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Totem, tabù e satira: analisi freudiana sulla Stand Up Comedy

La notte degli Oscar evidenzia come una battuta possa suscitare un dibattito su un modo di fare comicità su temi seri e difficili, chiamato Stand Up Comedy

Di Federico Cherchi

Pubblicato il 13 Mag. 2022

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Up Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica. 

 

Il lavoro del comico è sicuramente una professione difficile. Basti pensare ai tanti esempi che nel panorama culturale mondiale legano questo ruolo ad una serie di situazioni difficili e rischiose.

La recente notte degli Oscar è un esempio emblematico per evidenziare come una battuta (riuscita o meno) possa rappresentare il centro di un vivo dibattito capace di coinvolgere e dividere l’opinione pubblica a livello globale (Chas Danner and Margaret Hartmann, 2022): quello schiaffo rappresenta una scena emblematica che ci obbliga a porci delle domande circa la legittimità di una battuta – di un modo di fare comicità chiamato Stand Up Comedy – nei confronti di tematiche serie e difficili da affrontare, come la condizione medica dell’attrice statunitense Jada Pinkett Smith verso cui la battuta è stata indirizzata.

La cronaca è ricca di episodi che coinvolgono il difficile ruolo del comico, orientando l’opinione pubblica verso accese forme di dibattito. Un recente articolo della CNN riporta la difficile situazione in India, dove il comico Nalin Yadav, dopo uno spettacolo di Stund Up Comedy, si è trovato ad affrontare 35 giorni di carcere con l’accusa di aver volontariamente infangato alcune tematiche religiose e culturali (Rhea Mogul, 2022). Oppure come non citare la leggendaria performance di George Carling “Seven Words You Can Never Say on Television”, nella quale il comico americano, il 27 maggio del 1972 dal palco del Santa Monica Civic Auditorium, recita un monologo riguardante la necessità assurda di censurare 70 parole, tra le 600.000 in lingua inglese, perché ritenute “pericolose” per il pubblico. Verrà arrestato con l’accusa di “profane humor”, e coinvolto in una battaglia legale destinata a cambiare profondamente l’attuale sistema legale americano (Tim Ott, 2020).

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Un Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica.

Infatti non è raro, di fronte a questo tipo di performance, essere invasi da sentimenti contrastanti che vanno dalla piacevolezza e divertimento, fino a toccare imbarazzo e forte contrarietà: non a caso l’episodio dello schiaffo agli Oscar ha suscitato reazioni fortemente polarizzate in entrambe le direzioni.

La censura e, come vedremo, il tabù, sono l’arma più semplice per contrastare tali sentimenti sul nascere, ed evitare che “infastidiscano” la sensibilità dell’audience. Fare luce sugli elementi alla base di tali sentimenti significa comprendere meglio alcuni meccanismi psicologici, sociali e culturali che contraddistinguono l’essere umano fin da epoche lontanissime.

Capire meglio il difficile ruolo della Stand Up Comedy, quindi, ci porterà a capire meglio come funzioniamo oggigiorno, come individui e come società.

Esistono tanti esempi performativi di Stand Un Comedy americana: per addentrarci nell’argomento è utile analizzare un episodio specifico che rappresenta il simbolo e l’apice di questa modalità comica performativa. Per indagare quali meccanismi governano il rapporto tra comico e pubblico partiremo quindi dal momento più dissacrante mai registrato di Stand Up Comedy. Questo episodio, come una lente di ingrandimento, ci permette di osservare una gigantografia dei meccanismi psicologici alla base della nascita di quei sentimenti tanto contrastanti che sembrano caratterizzare questo tipo di comicità rispetto alle altre forme.

The Aristocrats: la Stand Up più difficile del mondo

Siamo a New York, fine settembre 2001.

Il famoso comico americano Gilbert Gottfried, celebre interprete nel film “Piccola Peste” (1990), tiene il discorso finale dello spettacolo televisivo del Friars’ Club che in quella serata dedica l’evento al roast del celebre fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner. I soldi raccolti durante la serata sarebbero stati devolti a favore delle vittime del 9/11: l’attentato alle Torri Gemelle.

Un roast, che letteralmente significa “arrostire”, “rosolare”, è una forma di intrattenimento anglosassone nella quale un personaggio d’onore, una celebrità del panorama culturale, viene bersagliato da battute e insulti volti a umiliare -in modo intelligente e ironico- il protagonista della serata.

Così, mentre il comico Gottfried continua ad “abbrustolire” l’ospite d’onore, ad un certo punto si ferma ed afferma di essere nervoso -molto nervoso- perché il volo per Los Angeles che avrebbe dovuto prendere dopo lo spettacolo, non era un diretto, ma aveva uno scalo: con l’Empire State Building.

La folla inizia ad agitarsi. Il pubblico inizia a fischiare. Qualcuno dalla platea grida: «Too soon! Too soon!». La tragedia delle Torri Gemelle è ancora troppo vicina per questo tipo di battute.

La situazione si fa decisamente pesante, e tra i fischi del pubblico e i comici sul palco che lo fissano sbigottiti, Gottfried allarga le braccia, distendendole sul podio, mentre con le mani stringe i bordi del leggio.

Lascia che i fischi terminino, mentre con diversi movimenti di spalle e collo sembra voler riscaldare i muscoli contratti dal nervosismo: forse è agitato, forse no, ma sicuramente questa è la preparazione di chi si presta ad un gesto atletico assurdo. Gottfried sta per raccontare una barzelletta.

La folla sta ancora mormorando quando il comico si avvicina al microfono e dice:

«Un talent scout è seduto nel suo ufficio, quando un’intera famiglia americana entra nell’ufficio, tutta bella, biondi, occhi azzurri, composta da padre madre, figlia, figlio e un cane. Entrati tutti quanti l’agente dice “bene vediamo cosa sapete fare”».

Questo, che sembra l’incipit di una normale barzelletta, è in realtà l’inizio di quella che viene considerata la barzelletta più oscena del mondo, alla quale nel 2005 viene dedicato un documentario dal titolo “The Aristocrats” (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Non c’è bisogno di assistere alla scena per conoscere l’epilogo della faccenda. Censurata da Comedy Central, e tagliata per motivi di tempistica dal documentario “The Aristocrats” (la barzelletta ha una durata molto estesa), la battuta recitata da Gottfried sul palco del Friers’ Club Roast segna il momento più dissacrante e politicamente scorretto della storia dello show americano: show, questo, che fa del political correct il suo bersaglio principale.

Le ragioni dell’importanza storica di questo episodio sono principalmente due: la prima si rifà alla storia di questa battuta leggendaria; la seconda, come vedremo, prende in considerazione un meccanismo psicologico dell’arte performativa noto fin dal secolo scorso.

La nascita storica della barzelletta The Aristocrats

Questa barzelletta è considerata una vera leggenda: citata nell’opera del 1968 “Rational of the Dirty Joke” dal critico culturale americano Gershon Legman, sembra abbia goduto di molta della sua fama grazie a Chevy Chase, Michel O’ Donoghue e John Belushi (Legman, Gershon, 2007) personaggi di spicco all’interno dell’ambiente del Nation Lampoon Magazine, un giornale comico satirico che, a cavallo tra gli anni 70’ e 90’, ha accolto molti giovani talenti comici, tra i quali Bill Murray e Harold Ramis, entrambi membri nel film Ghost Busters (Reitman, 1984).

Si dice che in questo habitat si sia sviluppata, durante le feste organizzate dal collettivo, l’abitudine di recitare questa battuta in una sorta di competizione: dati gli elementi (che devono sempre essere composti da una bella famiglia americana tradizionale, dal talent scout e dal cane), e il Set Up (lo studio di un talent scout) bisognava trovare il modo più assurdo per arrivare alla Punch Line finale, che vede il talent scout, scioccato o incuriosito dalla scena a cui ha appena assistito, domandare: «Come si chiama questa cosa che avete appena fatto?», e il padre di famiglia: «Si chiama Gli Aristocratici».

Tra l’incipit e il finale sta al comico il compito di trovare quelle trame assurde e oscene che i soggetti devono compiere. Il meccanismo è tutto qua: il comico deve descrivere -dettagliatamente o meno a seconda dell’effetto che vuole sortire nel pubblico- le ragioni per cui la famiglia si trova su quel palco, e questo deve essere frutto di un totale abbandono verso l’improvvisazione. «Improvvisare sullo schifo- dichiara un personaggio nel documentario The Aristocrats- fa di te il John Coltrane della situazione» (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Freud, funzione catartica e Motto di Spirito Tendenzioso

Per capire il secondo aspetto fondamentale dell’episodio concentriamoci adesso sui meccanismi psicologici alla base dello humor e della satira.

Siamo nel 2001, o meglio, siano alla fine del mese di settembre del 2001 quando lo show viene registrato nel Fries’Club di New York. L’alba di quella che può essere considerata la più grande tragedia della storia degli Stati Uniti d’America è ancora vicinissima e il dolore, la paura, nel popolo americano è più viva che mai (Schuster, 2001). In questo clima di terrore e incertezze la comicità sembra non potersi fare strada: la tragedia che il mondo ha davanti a sé è ancora scottante, altamente complessa e profondamente seria.

Ma è proprio dalla serietà monolitica di un evento che nasce la risata: quando un comico riesce a far dissolvere quella complicatezza cognitiva con cui credevamo di dover fare i conti, assistiamo allora al fenomeno che Freud (1905) chiamerà «risparmio energetico di risorse». Tutte quelle energie che di norma sarebbero state spese dalla persona per gestire un problema complesso, si trovano adesso libere di agire su altri sistemi: l’essere umano, con tutte le sue paranoie e complicazioni, viene semplificato. Nasce la risata: come sfogo, liberatorio, delle energie risparmiate.

Non è un caso che Sigmund Freud nel suo “Il Motto di Spirito” (1905), ritagli al fenomeno del risparmio del dispendio energetico un ruolo particolare all’interno di tutti i vari tipi di comicità: la risata è una reazione strettamente connessa con ciò che Freud chiama meccanismo del piacere.

Il piacere è descritto da Freud come «il soddisfacimento di qualcosa che sarebbe dovuto rimanere insoddisfatto» (Freud, 1905). La causa che blocca il piacere è semplicemente definita ostacolo: ogni motto di spirito, ogni battuta, ogni barzelletta, quindi non è altro se non il rapporto tra un desiderio di soddisfazione di un impulso verso l’esterno e una forza che ostacola tale sfogo.

Quando tale ostacolo è di natura interna si riferisce all’indole naturale di chi ascolta la battuta (per esempio possedere un’indole timida). Quando invece l’ostacolo da superare è di natura esterna, si parla di tutti quei caratteri convenzionali assunti dalla società durante un determinato momento storico: essi si riferiscono al senso del pudore, alla morale, e a tutta la gamma di tabù a cui sarebbe meglio non riferirsi in determinate circostanze (magari non in pubblico!).

Per soddisfare determinati desideri e oltrepassare questi ostacoli l’uomo ha inventato un meccanismo efficace chiamato il Motto di Spirito Tendenzioso e questo può essere di natura ostile o oscena a seconda del desiderio che riesce ad esprimere.

Nel motto ostile l’essere umano diviene capace di soddisfare une delle pulsioni più primitive e profonde della sua costellazione psichica, quella ostilità brutale a cui ha dovuto rinunciare durante le ancestrali fasi di assestamento del contratto sociale tra individui. Grazie all’invettiva verbale (alla parolaccia) possiamo quindi trovare finalmente uno sfogo esterno.

Nel motto osceno è l’impulso sessuale a trovare lo spazio per fuoriuscire all’esterno, veicolato da una battuta sconcia, da un’osservazione oscena, o da un’allusione sessuale. Trova finalmente soddisfazione l’impulso sessuale represso dalla società contemporanea, che Freud chiama soddisfazione libidica primaria e che traduce poi come «sessualità bruta»: la società condanna la sessualità bruta, oscena, animale, per le stesse ragioni per cui vieta l’ostilità. La storia della specie umana ha visto consolidarsi, ad un certo punto del suo sviluppo, quella forma di contratto sociale del vivere comune che ha reso possibile l’inizio della civiltà così come la conosciamo. Adesso, come in un sogno, quei fenomeni banditi dal nucleo sociale tornano ad infastidire la coscienza dell’individuo, luogo, questo, che in realtà non hanno mai abbandonato del tutto. Il riferimento al sogno, poi, non è casuale: sia la battuta che il sogno godono infatti di meccanismi di azione del tutto simili (Freud, 1905).

Totem, tabù e catarsi

Abbiamo apparentemente trovato una spiegazione all’oscenità e all’ostilità delle battute comiche. Esse fanno ridere perché permettono «l’espressione di qualcosa che non dovrebbe essere espresso».

Ma torniamo adesso alla barzelletta “The Aristocats”: quale è lo scopo della battuta più oscena del mondo?

Per rispondere alla domanda è necessario ricercare quali elementi effettivi rendono questa battuta la più sporca battuta del mondo: occorre, quindi, indagare il tema dei tabù come norme sociali atte a limitare le azioni del cittadino rispetto a determinate circostanze. Come scrive Freud (1905) esistono degli ostacoli -interni ed esterni- che impediscono la produzione della risata in determinate circostanze: nel nostro esempio è facile identificare tali ostacoli come una serie di tabù sociali. La barzelletta “The Arisocrats”, infatti, spesso fa ampio ricorso ad immagini oscene e grottesche che spaziano dal sadismo, all’incesto, fino a toccare temi come necrofilia, coprofagia e zoofilia.

Cosa sono, quindi, i tabù? Il termine deriva dalla lingua polinesiana, e viene descritto dal celebre antropologo James Frazer (1911) come uno dei rari casi di parola presa in prestito dalla lingua dei primitivi come riferimento al divieto morale, etico, sociale e religioso di mettere in atto determinati comportamenti:

«Il Tabù […] ha contribuito in larga misura, sotto molti differenti nomi e sotto molti differenti dettagli, a costruire la complessa fabbrica della società in tutti i suoi vari aspetti ed elementi, che noi descriviamo come religione e società».

Ad essere sottoposti a precisi divieti e regolamentazioni sono sia persone fisiche -come re, governatori, soldati, schiavi, sacerdoti, donne, cacciatori e individui in lutto- sia diversi comportamenti quali il mangiare e il bere, il vestirsi, l’economia domestica della casa, il radersi la barba, l’approcciarsi con uno sconosciuto.

Aggiungerà Frazer nel capitolo V (Frazer, 1911) che l’importanza del tabù è finalizzato -da una parte- alla difesa di coloro esposti al pericolo, e -dall’altra- a limitare l’azione di coloro definiti pericolosi. Il «pericolo» va inteso in senso spirituale: soggetti come re, preti e governatori, come anche «omicidi, donne gravide, cacciatori e pescatori, ragazze in pubertà» (Frazer, 1911) sono tutti potenziali vittime -o potenziali trasmettitori- di questo tipo di pericolo spirituale. Il tabù, come legge e divieto, funge da «isolante elettrico» protettivo per evitare che le forze spirituali di questi determinati individui vengano trasmesse al resto dei cittadini della collettività.

Nell’opera “Totem e Tabù” (1913) Freud descrive il termine come «una serie di restrizioni alle quali questi popoli primitivi si sottopongono […] essi non sanno perché, ne viene loro in mente di porre una domanda; si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima» (Freud, 1913).

Tali tabù nascono dal fondo di credenze spirituali primitive, legate alla paura dell’uomo verso potenze demoniache nascoste dietro l’oggetto tabù, ma in seguito se ne distaccano e, diventando indipendenti dal demonismo, si ritrovano imposte dal costume, dalla tradizione e dalla legge di un popolo. Dal tabù nasce la coscienza morale, come una forma di coscienza assoluta, interna, «assolutamente certa di sé medesima» che esprime «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi» (Freud, 1913).

Le prime forme di tabù all’interno dei nuclei sociali si sviluppano su due versati specifici: «non uccidere il padre della comunità (il Totem)» e «non avere rapporti sessuali con i membri del nucleo totemico». Questo secondo divieto, il tabù dell’incesto, sarà alla base del passaggio da una forma di società del tipo orda primordiale ad una di tipo sociale, chiamata “fratrie” (Freud, 1913): non avere rapporti sessuali con i membri della propria unità totemica (e non solo con la propria madre o sorella) porta al consolidarsi dell’esogamia, caratteristica che spinge l’appartenente di una tribù a stringere legami sessuali solo al di fuori della sua stessa comunità, creando le istituzioni sociali dei clan totemici, sotto-fratrie e fratrie.

Oltre a ciò, l’orrore dell’incesto è alla base di tutta una serie di leggi, divieti e tabù, ancora osservabili presso popolazioni lontane e ancestrali: come scriverà Freud «i popoli selvaggi sentono ancora i desideri incestuosi dell’uomo – destinati a cadere in seguito nella sfera dell’inconscio- come una minaccia incombente da cui difendersi con l’adozione di regole improntate al massimo rigore».

Alla luce di quanto evidenziato, è facile adesso analizzare perché “The Aristocrats” sia la battuta più sporca del mondo: il comico che descrive la scena non solo espone pubblicamente un tema inviolabile e sacro, ma lo denuda rendendolo plateale nei suoi minimi dettagli, evocando reazioni dal pubblico che possono arrivare a registrare forti risposte fisiologiche. Come testimonierà Phillis Dyller «ho sentito la battuta, ma non ricordo cosa ci fosse di così sbagliato. Mi ricordo solo di essere svenuta» (Penn Jillette, 2005).

Le ragioni, la risata e l’ambivalenza emotiva

Torniamo ora alla domanda iniziale, cioè quale possa essere stato lo scopo del monologo “The Aristocrats” e poniamoci un’altra domanda: come è possibile far ridere un pubblico che due settimane prima a poco più di 12 chilometri di distanza dal Friars’Club (siamo sulla 55th avenue nel cuore di Manhattan), aveva assistito incolume allo shock dell’attentato alle Torri Gemelle?

Il comico abbiamo detto essere un manipolatore dell’ostacolo freudiano. Abbiamo poi chiamato questo ostacolo tabù e abbiamo analizzato la sua importanza per la nascita delle prime forme di civiltà umana. L’oggetto tabù (il recente attacco alle Torri Gemelle) sappiamo quanto evochi nei cittadini un reverente stato di rispetto, timore e obbedienza civile. Ebbene: se il pubblico nega al comico la possibilità di giocare col loro ostacolo -ancora troppo sacro forse per permetterne una manipolazione scherzosa- cosa gli rimane da fare?

La risposta più semplice -forse- è abbandonare quello specifico tabù: come abbiamo fatto notare, quando il comico inizia il suo monologo ed evoca il tema dell’11 settembre, la battuta non funziona. «Too soon!» gli urlano dalla platea. E infatti Gottfried dal palco non toccherà più quell’oggetto demoniaco nel suo monologo.

Ma il fatto interessante è un altro: infatti alla scelta di abbandonare il tema tabù dell’attacco alle Torri Gemelle, segue, da parte del comico, la decisione di recitare il monologo più dissacrante del mondo. È come se il comico, dopo aver ceduto di fronte alla necessità del pubblico di avere uno spazio di sacro rispetto e inviolabilità, facesse pagare a caro prezzo questo compromesso. Egli affida alla barzelletta più sporca del mondo il compito di svelare a tutti i presenti il nucleo della coscienza morale collettiva insita in ognuno di noi; utilizza questa battuta per esporre e manipolare in pubblico non uno ma tutti i principali tabù della società occidentale, cristallizzati nei diversi “imperativi categorici” (Freud, 1905) chiamati in causa e dissacrati dai personaggi descritti dalla barzelletta.

Per capire le ragioni di questo gesto possiamo fare affidamento sul concetto di ambivalenza emotiva. Secondo Freud, tanto più energico è il divieto espresso dal tabù verso determinate azioni, tanto maggiore sarà stata in origine la volontà di compiere quelle stesse azioni: infatti “non c’è bisogno di proibire ciò che nessuno vuole fare, e comunque ciò che è proibito nella maniera più energica deve essere oggetto di intenso desiderio” (Freud, 1913). Questo descrive il rapporto di ambivalenza emotiva dell’individuo verso l’azione tabù: «egli vuole sempre eseguire questa azione -toccare l’oggetto- […] e al tempo stesso ne ha orrore».

Come abbiamo detto, Freud (1913) definisce la coscienza morale -nata dal tabù- come: «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi». Anche in questo caso, quindi, la coscienza morale si fonda su un rapporto ambivalente di elementi in apparente contrasto, rappresentati da un lato da una sensazione di riprovazione, e dall’altro da un impulso di desiderio vietato e interdetto.

Ogni atto che sfida la coscienza morale collettiva è destinato a fare i conti con questa ambivalenza tra proibizione e desiderio: da una parte, una tale sfida tenderà necessariamente ad evocare una forte “sensazione di riprovazione” verso determinati temi vietati e scottanti; e dall’altra parte, risveglierà quegli “impulsi di desiderio” presenti nell’ascoltatore, che resero necessaria l’imposizione di un tale divieto all’alba dei tempi.

Alla luce di ciò, è facile immaginare lo scopo della sfida proposto dai comici come George Carling e Gilbert Gottfried: essi giocano in una zona grigia, consapevoli dell’ambivalenza emotiva che ci lega ai nostri stessi divieti, che rispettiamo e che difendiamo pubblicamente, ma da cui non ci sentiamo mai pienamente affrancati. I comici toccano l’oggetto tabù, «che non potrebbe essere toccato» (Freud, 1913), per illuminare parti ancora in ombra dei meccanismi sociali che regolano il vivere comune, attraverso una riflessione collettiva che sveli i paradossi e le strutture convenzionali che ci governano e che diamo per scontato.

Come i “primitivi” studiati da Frazer, oggigiorno anche le persone comuni “si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima” (Freud, 1913). Sia per quanto riguarda le 70 parole vietate di Carling, sia per la sfilata di tabù dissacrati di Gottfried, il comico gioca con il divieto presentandolo allo spettatore sotto una nuova luce.

Le conseguenze per una persona che tocca il tabù, nelle popolazioni studiate da Frazer, sono molto dure e spaziano dall’allontanamento dalla società fino alla condanna a morte: purtroppo questo si presenta oggigiorno come un ulteriore parallelismo, che caratterizza il triste destino di molti artisti alle prese con la manipolazione di un oggetto proibito.

 

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