negligenza, imprudenza o imperizia.

Nel sesto capitolo si affronta un tema importante relativo ai sentimenti del terapeuta che, se pur un professionista, dotato di conoscenze e strumenti utili ad affrontare ogni situazione, rimane sempre una persona che ha a che fare quotidianamente con tematiche e dinamiche universali, che potrebbero investirlo direttamente. Prendere in carico un paziente a rischio suicidio può innescare un senso di responsabilità enorme, oltre che a dei “rimbalzi emotivi” non indifferenti; alcuni terapeuti, proprio  per questi motivi, evitano certe tipologie di pazienti, chiudendo il problema agli albori. Ma per chi affronta invece queste dinamiche la strada non è certo facile, tenendo anche conto che la tonalità emotiva stessa è ben colta dal paziente sensibile a tali contenuti, anzi a volte è lo stesso paziente a voler mettere alla prova il professionista, non accontentandosi di poche risposte positive. Una sorta di test sempre più richiedente, sempre più intriso di rabbia e di frustrazione crescenti, che può investire come una tempesta anche il professionista più preparato e più attento. Tematiche esistenziali, come la morte, che turbano da sempre le menti di filosofi e non solo, si scontrano anche con i più esperti, con la possibilità di risposte difensive inconsapevoli altamente pericolose. Il controtransfert può innescare meccanismi di repressione dell’odio, o noia o addirittura dubbi rispetto alle proprie capacità  e, dunque, odio rivolto verso sé stessi, disperazione o, al contrario, innescare un meccanismo difensivo come la formazione reattiva che tramuta l’odio nel suo opposto, ossia lo zelo eccessivo o l’iperprotezione. Si aggiunga la possibilità di distorsione e negazione della realtà che potrebbero inquinare il lavoro terapeutico. Ne consegue la necessità di focalizzare l’attenzione anche sulle reazioni emotive del clinico, che, se trascurate, possono essere altamente pericolose. Un lavoro importante di consapevolezza delle proprie emozioni e di come le stesse possano essere modellate è centrale, per poter riconoscere i meccanismi difensivi sottesi e lavorare su sé stessi continuamente, anche in caso di morte del paziente. Il ruolo di un eventuale senso di colpa scaturito da una negligenza di questo lavoro introspettivo e di consapevolezza emotiva può essere determinante nell’instaurare senso di inutilità o incapacità, incastrando il professionista in un conflitto reale/ideale da cui può emergere anche senso di vergogna e bisogno di allontanarsi dalla propria attività.

Come poter rendere più accessibile un tema così impervio come il suicidio? Fondamentale è riuscire a ricondurlo ad un vero e proprio comportamento, ossia valutarlo dal punto di vista di ciò che accade e di ciò che può condizionare la condotta dell’individuo, incapace di trovare una via di uscita alternativa all’interruzione della propria vita. Ecco che ne deriva, come ben evidenziato nel settimo  capitolo, il fondamentale richiamo al concetto di comprensione del soggetto in quanto persona  depressa, umiliata, invasa da un sentimento di impotenza e di sconfitta e non di un richiamo ossessivo alla nosografia psichiatrica. Da qui la necessità di ragionamenti in termini di aree di criticità e di lavoro in una visione prospettica di intervento terapeutico che non dimentichi certo la diagnosi, ma che si concentri anche sul rischio di suicidio, spesso complementari nell’individuo. Pertanto, fondamentale è un’integrazione tra nozioni di farmacoterapia e psicoterapia che necessitano  sicuramente di ulteriori approfondimenti.

Se non si considera il suicidio solo come desiderio di farla finita, ma come volontà di interrompere quel flusso insostenibile di pensieri negativi, di ossessioni, di bisogno di una “completa cessazione del proprio stato di coscienza, e dunque, come risoluzione del dolore mentale insopportabile”; allora si avrà maggiore possibilità di offrire un valido supporto al paziente. Ne consegue il bisogno di un approccio alla persona che tenga conto delle sue caratteristiche, del suo essere unico e delle sue  modalità di risposta mai generalizzabili, una fenomenologia del suicidio che cerchi, con rispetto, di rendere “un pochino più tollerabili” aspetti ritenuti “intollerabili”, una fenomenologia del suicidio che valuti tanti micro cambiamenti come importanti conquiste, senza la pretesa, utopica, di risolvere ogni cosa in poco tempo. Un paziente a rischio suicidio mette a dura prova chiunque, anche il più esperto, toglie energie, spesso incastra in sensazioni di impotenza ed incapacità, ma la stessa  consapevolezza di tali dinamiche può essere un’utile risorsa per ogni operatore della salute mentale.

Non posso negare la difficoltà ad intraprendere la lettura di un testo come questo, dovuta al fatto che è incentrata su una tematica esistenziale altamente complessa, che insinua dubbi, perplessità e anche senso di impossibilità. Ma poi durante la lettura, oltre all’importante contributo scientifico e alle evidenze empiriche a livello internazionale raccolte dal Prof. Pompili e riportate nella modalità narrativa puntuale, chiara e semplice che lo contraddistingue, quello che emerge e domina è la sua  profonda umanità, il suo coraggio, il suo importante supporto ad ogni singolo operatore, la sua motivazione a non mollare, a continuare a rinvigorire i dati della ricerca. Il Prof. Pompili è in grado di mettere in pratica quanto enuncia nel suo testo, ossia la necessità di rispetto per ogni singolo paziente, la sua deontologia, ma, anche e soprattutto, il suo autentico sentimento di solidarietà umana. La lettura incentiva ad una continua ed incessante conoscenza e preparazione, mettendo in primo piano il senso del nostro lavoro clinico: operare secondo epochè, avvicinarsi ad una sempre maggiore comprensione del dolore e della sofferenza, capaci di trascinare in un profondo baratro, privo di vie di uscita. A tal punto da portare l’essere umano, in situazioni per lui estreme, (Shneidman parla di  psychache, tormento nella psiche) ad andare perfino contro quel principio di autoconservazione che spesso, errore più grande, si dà per scontato.

Grazie di cuore Prof. per la condivisione di questo importante bagaglio di conoscenze, motivo, per ogni singolo operatore, di costruzione di un lavoro di squadra e mai di un percorso in solitudine.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Pompili, M. (2022). Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione. Raffaello Cortina Editore
  • Black, H.C. (1979). Black’s Law Dictionary. St Paul: West Group.
  • Kierkegaard, S. (2013). Le grandi opere filosofiche e teologiche. Trad.it. Cornelio Fabro. Milano:  Bompiani.
  • Minkowski, E. (1998). La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici. Torino:  Einaudi Editore.
  • Pompili, M. (2008). La psicoterapia del dolore mentale dei soggetti a rischio di suicidio. In “Il suicidio  e la sua prevenzione”. Tatarelli R., Pompili M.(eds.). Roma: Fioriti Editore
  • Shneidman, E.S.(2004). Autopsy of a suicidal mind. New York: Oxford University Press.
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