Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare con se stessi.
Introduzione
Chi non si è mai colto a parlare tra sé e sé? Se per alcuni l’esperienza passa al di sotto della consapevolezza, per altri invece è qualcosa che fa parte del proprio quotidiano, al punto che si stima che almeno il 20% della giornata sia passata in monologhi o dialoghi con sé stessi, allo scopo di spronarsi, darsi istruzioni, correggersi, commentare quanto si sta vivendo in quel momento. Ma il contesto non necessariamente è solo quello presente, ecco quindi che lo stesso fenomeno può presentarsi in riferimento a eventi nel passato o a eventi, oggetti, situazioni, di là da venire (Alderson-day & Fernyhough, 2011).Degli esempi? Quando siamo al semaforo e pensiamo alla lista delle cose da fare quando arriveremo al lavoro o a casa; quando dobbiamo risolvere un problema difficile e ci aiutiamo con le parole, dandoci istruzioni su come proseguire; quando pensiamo con rabbia o con gioia a un incontro avvenuto in passato; quando cerchiamo di inquadrare una situazione, allo scopo di capire come ci potremo muovere la prossima volta che ci ritroveremo in essa, in relazione ai nostri obiettivi. Questi sono solo alcuni esempi della ricca fenomenologia del linguaggio interiore e molti altri ne possono venire in mente; anche partendo dalla propria esperienza personale, con po’ di introspezione.
Non è “strano” né anormale parlare tra sé e sé. Di fatto potrebbe non essere altro che l’interiorizzazione di quanto, quando eravamo bambini, le nostre figure di riferimento e l’ambiente ci comunicavano e che abbiamo successivamente imparato a dire a noi stessi, al fine di autoregolare il nostro comportamento (“Stai seduto dritto sulla sedia”), il nostro pensiero (“Concentrati su quello che stai facendo”) e le nostre emozioni (“Ora calmati”).
Per Vygotsky (1978), insigne esponente della psicologia sovietica degli inizi del Novecento, l’apprendimento del linguaggio passa, di fatto, dal processo di socializzazione nei primi anni di vita del bambino. Il codice linguistico verrebbe prima acquisito per osservazione e ascolto, nel suo uso e in relazione alle diverse situazioni, per poi essere progressivamente ripetuto, elaborato e, infine, assimilato. Il bambino inizia così a farne pratica espressiva e comunicativa orientata ad altri interlocutori (overt speech). Mano a mano che le strutture linguistiche –nelle lore regole, usi e funzioni nei diversi contesti– vengono assimilate, il linguaggio diventa strumento di autoregolazione, che si manifesta nell’uso a scopo riflessivo, con tono e volume inferiori rispetto al caso precedente, udibili solo dal proferente e da chi osserva (private speech). Al termine di questo percorso di progressiva interiorizzazione della capacità di linguaggio, sta la definitiva acquisizione della capacità di parlare tra sé e sé, senza proferire suoni (inner speech), capacità che per alcuni equivale alla capacità stessa di pensare.
Il dialogo interno
Le idee di Vygotsky sulla relazione tra linguaggio e pensiero hanno fatto scuola, e lo studio dell’inner speech –ovvero, il parlare tra sé e sé come strumento di pensiero e di autoregolazione– si è dimostrato nel tempo molto interessante in ambito clinico (ad esempio, per lo studio di allucinazioni uditive e ruminazione; cfr. Perrone-Bertolotti et al., 2014) e applicativo. In questo senso due ambiti di ricerca riguardano il miglioramento della performance dell’atleta sotto pressione e la facilitazione dell’apprendimento in ambito scolastico (cfr. Theodorakis et al., 2012).
Nella prospettiva più generica della vita quotidiana il monologo/dialogo interno è uno degli strumenti a nostra disposizione per aiutarci a riflettere su ciò che viviamo, descrivere situazioni, fare scelte, valutare, prendere decisioni, autoregolarci emotivamente, cognitivamente e nel comportamento. Le ricadute cliniche sono piuttosto ampie, al punto che già da tempo esiste un approccio terapeutico di stampo cognitivo-comportamentale focalizzato sul suo uso sistematico (Cognitive Behavior Modification [CBM]; Meichenbaum, 1977).
Considerando la stretta relazione che sembra esistere tra linguaggio e pensiero (per esempio Whorf, 1956) ha senso chiedersi se in tutto questo abbiano una qualche importanza, nell’economia generale della psicologia individuale, le specifiche parole che usiamo per parlare a noi stessi.
Un interessante e recente articolo uscito su Science (disponibile qui) permette di apprezzare come variazioni, anche solo superficiali, nelle frasi che usiamo per raccontare e raccontarci siano connesse a effetti significativi dal punto di vista psicologico. Nello specifico, gli autori (Orvell et al., 2017) erano interessati a testare l’ipotesi che la variazione di un pronome personale – l’uso della seconda persona singolare “Tu” al posto della prima persona singolare “Io”– avesse un impatto significativo sul modo in cui le persone elaborano le esperienze negative.
Partendo dalle evidenze disponibili circa gli effetti positivi della distanza psicologica in relazione al disagio emotivo (Kross & Ayduk, 2017) e sul valore normativo che il linguaggio generico dona alle espressioni descrittive (Bolinger, 1979), gli autori hanno utilizzato diversi compiti di scrittura espressiva, dimostrando che il “Tu” generico è utilizzato per descrivere situazioni nelle quali si percepisce la presenza di una norma generale (leggi o aspettative su come dovrebbero essere le cose; per esempio, “Non si passa con il rosso” vs “Non passare con il rosso”); le persone lo utilizzano per riflettere sulle proprie esperienze negative (“L’orgoglio è qualcosa che può ostacolarti nella ricerca della felicità”), poiché permette di assumere una maggiore distanza psicologica dai vissuti in corso di elaborazione (Liberman et al., 2007); e che infine tale distanza facilita la costruzione di senso quando si riflette su un’esperienza nella quale si sono vissute emozioni negative anche molto intense.Quali ripercussioni per le persone?
Nella clinica la validazione e la normalizzazione dell’esperienza del paziente (ricondurre alla norma, a qualcosa che in genere è possibile e ci si può aspettare che accada nella realtà) sono strumenti necessari per soddisfarne i bisogni relazionali di base (Erskine, & Trautmann, 1996). In questo modo il paziente comprende che i propri vissuti sono condivisibili, sono reali anche per un altro – il terapeuta, di cui si fida – le cui opinioni sono per lui valide e il quale può eventualmente rimandare al paziente che, nelle medesime circostanze, chiunque avrebbe potuto reagire nello stesso modo.
Su questa linea di pensiero possiamo cogliere i benefici del parlare a noi stessi utilizzando il “Tu” generico anche quando riflettiamo da soli sulle nostre esperienze.
Utilizzare delle espressioni linguistiche generali e normalizzanti può infatti permetterci di giudicare le situazioni nelle quali siamo coinvolti, soprattutto quando sperimentiamo emozioni negative intense, da una posizione più distaccata, per guardare con maggiore obiettività quanto è accaduto, per trovarne le cause e chiarire a noi stessi le ragioni della nostra reazione, quasi come fossimo un osservatore esterno e quindi meno coinvolto, promuovendo in questo modo un migliore adattamento alle situazioni stressanti o emotivamente cariche (Ayduk & Kross, 2010).