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Effetto spettatore: quando un omicidio viene ripreso ma non impedito

Cittadini e passanti sono rimasti inermi dietro allo schermo del telefono, inquadrando l'omicidio di Alika Ogorchukwu, ecco il cosiddetto effetto spettatore

Di Silvia Rosati

Pubblicato il 30 Lug. 2022

Aggiornato il 04 Ago. 2022 15:37

L’assassino di Alika Ogorchukwu non era armato, poteva essere fermato, poteva essere evitata una morte così ingiusta. Perché nessuno è intervenuto? La spiegazione sembra risiedere nell’effetto spettatore.

 

 “Nigeriano ucciso a Civitanova Marche. I passanti riprendono senza intervenire”. Questo è uno dei tanti titoli degli articoli di giornale pubblicati di recente, dove a far scalpore, oltre alla morte cruda ed ingiusta di Alika Ogorchukwu, un venditore ambulante, è stata l’incuranza e la passività dei passanti.

L’episodio “White Bear” della serie Black Mirror sembrerebbe quasi predire il fatto di cronaca, dove cittadini filmano attraverso i propri dispositivi telefonici una donna inseguita da persone mascherate e minacciose con l’intenzione di ucciderla. L’inespressività dei cittadini, la passività e l’incapacità di empatizzare ciò che stavano filmando drammatizza ancora di più la scena della serie.

Come si può essere spettatori e riprendere momenti simili senza remora alcuna?

Bibb Latané e John Darley, psicologi sociali Statunitensi, a seguito di un altro simile fatto di cronaca avvenuto nel 1964 in America, diedero una spiegazione a questa domanda.

Catherine Susan “Kitty” Genovese, ventinovenne americana, venne stuprata ed aggredita con pugnalate alle spalle da Winston Moseley, lungo le strade della città. Così come quei 38 abitanti di un paese periferico di New York non intervennero (Manning, R., Levine, M. & Collins, A, 2007), anche nel 2022 cittadini e passanti sono rimasti inermi dietro a uno schermo del telefono come ai concerti, attenti ad inquadrare perfettamente, non un artista, ma una scena orribile, dove urla e sangue non erano finzione cinematografica.

L’assassino di Alika Ogorchukwu non era armato, poteva essere fermato, poteva essere evitata una morte così ingiusta, nessuno è riuscito ad agire, se non premendo il tasto “rec” sul proprio telefono.

Perché chi assiste non interviene?

I due psicologi indagarono sul fatto che maggiore è il numero di spettatori, minore è la probabilità che uno o più di loro agisca, fenomeno che viene definito “effetto spettatore” (o apatia degli astanti, in inglese Bystander Effect).

Quando più persone si trovano ad assistere a scene di cronaca come quelle sopra descritte, i singoli spettatori credono che gli altri abbiano più informazioni riguardo a ciò che sta accadendo e che sappiano come sia giusto comportarsi. Si conformano dunque al comportamento altrui, senza avere la consapevolezza del fatto che, adottando tutti quel tipo di comportamento, si corre il rischio di rimanere inermi senza fare ciò che è adeguato fare, dando spazio all’“ignoranza pluralistica infragruppo” e alla diffusione di responsabilità. (Brown, R.,2000).

Latané e Darley hanno ritenuto sbagliato dunque comprendere le caratteristiche delle singole persone in una situazione di mancato soccorso, ma piuttosto studiare le relazioni che si creano tra chi è testimone.

 La prima fase che affronta uno spettatore di un gruppo che osserva l’avvenimento è quella di entrare nella consapevolezza che si sta assistendo ad un accaduto, successivamente decidere se ciò che si osserva richiede aiuto, assumersi dunque la responsabilità di un eventuale soccorso che si intende fornire ed in conclusione stabilire come intervenire e concretizzare la decisione. Tutta questa sequenza comportamentale trova maggiore difficoltà nell’assunzione di responsabilità, la quale inibisce l’eventualità che le persone facciano qualcosa per intervenire (Palmonari, A. e Cavazza, N.,2003).

Gli studiosi Latané e Darley per confermare la veridicità dell’effetto spettatore, nel 1968 alla Columbia University misero in atto un esperimento.

Studenti universitari avevano il compito di compilare un questionario tutti all’interno della stessa stanza. Solo uno era il soggetto sperimentale che in alcune situazioni si trovava solo, in altre in compagnia di altri soggetti consapevoli dell’esperimento.

Dopo un po’, in entrambe le situazioni, all’interno della stanza veniva sprigionato un evidente fumo non nocivo. Il 63% dei soggetti che si trovavano soli in stanza si resero conto del fumo immediatamente, mentre, la maggior parte dei soggetti che si trovavano in compagnia, non se ne interessavano. Questo a conferma del fatto che trovarsi in compagnia di altre persone inibisce la percezione e la reazione ad eventuali pericoli per i quali invece dovremmo agire (Palmonari, A. e Cavazza, N., 2003).

Concludendo, dunque, quando le nostre scelte si basano sulle azioni degli altri, se nessuno reagisce allora non riteniamo necessario intervenire: se pensiamo che è solo grazie al nostro aiuto se una situazione può migliorare allora siamo propensi a prestarlo, viceversa se sono presenti altre persone che possono offrirsi, allora saremo meno disposti ad offrirci come aiutanti (Hogg, M.A. e Vaughan, G.M., 2016). La conoscenza di questo fenomeno, però, potrebbe fare la differenza nei momenti più critici.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Brown, R. (2000). Psicologia sociale dei gruppi. Il Mulino.
  • Hogg, M.A. e Vaughan, G.M. (2016). Psicologia sociale. Pearson.
  • Manning, R., Levine, M. & Collins, A (2007). The Kitty Genovese murder and the social psychology of helping: the parable of the 38 witnesses. Am Psychol; 62 (6), 555-62.
  • Palmonari, A. e Cavazza, N. (2003). Ricerche e protagonisti della psicologia sociale. Il Mulino.
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