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La Gabbia dei Matti – Recensione del Podcast

Il podcast 'La Gabbia dei Matti' racconta la realtà dei manicomi dall'origine alla deistituzionalizzazione, con le testimonianze di pazienti e operatori

Di Elena Ritratti

Pubblicato il 06 Ott. 2022

“La Gabbia dei Matti” è un podcast originale Storytel scritto e raccontato dal giornalista Gabriele Cruciata, che ha avuto la forza ed il coraggio di narrare in sei puntate un tema altamente scottante, ossia il disagio mentale in Italia, ripercorrendo la storia dei manicomi nel nostro paese, in modo particolare di uno di questi, il Santa Maria della Pietà di Roma, il più grande manicomio di Europa, in funzione tra il 1904 e il 1999.

 

 Questa narrazione accompagna la creazione di una serie di quadri terrificanti, assolutamente autentici, con molti particolari non certo contornati da fantasie o scene romanzate, ma assolutamente veritieri, in quanto forniti da chi davvero ha vissuto in prima linea una delle forme più crudeli e disumane di esperienza, ossia il trattamento della malattia mentale, trattamento che segna il destino di centinaia di persone, compresi tanti bambini, molti dei quali con l’unico “vizio” di essere troppo vivaci.

Si pensa erroneamente che la storia del disagio mentale nasca immediatamente correlato alla scienza, in realtà tutto comincia capitanato dalla religione, la quale considerava il vizio di mente come conseguenza di un peccato da espiare con la punizione e con la purga e non con un trattamento, al pari dei delinquenti rinchiusi nel medesimo posto, come se fosse un carcere per tutti, senza alcuna distinzione, carcere che però non aveva altro che carattere di segregazione e di condanna.

Alla religione, con il passare del tempo, si interseca anche la società stessa che cerca in tutti i modi di operare una forma di controllo su quella che viene considerata una forma di devianza: i folli sono considerati pericolosi e quindi è necessario rinchiuderli in quelle che Goffman definisce istituzioni totali, ossia strutture assolutamente appartate ed isolate dal resto del mondo, costretti a rimanervi giorno e notte, attenendosi a giornate sempre uguali, con rigide regole da seguire. Goffman parla di perdita del Sé, della propria identità, costretti ad essere degli attori in una scena teatrale assolutamente raccapricciante.

La legge Giolitti del 1904 sancisce il principio di internamento, rendendo effettivo un regolamento di carattere assolutamente repressivo: si entra in manicomio non perché affetti da un disagio mentale, ma per il principio di pericolosità sociale, pericolosità verso sé stessi e gli altri, non prendendo, però, assolutamente in considerazione né la durata di permanenza né il malato stesso, che perde ogni diritto civile dopo il suo ricovero, se ricovero si può chiamare. Si entra in manicomio e non se ne esce quasi mai.

Ritorniamo al Santa Maria della Pietà, oggetto di studio e di visite del giornalista Gabriele Cruciata: ha avuto diverse sedi a seconda dei diversi periodi e delle diverse disposizioni, fino ad approdare definitivamente nel quadrante nord della città tra Monte Mario e Monte Olimpico: una vera e propria cittadella di “matti”, una gabbia fatta di padiglioni con porte e finestre chiuse, una città nella città, raggiungibile solo con il prolungamento della linea 35, una sorta di muraglione a forma di U e attorno solo strada sterrata e campagna. Quelle mura nascondono segreti ignobili, schiacciano la sofferenza di tante persone lasciate vivere nella sporcizia, tra le proprie urine e feci, abbandonate a sé stesse e non solo, perché arriva anche la scienza, quella scienza che permette di sperimentare una macchina infernale: l’elettroshock. La società si evolve e, così, anche il sapere scientifico, con due nomi, negli anni’30, Ugo Cerletti e Lucio Bini, neurologi, l’uno fautore della teoria secondo cui le scariche elettriche potessero dare benefici non solo a pazienti con diagnosi di schizofrenia, ma anche per sindromi maniaco-depressive, l’altro costruttore di quella macchina che avrebbe dovuto scaricare impulsi elettrici in maniera controllata, ma che di controllato inizialmente aveva ben poco: i pazienti si ritrovano con molte bruciature alle tempie e con denti saltati, soprattutto a Collegno, dove Giorgio Coda, che sarà soprannominato “L’elettricista di Collegno”, applicò la terapia elettroconvulsiva a circa cinquemila pazienti, senza applicare gel isolante e senza anestesia: cinquemila pazienti avevano davvero bisogno di questo trattamento e soprattutto, come si può pensare che un uomo, per di più medico, potesse applicare una simile tortura ad un altro essere umano? La sua assoluta convinzione era quella che tali dolori disumani potessero far guarire il paziente: chi era davvero folle in questa dinamica infernale? Ed in questo podcast ce lo raccontano gli stessi infermieri e pazienti: verità cucite per anni trovano il modo di emergere in superficie e di raccontare una verità terribile, che ad ascoltarla è impossibile non fermare momentaneamente l’audio del podcast. Si parla di bambini considerati troppo vivaci o abbandonati dalle famiglie, si parla di omossessuali, di tossicodipendenti, di alcolisti, di masturbatori, si arriva a parlare di tutti coloro che venivano rinchiusi in manicomio, tutti indistintamente costretti a subire, come cavie, gli effetti di tale macchinario. Rimangono impresse le parole di uno di questi pazienti sopravvissuti: Alberto Paolini, che ha poi scritto il libro “Avevo solo le mie tasche”, entrato in manicomio nel 1948 a soli 16 anni, dopo un’infanzia infelice, dopo una guerra, con l’illusione di aver visto le crudeltà più assurde a causa di una madre che lo picchiava e lo legava al letto e che, invece, si dovette ricredere, perché il peggio lo avrebbe visto in manicomio; vi rimane per quarant’anni, senza avere alcuna diagnosi. Alberto ricorda quella brutta sensazione di ogni singolo paziente di “essere risucchiati di tutte le energie vitali” e non solo: svestiti, privati di ogni oggetto personale, perfino degli occhiali, delle penne, dei diari, della loro vita. E si aggiungono i farmaci, allora non dosati, utilizzati indistintamente come mezzo più di protezione degli operatori che di cura per i malati, uno stordimento generalizzato per sedare anche l’ultimo spiraglio di vitalità, non concesso, anzi combattuto.

Ma queste atrocità quanto tempo dovranno perdurare? Purtroppo si devono attendere gli anni ’60 per attenzionare l’opinione pubblica, per portare allo scoperto l’assurdità di un sistema illegale, disumano, ripugnante. Una serie di movimenti studenteschi e testi come “Manicomi come lager” di Angelo del Boca risvegliano da quel torpore durato per decine di anni: arriva in Parlamento la Legge Mariotti, nascono i CIM, centri di igiene mentale. Per quanto questi movimenti non vengano inizialmente supportati nella giusta misura si comincia a sentire un forte brusio di sottofondo: cominciano a stillarsi sempre più dubbi tra le persone, si comincia a bisbigliare anche nei corridoi del Santa Maria della Pietà, tra gli operatori. E da Gorizia, una piccola cittadina isolata e quasi emarginata, iniziano ad esserci i veri cambiamenti, grazie alla tenacia, alla volontà, all’impegno del Prof. Franco Basaglia, un uomo che riesce a segnare la storia nell’ambito della cura dei disturbi mentali: alto, colto, con un forte accento veneto, è riuscito a far approvare nel 1978 a Ferrara una legge in Parlamento che tutti noi oggi conosciamo come Legge Basaglia n.180. Si arriva alla fine di un percorso durato per vent’anni, con il triste destino per il Prof. veneto di non poter nemmeno vedere appieno i frutti del suo movimento: si spegne solo due anni dopo, a causa di un tumore al cervello.

Ma questo lungo percorso al Santa Maria della Pietà quando davvero comincia?

 Ce lo racconta Gabriele Cruciata attraverso le interviste all’ex infermiere Adriano Pallotta: comincia da solo tre operatori, lui compreso, il 18 dicembre 1974, una data che segna quella che può essere ben definita una rivoluzione, nel senso di evoluzione, di sconvolgimento di abitudini, oltre che di manifestazione di protesta: si redige un documento firmato dal Direttore dell’Ospedale Psichiatrico Due, il primo vero passo verso il processo di deistituzionalizzazione. Finalmente gli operatori possono lavorare insieme, si cominciano a compilare dei registri dove, accanto alle annotazioni cliniche, compaiono annotazioni di carattere umano. I pazienti possono mangiare in uniche tavolate, uomini e donne, che finalmente rientrano in possesso dei propri oggetti personali, come gli occhiali. Un episodio significativo che mi ha davvero commossa è stato quello partito dal Padiglione 16, dove lavorava Adriano Pallotta: viene fatta volontariamente sparire l’unica chiave che permetteva la chiusura della porta del padiglione. Insomma, tutto quello che, ad oggi, ci sembra nella normalità, solo quarant’anni fa era una novità, una conquista importante per tutti, ma soprattutto per i pazienti, per decenni sotto la morsa della disumanità.

Ma davvero è stata una conquista chiudere i manicomi? Se lo chiede in maniera provocatoria Gabriele Cruciata, all’alba del giorno dopo, nell’ultimo episodio del Podcast. Si parte da un episodio eclatante: nel 2021 ad Ardea un uomo esce dalla propria casa e uccide a sangue freddo due bimbi e un anziano, uomo che, pur avendo ricevuto un TSO, gira libero ed armato per le strade. Tutto questo come può essere possibile? Che cosa ne è rimasto della rivoluzione basagliana dopo oltre quarant’anni? Si prende spunto da queste scottanti domande per ripercorrere insieme a Ignazio Marino, senatore, celebre chirurgo dei trapianti, che ha effettuato visite a sorpresa in alcuni dei sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la chiusura degli stessi. Il senatore da questi controlli ne ricava dei racconti spaventosi, come quello di un uomo trovato completamente nudo in un letto provvisto di un buco da cui far uscire le proprie urine e feci. Ma come si possono rinchiudere delle persone in strutture assolutamente non in grado di offrire loro delle cure adeguate? Si parla di ergastolo bianco, di una violenza fredda, come la definisce Enzo Traverso, più subdola, perché ha stretto contatto con “la logistica, con un intero sistema del tutto razionale, ben rodato, oleato, per consentire la violenza” (Gabriele Cruciata).

Anche le chiusure degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) subiscono un processo lento e difficile che approda nelle REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dovrebbero avere funzione terapeutica e riabilitativa, ma che purtroppo, per alcune di loro, ancora rimane solo sulla carta. Oggi ne esistono circa trenta, ma il più delle volte, proprio per una disorganizzazione di fondo, hanno solo il potere di metter un rattoppo ad un problema, senza risolverlo. Ci sono stati troppi tagli alla sanità da rendere inefficienti molti servizi territoriali.

Ma oggi cosa ne rimane del Santa Maria della Pietà? Alcuni padiglioni sono adibiti ad ambulatori veterinari dell’Asl, altri sono stati momentaneamente adibiti ad iniziative interessanti, come gli Ostelli della Gioventù, in occasione del Giubileo del 2015, ma poi ben presto riportati ad uno stato di completo degrado e abbandono.

E che ne rimane di quella fontana così poco conosciuta che fu costruita dentro il Santa Maria della Pietà, con scarti di materiali, come mattonelle rotte ricavate dai bagni, assolutamente priva di canoni estetici, ma fortemente intrisa di significato? Un vero simbolo della voglia di libertà, di riconquista della propria dignità, di possibilità, di vita? Considerata brutta e non assolutamente paragonabile alle altre fontane ben note in Roma è stata abbattuta, distrutta. Hanno sradicato una testimonianza importante, ma probabilmente troppo ingombrante e troppo discordante da quello che oggi la società ci offre come modello di perfezione illusoria. Ma davvero noi esseri umani possiamo dimenticare una storia di orrori di questo tipo? Non lo dobbiamo e non lo possiamo fare anche grazie ad un racconto come questo che, se pur difficile da ascoltare tutto d’un fiato per la crudeltà dei contenuti, merita l’interesse di ognuno di noi, come spunto di riflessione per non cercare la via di fuga, ma avere il coraggio di affrontare con l’informazione e la consapevolezza. Si scappa spesso per scansare, per schivare situazioni scomode, ma questo è solo sinonimo di codardia. Per rispetto di tutti coloro che hanno vissuto in prima persona quell’orrore e per rispetto di coloro che ancora non ricevono le cure necessarie, non possiamo far finta che nulla sia successo. Si è parlato di rivoluzione per la chiusura dei manicomi e degli OPG, ma si deve altrettanto parlare di apertura verso maggiori possibilità di sostegno al disagio.

Ringrazio, come ha sempre fatto l’autore del podcast, alla fine di ogni episodio, il dott. Bruno Tagliacozzi, la dott.ssa Daniela Pezzi e il Prof. Ignazio Marino, grazie anche ad Adriano Pallotta, Alberto Paolini, al Prof. Natale Calderaro e a Massimiliano Taggi. E, non per ultimo, ringrazio te, Gabriele Cruciata, per questa assoluta, doverosa riflessione su una realtà che ci appartiene.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Del Boca A. (1966). Manicomi come lager. Dell’Albero: Torino.
  • Goffman E. (2010). Asylum. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza. Trad. Franco Basaglia. Einaudi: Torino.
  • Paolini A. (2016). Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio. Sensibili alle Foglie: Roma.
  • Traverso E. (2008). A ferro e a fuoco. La guerra civile europea 1914-1945. Il Mulino: Bologna.
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