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Le angosce dei filosofi – L’ ansia di Arthur Schopenhauer

Dagli scritti di Arthur Schopenhauer emerge è l’immagine di un uomo consapevolmente fragile, spesso dominato da irrazionali e “inspiegabili” paure

Di Francesco Luigi Gallo

Pubblicato il 27 Ott. 2022

Nel suo L’arte di conoscere se stessi, Arthur Schopenhauer ci offre una sorprendente descrizione della sua personalità che capovolge l’immagine di un filosofo austero e solenne: ciò che emerge è, invece, l’immagine di un uomo consapevolmente fragile, spesso dominato – ma mai vinto da – irrazionali e “inspiegabili” paure.

 

Nell’«aureo libretto», come lo definisce giustamente F. Volpi, intitolato L’arte di conoscere se stessi, Arthur Schopenhauer ci offre una sorprendente descrizione della sua personalità che capovolge radicalmente la pregiudiziale immagine di un filosofo austero e solenne: quello che emerge dalla sua personale autobiografia è, invece, l’immagine di un uomo consapevolmente fragile, spesso dominato – ma mai definitivamente vinto da-irrazionali e “inspiegabili” paure.

Ecco le parole del maestro di Danzica:

La Natura ha fatto qualcos’altro per isolare il mio cuore munendolo di diffidenza, irritabilità, impetuosità e fierezza in una proporzione quasi inconciliabile con la mens aequa del filosofo. Da mio padre ho ereditato l’angoscia, che io stesso ho maledetto e combattuto impegnandovi tutta la mia forza di volontà. Capita che per i motivi più insignificanti mi assalga con una tale violenza da farmi vedere dianzi a me in carne e ossa sciagure solo possibili, anzi appena pensabili. 

Una terribile fantasia potenzia a volte questa inclinazione fino all’incredibile. Già da bambino, a sei anni, una sera i miei genitori, tornando da passeggio, mi trovarono nella più cupa disperazione perché mi ero immaginato che all’improvviso mi avessero abbandonato per sempre. 

Da ragazzo mi tormentavano malattie e litigi immaginari. Durante gli studi a Berlino per un certo tempo credetti di avere un esaurimento. Allo scoppio della guerra nel 1813 mi perseguitò il timore di essere costretto al servizio militare. Da Napoli mi fece fuggire la paura del vaiolo, da Berlino il colera. A Verona ero in preda all’idea fissa di avere assaggiato tabacco da fiuto avvelenato. Nel luglio 1833, al momento di lasciare Mannheim, senza alcun motivo esteriore fui preso da un indicibile senso d’angoscia. Per anni mi hanno perseguitato il timore di un processo penale per il pasticcio a Berlino, il terrore di perdere il mio patrimonio e la paura che mia madre impugnasse la mia parte di eredità. 

Di notte bastava un rumore per farmi saltare giù dal letto e afferrare la sciabola e le pistole che tenevo sempre cariche. Anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono. Essa amplifica all’infinito anche la minima avversità e rende tanto più difficile per me il rapporto con gli esseri umani. 

Sarebbe molto difficile, ma non impossibile, riuscire a costruire una ‘diagnosi’ a partire da questa brevissimo, ma denso, frammento autobiografico. Apparirebbe tuttavia inutile sforzarsi di diagnosticare e medicalizzare a posteriori una qualche sindrome o un particolare disturbo a proposito di una personalità, quale fu quella di Arthur Schopenhauer, che non solo convisse con la sua angoscia facendo di tutto per combatterla («che io stesso ho maledetto e combattuto impegnandovi tutta la mia forza di volontà») ma, con ogni probabilità, la utilizzò come una sorta di ‘palestra filosofica’, per conoscere più a fondo le inquietudini che attanagliano lo spirito umano e studiare strategie efficaci per ‘vincere’ il dolore.

Ciononostante, se proprio si volesse azzardare una congettura diagnostica in base al testo biografico letto, cosa si potrebbe dire? Gli episodi biografici raccontati dal famoso filosofo tedesco sarebbero quasi certamente riconducibili alla sfera dei disturbi d’ansia. Ad esempio questo passo: «anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono» lascerebbe pensare ad una severa ansia generalizzata e l’esperienza berlinese, per citarne una, ad una crisi ipocondriaca abbastanza rilevante.

È abbastanza riconoscibile una tendenza al pensiero catastrofico. Nel manuale sul disturbo d’ansia generalizzato, preparato dall’équipe della Clinical Research Unit for Anxiety Disorders di Sidney (Centro Scientifico Editore, Torino, 2004) vengono indicati ben quattordici errori cognitivi tipici di una mente ansiosa (pp. 27-29), e vale la pena elencarli qui di seguito per usarli come griglia interpretativa del frammento biografico del filosofo di Danzica:

  • Pensare in termini di tutto o nulla: «di notte bastava un rumore per farmi saltare giù dal letto e afferrare la sciabola e le pistole che tenevo sempre cariche»;
  • Generalizzare: «anche in assenza di uno stimolo particolare reco in me una costante ansietà interiore che mi fa vedere e cercare pericoli dove in realtà non ce ne sono. Essa amplifica all’infinito anche la minima avversità e rende tanto più difficile per me il rapporto con gli esseri umani»;
  • Filtrare mentalmente la realtà;
  • Sminuire;
  • Personalizzare;
  • Sopravvalutare i rischi o le probabilità di un evento spiacevole: «allo scoppio della guerra nel 1813 mi perseguitò il timore di essere costretto al servizio militare. Da Napoli mi fece fuggire la paura del vaiolo, da Berlino il colera»;
  • Catastrofizzare o esagerare l’importanza di un evento: «per anni mi hanno perseguitato il timore di un processo penale per il pasticcio a Berlino, il terrore di perdere il mio patrimonio e la paura che mia madre impugnasse la mia parte di eredità»;
  • Giudicare in base alle emozioni;
  • Saltare alle conclusioni: «durante gli studi a Berlino per un certo tempo credetti di avere un esaurimento»;
  • Leggere la mente;
  • Fare l’oracolo;
  • Dare troppa importanza al passato;
  • Essere troppo pessimisti;
  • Usare due metri di misura per sé e per gli altri;

Non è un caso, inoltre, che Arthur Schopenhauer non solo sia approdato allo studio del pensiero orientale, ma che abbia addirittura istituito una relazione fra lui e Buddha:

A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte (A. Schopenhauer, Il mio Oriente, p. 15).

Lo studio del pensiero orientale, inoltre, ha avuto una valenza terapeutica profondissima sul suo spirito inquieto ed angosciato:

Infatti, come realmente l’Oupnekhat riflette dovunque il sacro spirito dei Veda! Colui che grazie ad assidue letture è riuscito a rendersi familiare il persiano-latino di questo libro impareggiabile, come viene afferrato fin nell’intimo del suo essere da quello spirito! Come ogni riga è piena di un significato preciso, determinato e sempre coerente! E da ogni pagina ci vengono incontro profondi pensieri, originali e sublimi, mentre un’elevata e sacra serietà aleggia su tutto. Tutto qui respira aria indiana e un’esistenza originaria, affine alla natura. E come qui lo spirito subisce un lavacro purificante che lo libera da ogni pregiudizio ebraico, inoculatogli fin dall’infanzia, e da ogni filosofia schiava di quel pregiudizio! È la lettura più profittevole ed edificante (a parte il testo originale) che sia possibile a questo mondo: essa è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, vol. II, pp. 523-524).

È interessante considerare attentamente il tipo di suggerimenti che il grande filosofo ci ha regalato in diversi, fondamentali, passi delle sue opere (presumibilmente da lui stesso impiegati nella strenua lotta contro la sua angoscia) e rilevare il loro effettivo valore terapeutico alla luce di alcuni programmi, come la Mindfulness Based Stress Reduction, che sono spesso integrazione alla terapia cognitivo-comportamentale (con soddisfacenti risultati) e che hanno origine da un antichissimo sapere orientale al quale Arthur Schopenhauer ha attinto a piene mani.

Cominciamo dall’invito che ci fa il filosofo di Danzica a recuperare la dimensione del presente:

Un momento importante della saggezza del vivere sta nel sapere stabilire un giusto rapporto fra le attenzioni che dedichiamo al presente e quelle rivolte al futuro. Molti – persone troppo leggere – vivono troppo nel presente; altre – quelle pavide e apprensive – vivono troppo nel futuro. Raramente ci si attiene alla misura giusta. Coloro che, con le loro aspirazioni e speranze, vivono esclusivamente nel futuro, guardando sempre davanti a sé, e corrono impazientemente incontro agli eventi venturi, dai quali si attendono, finalmente, la vera felicità – e, intanto, trascurano il presente e lo lasciano trascorrere senza goderlo -, si possono paragonare, con tutta la loro aria saputa, a quegli asini che, in Italia, per accelerarne l’andatura, si fanno camminare con davanti al muso un fascio di fieno penzolante da un bastone assicurato alla testa; se lo vedono sempre davanti e sperano sempre di raggiungerlo. Chi vive così defrauda l’esistenza: non è vivo che ad interim, dal principio alla fine – finché muore. Quindi, invece di dedicarci esclusivamente a progetti per il futuro e di preoccuparci continuamente del nostro avvenire, o, al contrario, di abbandonarci alla nostalgia del passato, non dovremmo mai scordare che soltanto il presente è reale e sicuro, mentre il futuro è sempre diverso da come lo immaginiamo, così come era diverso lo stesso passato; (A. Shopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 58).

E così conclude queste straordinarie riflessioni:

Solo il presente è vero e reale: esso è il tempo realmente inverato, e in esso soltanto è contenuta la nostra esistenza. Perciò dovremmo sempre fargli una lieta accoglienza, e quindi godere, consapevolmente, di ogni ora sopportabile e libera da immediate contrarietà o sofferenze così com’è, senza, cioè, turbarla crucciandoci per le delusioni del passato o per le preoccupazioni sul futuro; perché è del tutto insensato voltare le spalle a una bella ora del presente, o rovinarla di proposito col rammarico per ciò che è stato o l’apprensione per ciò che deve venire (ibidem).

Chi vive in modo eccessivamente sbilanciato sul futuro «defrauda l’esistenza» che, invece, si sostanzializza solo nel presente, nel qui ed ora. Cerchiamo di comprendere bene, però, alla luce delle riflessioni fenomenologiche di Van Den Berg, come la sostanzializzazione dell’esistenza nel presente non nientifica il passato e il futuro (cioè due delle tre dimensioni temporali dell’uomo), ma le riconfigura dialetticamente a partire dal qui ed ora:

Non sarebbe molto più giusto dire che presente e futuro non sono così rigorosamente separati come l’orologio vorrebbe farmi credere? Che fra essi esiste invece un legame molto stretto, tanto stretto da poter dire che il futuro è contenuto nel presente, e pur essendo – quest’è vero – ciò che verrà poi, è un “poi” come lo vedo in questo momento? Scendendo dal letto, infatti, il mio contegno non è certo determinato da ciò che accadrà nelle prossime ore: ciò che accadrà realmente nel seguito della giornata non c’è ancora, e dato che non esiste non può avere neppure un’influenza su di me. Aggiungiamo ancora, che gli eventi della prossima giornata potranno benissimo non accordarsi col modo in cui metto le gambe giù dal letto; per esempio, può darsi che la giornata si riveli piacevolissima, anche se mi sono alzato di malavoglia. Il futuro è ciò che verrà, così come mi si fa incontro ora, nel presente. Il futuro è l’avvenire, ciò che deve venire, cioè, essenzialmente, ciò che trova espressione nel modo in cui mi si fa incontro. Pensando al futuro, vivo già in ciò che mi viene incontro; prima di mettere le gambe giù dal letto, il giorno mi è già venuto incontro e io vivo in esso ancor prima che sia cominciato; prima di essere sceso dal letto e di aver mosso qualche passo nella stanza, sono già entrato nel giorno. Il modo del mio entrare nel giorno e il modo in cui il giorno si affretta verso di me si corrispondono come risposta e domanda, e il frutto di tale dialogo è il mio modo di scendere dal letto (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, pp. 91-92).

Qual è il senso di queste profondissime riflessioni fenomenologiche?

Per comprenderlo bisogna concentrarsi su questa affermazione: il futuro è la risposta ad una domanda esistenziale posta dall’uomo.  Tale risposta non ha un carattere definito, e non prescinde dal modo in cui è stata posta la domanda.

Una domanda speranzosa avrà una risposta tranquillizzante, una domanda originatasi dalla paura avrà una risposta terrorizzante, una domanda serena avrà una risposta rassicurante. Domanda e risposta stanno insieme dialetticamente: nessuna delle due esiste senza l’altra. Molto spesso accade che l’ansia della risposta pregiudichi lo stesso domandare: siamo così focalizzati sulla risposta-futuro che la domanda-presente rischia di essere frettolosa e confusa e, quindi, mal posta. Per dare un’adeguata risposta ad una domanda mal posta, però, bisogna riformulare la domanda stessa. Dal futuro si ritorna al presente. Ma in che modo?

Secondo Seneca, che su questi temi non è molto distante dal filosofo di Danzica, bisognerebbe adottare queste precise contromisure:

[…] non c’è che io sia triste e crucciato senza motivo, e che mi crei un male che non esiste? «Come posso accorgermi», mi dirai, «se le sventure che mi angustiano sono vere, o sono solo immaginate da me?». Eccoti la norma da seguire: noi ci crucciamo per cose presenti, o future, o per entrambe. Sulle cose presenti il giudizio è facile: se il tuo corpo è libero e sano, e se non hai alcun dolore per offese ricevute, si vedrà poi quello che accadrà: oggi non ci sono motivi per preoccuparsi. «Ma il male verrà», obietterai. Anzitutto considera bene se ci siano chiari indizi di questo male futuro: spesso infatti noi ci affanniamo per semplici sospetti, e ci lasciamo trarre in inganno da quelle dicerie che, come hanno la forza di mandare in rovina gli eserciti, tanto più possono abbattere i singoli. È così, o mio Lucilio; con troppa fretta accettiamo per vere le opinioni; e non cerchiamo di veder chiaro nei nostri timori, né abbiamo il coraggio di scacciarli, ma voltiamo le spalle trepidanti, come chi fugge dal campo solo per aver visto la polvere sollevata da un branco di pecore, o come chi si spaventa al racconto di cose leggendarie e irreali, di cui non si conosce neppure l’autore. Non so perché ma le cose immaginarie turbano di più. […] niente porta conseguenze così dannose e irreparabili come il timor panico (Seneca, Lettera 13 a Lucilio).

Molte volte dalla presunzione errata di una specifica risposta impostiamo e costruiamo la domanda, dimenticando che essa dovrebbe nascere, invece, da un presente accolto in tutta la sua ricchezza esistenziale unica e irripetibile. In questa dialettica particolare e complessa (dalla quale dipende la serenità della vita interiore) il primato è sempre della domanda, cioè del presente. Ritornare al presente vuol dire interrompere un cattivo dialogo esistenziale e reimpostarlo a partire dal qui ed ora. Sarebbe impossibile eliminare dalla vita umana le dimensioni del passato e del futuro e non è questo che Arthur Schopenhauer ha suggerito di fare (e non lo richiedono i fenomenologi e non lo richiese Seneca).

Sull’importanza del presente il grande filosofo tedesco non si è limitato a quei passi profondissimi letti più sopra. Poco più avanti ha scritto:

Ma quanto più uno è lasciato in pace dal timore, tanto più lo rendono inquieto i desideri, le passioni, le ambizioni. Il significato della ben nota poesia di Goethe Ich hab mein Sach auf nichts gestellt è, in sostanza, questo: all’uomo è dato partecipare di quella pace dello spirito che è alla base della felicità umana soltanto quando è stato costretto a rinunciare a ogni sua aspettazione e riportato alla nuda, spoglia realtà dell’esistere. Quella pace è indispensabile per farci ritenere accettabile il presente, e con esso l’intera esistenza. A tal fine dobbiamo sempre rammentarci che l’oggi viene una volta sola, e non ritorna più. Noi ci illudiamo che domani ritorni: ma domani è un altro giorno, e viene anch’esso una volta sola. Dimentichiamo, anche, che ogni giorno è parte integrante della vita, e perciò è insostituibile, considerandolo, invece, contenuto nella vita così come gli individui sono compresi nel concetto generale di comunità. Inoltre, apprezzeremmo e gusteremmo meglio il presente se, nei giorni in cui siamo sani e soddisfatti, ci tornasse in mente come, quando siamo ammalati o afflitti, ogni ora libera da dolori e da privazioni ci si presenti alla memoria come sconfinatamente invidiabile, come un paradiso perduto, come un amico che avevamo misconosciuto. Noi, invece, viviamo i nostri giorni belli senza accorgerci di loro; poi, quando vengono quelli neri, vorremmo che ci fossero restituiti. Ci lasciamo scorrere davanti, con aria infastidita e senza goderne, mille ore serene e piacevoli; e poi, nei momenti bui, sospiriamo per esse in un vano rimpianto. Dovremmo, invece, apprezzare ogni momento sopportabile del presente, anche i più banali, quelli che ora lasciamo trascorrere con tanta indifferenza, e anzi con insofferente frettolosità (A. Schopenhauer, Aforismi per una vita saggia, versione digitale, p. 58).

Nella frase contrassegnata in neretto è presentato al lettore un pensiero radicale e, a ben pensare, formidabilmente veritiero: l’accettazione e il godimento dell’esistenza sono possibili a partire dall’accettazione e dal godimento del presente. Se è vero, infatti, che l’esistenza si sostanzializza nel presente, come sopra si è ricordato, è altrettanto vero, però, che a partire dal presente s’irradia la nostra accettazione del passato e il nostro progettare il futuro. Van Den Berg, dalla prospettiva fenomenologica, ha scritto:

Il passato vive infatti, vive oggi; né è senza significato che viva oggi, e così come lo vediamo. Il passato ha una funzione – benefica talora, tal’altra malefica – nella vita presente. […] Che fra essi [scil. tra presente e futuro] esiste invece un legame molto stretto, tanto stretto da poter dire che il futuro è contenuto nel presente, e pur essendo – quest’è vero – ciò che verrà poi, è un “poi” come lo vedo in questo momento? (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, pp. 88-91).

La serenità della vita è, dunque, la risultante di un equilibrato gioco dialettico tra presente, passato e futuro, in cui il primo elemento ha un valore esistenziale preminente e fondamentale, e funge da polo di riferimento assoluto della vita umana. Schopenhauer non si è limitato a queste riflessioni, che già da sole assicurerebbero un valore psicologico altissimo alla sua opera filosofica. Nella sua Eudemonologia il filosofo tedesco raccomanda anche di «tenere a freno la fantasia» a tutti i costi. Ecco il testo della massima n. 18 che vale la pena leggere per intero:

Dobbiamo tenere a freno la fantasia in tutte le cose che riguardano il nostro benessere e il nostro malessere, le nostre speranze e i nostri timori. Fantasticando su possibili casi fortunati e sulle loro conseguenze ci rendiamo ancora più indigesta la realtà: costruiamo castelli in aria che in seguito il disinganno ci fa pagare cari. Ma conseguenze ancora peggiori può avere l’immaginare possibili disgrazie: come dice Gracián, può trasformare la fantasia nel nostro carnefice domestico. Se si prendesse il tema delle fantasie funeste da grande distanza, scegliendolo da frammenti sparsi, non potrebbe nuocere, poiché svegliandoci dal sogno sapremmo immediatamente che tutto è puramente inventato e quindi conterrebbe una messa in guardia da disgrazie pur sempre possibili, ma lontane. […] Le cose che riguardano il nostro benessere e il nostro malessere dobbiamo affrontarle solo con la capacità di giudizio, che opera con concetti  in abstracto, in una riflessione fredda e asciutta; la fantasia non vi si deve avvicinare, poiché non sa giudicare; essa ci pone di fronte un’immagine che muove il sentimento in modo inutile e assai penoso. Dunque: tenere a freno la fantasia. 

Per una vita costernata dal dolore e dalla paura, il maestro di Danzica ci fornisce questi preziosissimi suggerimenti che ci permettono di combattere e, perché no, vincere i mali dell’esistenza e assicurarci una certa stabile serenità.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Schopenhauer, A. (2013). Aforismi per una vita saggia. Milano: Bur.
  • Schoperhauer, A. (2010).  L’arte di essere felici. Milano: Mondadori.
  • Seneca, (2007). Opere morali. Milano: Bur.
  • Van Den Berg J. H. (1961). Psichiatria e fenomenologia. Milano: Bompiani.
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