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La misofonia – Editoriale di Cognitivismo Clinico

Il termine misofonia non indica soltanto un “odio” per i suoni, ma una reazione di forte avversione nei confronti della fonte da cui essi hanno origine

Di Redazione

Pubblicato il 01 Feb. 2023

Questo numero di Cognitivismo clinico (2022, 19, 1/2, 3-4) presenta una prima parte, curata da Giuseppe Romano e Monica Mercuriu, interamente dedicata al tema della misofonia, una forma di sofferenza psicologica, riconosciuta in tempi molto recenti e che solo negli ultimi anni ha interessato anche l’ambito clinico.

Editoriale a cura di Giuseppe Romano, Monica Mercuriu, Antonino Carcione

 

 È probabile che tale condizione di disagio sia stata identificata, per la prima volta, verso la fine degli anni ’90 sulla base degli studi di un’audiologa, Marsha Johnson, come “Sindrome della sensibilità selettiva ai suoni” (Selective Sound Sensitivity Syndrome – 4S), indicando una particolare sensibilità di alcuni individui a suoni specifici.

Seppure, a oggi, questa condizione clinica non compaia all’interno dei principali sistemi di classificazione diagnostica, sono molti i soggetti che riportano una forte avversione nei confronti di suoni quotidiani, spesso ripetuti, che solitamente sono generati da esseri umani, ma che possono essere prodotti anche da animali o provenire dall’ambiente (Scrodher et al., 2013).

Nel 2002 Jastreboff e Jastreboff propongono il termine misofonia, che racchiude anche l’esperienza emotiva associata all’esposizione allo stimolo uditivo. In realtà, nella quasi totalità dei casi, non si tratta di “odio” per i suoni, ma di una reazione di forte avversione nei confronti della fonte da cui essi hanno origine.

L’emozione di rabbia non è l’unica ad accompagnare questa esperienza; alcuni soggetti, infatti, possono sperimentare ansia anticipatoria (Jager et al., 2020) o anche disgusto e tristezza. Anche la risposta comportamentale è di notevole interesse per il clinico: i soggetti “misofonici”, infatti, possono reagire evitando l’esposizione al suono, sperimentando una sensazione di perdita di controllo e, in diversi casi, anche aggredendo verbalmente o fisicamente la fonte sonora.

Come inquadrare la misofonia

La presenza di una così ampia varietà di esperienze emotive e comportamentali lascia presupporre che il suono funga da trigger e che la risposta sul piano emotivo sia legata alla valutazione soggettiva, in seguito ad un’attribuzione di significato, condizionata da scopi e credenze del soggetto.

Tuttavia, non esistendo una definizione univoca del problema, che anche in ambito clinico viene descritto talvolta come sindrome (Brout, 2018) talvolta come disturbo (Schrodher et al., 2013), è importante fare chiarezza attorno al fenomeno e inquadrarlo dal punto di vista clinico.

In questo numero della rivista si cerca di perseguire proprio tale scopo.

 Il primo articolo di Imbesi e colleghi si propone di definire la misofonia distinguendola da altre forme di “insofferenza” nei confronti dei suoni o di dolore sperimentato in presenza di un suono, individuare i criteri con cui provare a porre diagnosi e descrivere l’eziologia del disturbo (se tale condizione può essere così definita), specificando anche i correlati psicologici e comportamentali utili a circoscrivere il fenomeno.

Il secondo contributo, di Fazi e colleghi, propone una revisione sistematica della letteratura relativa agli strumenti di misurazione e valutazione della misofonia.

Spesso, in ambito clinico, il disturbo è presente in concomitanza con altri quadri psicopatologici, pertanto, nel terzo articolo, redatto da Amato e colleghi, gli autori hanno approfondito gli studi pubblicati negli ultimi anni, giungendo a una sintesi dei principali disturbi in comorbilità.

Uvelli e colleghi, infine, chiudono il numero della rivista, descrivendo i principali protocolli di intervento e le procedure cliniche di maggiore efficacia per il trattamento della misofonia.

Trattare la misofonia

Dopo la parte monografica dedicata alla misofonia, il numero è completato da due articoli su temi rilevanti per la psicoterapia. Il primo, di Foglia e Calluso, tratta il perfezionismo come dimensione trans-diagnostica presente nei disturbi di personalità, che può presentarsi in varie forme nei differenti disturbi. Una variabile psicopatologica che deve essere valutata nel quadro clinico, che può complicare il trattamento e che pertanto deve essere oggetto d’attenzione dall’assessment alla pianificazione dell’intervento. Le autrici presentano una rassegna dei principali modelli esistenti in letteratura che definiscono il costrutto, che possono essere uni- o multi-dimensionali e che descrivono il perfezionismo nei suoi aspetti sia intrapersonali, sia interpersonali. Infine, a partire dalla descrizione delle difficoltà che tale variabile psicopatologica pone nella costruzione di una salda e stabile alleanza terapeutica, vengono presentati i vari trattamenti che forniscono prove efficaci o che sembrano promettenti, come la terapia cognitivo-comportamentale, la mindfulness e l’ACT e altri interventi della cosiddetta terza onda, e la Terapia Metacognitiva Interpersonale.

Il secondo articolo, di Toso, riguarda un argomento tradizionalmente noto e trattato nelle terapie comportamentali, ovvero la terapia d’esposizione per il trattamento della paura. L’articolo propone un approccio moderno partendo dalla constatazione dei limiti di tale intervento e alla luce dei risultati emergenti da recenti ricerche. Un punto debole è certamente legato alla comparsa di recidive e questo sembra all’autore principalmente dovuto a due variabili, ovvero la dipendenza dal contesto e le differenti modalità di risposta dei vari pazienti. Le recenti ricerche mettono in evidenza che l’efficacia della terapia di esposizione per l’estinzione della paura non sarebbe dovuta, come si riteneva in passato, alla cancellazione dei ricordi eccitatori, bensì alla formazione di nuove memorie inibitorie. Dunque, per migliorare i risultati, già considerevoli, la dipendenza dal contesto e le diverse risposte dei pazienti al trattamento, ovvero i punti deboli sopra esposti, appare necessario e opportuno modificare l’idea di un protocollo del tutto identico per tutti i pazienti, ma, come è ragionevole pensare, pianificare un trattamento applicato in considerazione delle differenze individuali emergenti. Proprio a questo riguardo l’articolo offre ai lettori importanti suggerimenti e riflessioni per strutturare, come afferma l’autore stesso, “una terapia di esposizione sempre più personalizzata ed efficace”.

 

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