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La funzione risoggettivante

Un articolo sulla funzione risoggettivante che tenta di rispondere alla domanda: è possibile parlare col paziente di ciò che rende interminabile l'analisi?

Di Claudio Nudi

Pubblicato il 23 Mag. 2022

Aggiornato il 25 Mag. 2022 09:27

Alcune modalità primitive di deflessione dell’angoscia fondate sull’attacco al legame e fenomenologie correlate di transfert antilibidico perverso: la funzione risoggettivante.

 

Sommario

La prima parte del presente lavoro tenta di raccogliere e commentare alcuni dei principali tipi di transfert considerati in linea di principio intrattabili o difficilmente trattabili, definiti come “antilibidici” ovvero “perversi” in quanto inconclusivi e deneganti l’Oggetto e con esso la figura dell’analista ed i suoi apporti, con particolare riferimento al problema della difficile conclusione del trattamento.

L’Autore tenta di unificare e connettere una serie di relazioni causali con i loro possibili sviluppi in una prospettiva interpretativa, ma anche in qualche modo predittiva, sebbene ancora embrionale.

Particolare attenzione è dedicata alla distinzione tra gli aspetti fenomenologico/descrittivi e quelli che sembrano rappresentare il vero tessuto profondo del problema, anche ricorrendo ad esempi clinici adatti ad un tentativo di tipizzazione.

Nella seconda parte viene proposto un approccio terapeutico atto a focalizzare il lavoro della coppia analitica sui movimenti specifici di “de-soggettualizzazione” e “de-oggettualizzazione” che caratterizzano tali situazioni, e si tenta di rispondere alla domanda: “E’ possibile parlare con il nostro paziente dei motivi che rendono impossibile la sua analisi?”

In tale contesto viene proposto di concettualizzare ed isolare una specifica funzione, definita “risoggettualizzante”, che comprende tutti gli interventi atti ad evidenziare il significato e le modalità con cui le parti scisse dell’ Io del paziente si oppongono attivamente alla vicinanza, per quanto riguarda la capacità di accettare la presenza mutativa di un oggetto-terzo con cui sviluppare una relazione non distruttiva o distrutta,  e la separazione, per quanto riguarda la capacità di tollerare la perdita dello stesso oggetto, finalmente concepito come altro avendo avuto accesso alla posizione depressiva.

Parole-chiave: Transfert, anti-libidico,  transfert perverso, attacco al legame, de-oggettualizzazione, de-soggettualizzazione,  separazione, analisi interminabile.

Introduzione

Nella prima parte del presente lavoro ho inteso raggruppare e commentare alcune delle principali tipologie di transfert considerate in linea di principio analiticamente difficilmente trattabili, da alcuni definite “anti – libidiche” o tout court “perverse”, in quanto inconclusive e deneganti l’oggetto, e, con esso, anche la figura del  terapeuta ed i suoi apporti.

Perfettamente consapevole di quanto possa essere lacunosa ed imprecisa una tipizzazione del genere, mi è sembrato tuttavia utile contribuire a fare il punto su quanto già conosciamo dell’argomento e tentare, a partire dallo studio della letteratura nonché dall’esperienza personale e quella di altri colleghi, di ricapitolare e connettere una serie di rapporti causali con i loro possibili sviluppi in una prospettiva interpretativa, ma anche in qualche modo predittiva, sia pure a livello ancora del tutto embrionale. Particolare attenzione ho voluto dedicare alla distinzione tra gli aspetti fenomenologico – descrittivi e quella che mi è apparsa invece la vera trama profonda del problema, anche ricorrendo ad alcuni esempi che per la loro non – eccezionalità meglio si prestavano ad un tentativo del genere.

Nella seconda parte cercherò invece di delineare un atteggiamento terapeutico volto a focalizzare il dialogo della coppia analitica sugli aspetti specifici di de-soggettualizzazione e/o de-oggettualizzazione che sembrano essere le chiavi di lettura di questi percorsi. La domanda cui tenterò di rispondere è la seguente: “È possibile parlare con il nostro paziente degli aspetti che rendono impossibile (ovvero interminabile) la sua analisi?”

Spero che questo modesto tentativo possa contribuire in qualche misura ad una migliore comprensione  dell’argomento, a mio avviso fondamentale per gli sviluppi futuri della nostra scienza e professionalità, e ad implementarne il dibattito. Spero altresì di sollecitare in questa direzione l’attenzione degli studenti e dei neofiti, aiutandoli in qualche modo a riconoscere per tempo alcune tra le situazioni più spinose e problematiche del nostro lavoro. La seconda parte del contributo, per forza di cose, è principalmente rivolta ai colleghi più esperti.

Definizione del problema

Nella letteratura concernente la terapia di casi difficilmente analizzabili sono ricorrenti le tematiche della  conclusione, sempre così asintotica e problematica, oltreché naturalmente degli esiti, spesso tutt’altro che attendibili, di questi trattamenti. La constatazione è indubbiamente vera, il problema sussiste ed ha una sua  pesante ricaduta sulla fiducia dei pazienti, sullo stress dei terapeuti e sulla rappresentazione collettiva della figura dello psicoterapeuta e dello psicoanalista, i quali logicamente, dal loro punto di vista, si pongono  il  problema di ben condurre e portare a buon fine il proprio compito. Tuttavia, al cospetto di problemi talmente  delicati ed importanti, io credo che dovremmo permetterci una riflessione di ordine più generale, rappresentabile come segue: a) In questi casi così complessi, il problema reale è davvero quello della conclusione del trattamento (e, più latamente, della terminabilità stessa dell’analisi), o non piuttosto quello della sua effettiva efficacia? La questione può essere approfondita, ed assumere la seguente forma: b) Se il concludere in queste situazioni è così difficile, cosa non siamo ancora riusciti a modificare nell’intimo dei nostri pazienti? Da ciò consegue una ulteriore domanda: c) Ciò che non siamo riusciti a modificare è davvero in sé inamovibile, o la sua apparente inamovibilità è dovuta ad una qualche nostra forma di cecità? E se quest’ultima ipotesi è vera, il ragionamento ci porta ad un’ultima questione, inevitabilmente anche in qualche misura provocativa: d) Tale cecità va addebitata ad una pura insufficienza della teoria o della tecnica, o non piuttosto ad una nostra visione unidirezionale e talvolta “perversa” di queste ultime?

Esposizione del problema

Le personalità che stiamo per prendere in esame, pur nelle loro diversità epifenomeniche, hanno fondamentali tratti profondi in comune. Tutte soffrono di un rapporto con l’oggetto interno severamente disturbato, governato da una profondissima invidia che determina per un verso una radicale sfiducia nell’esterno vissuto come persecutorio, e d’altro canto l’incostanza di qualunque forma di autostima, essendo danneggiate in maniera più o meno grave le strutture  primarie che danno l’impulso a vivere ed a relazionarsi. Nei casi in esame, queste parti difettuali rimangono celate, ed a lato di queste l’Io costruisce nel tempo una serie di strutture compensatorie che consentono al soggetto di vivere in apparenza normalmente e di avere una serie di rapporti apparentemente soddisfacenti, e, molto più spesso di quanto comunemente non si creda, anche di un certo successo, pur essendo sostanzialmente fittizi. Su un piano dinamico profondo, infatti, è negata ogni forma di separatezza, poiché nel passaggio verso la posizione depressiva la condizione di alterità si è evidentemente rivelata insostenibile. Il soggetto permane pertanto in una situazione di scissione autoerotica totipotente di refusione materna che difende strenuamente, e dalla quale l’oggetto/altro è bandito e rimpiazzato attraverso un feticcio. Sul piano transferale, ma prima ancora su quello umano e quotidiano, pertanto, il problema di questi pazienti è quello di evitare in ogni modo possibile una vicinanza “vera” che possa in qualche modo  modificare questo antico (dis -) equilibrio attraverso un rapporto mutativo con un oggetto – altro. In questa ottica, nel presente lavoro prenderemo dunque in considerazione cinque tipi di transfert, definibili, in una concezione allargata e non solo inerente la sessualità, come  “perversi”, e precisamente:

  • Transfert ostile/ antilibidico
  • Transfert  “osservativo”
  • Transfert dubbioso/confusivo
  • Transfert fondato sulla “dispersione dei sentimenti”
  • Transfert fondato sulle distorsioni del  Sé.

Il transfert Ostile/Antilibidico

Vorrei anzitutto prendere in esame questa configurazione transferale perché, a mio parere, essa esemplifica, comprende e sottende in qualche modo tutte le altre che seguiranno. Mi riferisco ad un tipo di atteggiamento pervicacemente ostile in pazienti peraltro assai tenacemente attaccati al terapeuta, che portano in seduta solo la rabbia, la lamentela e la recriminazione. Nella lunga e sempre complessa ricostruzione dei loro vissuti, queste persone si descrivono rapportarsi all’altro (che peraltro frequentano, spesso anche con apparente naturalezza) costantemente con riserva e sempre in attesa di disillusioni ed aggressioni, nel proprio intimo svalutandolo e aggredendolo ogni volta spietatamente. Specularmente, è sempre presente l’idea di essere perseguitati da un destino maligno ed avverso insieme ad un’autopercezione di piccolezza, indegnità ed impotenza, contrapposte a figure idealizzate onnipotenti e  irraggiungibili, e come tali odiate e pericolosissime, tra le quali viene naturalmente collocata in maniera più o meno evidente anche quella del terapeuta. La parte cosciente di questo complesso di sentimenti costituisce la fonte di maggior sofferenza da parte del paziente, e pertanto dovrà essere accolta con estrema attenzione e delicatezza in quanto rappresentante attuale di  precocissimi conflitti con figure genitoriali vissute come profondamente distanti, ostili e contraddittorie, odiate ma al contempo idealizzate. In ragione della qualità delle esperienze patite, delle fantasie su queste costruite, e delle circostanze contingenti, l’unica forma di espressione possibile da parte di questi soggetti è pertanto un interminabile “J’accuse” nei confronti delle figure significative, cui esibire continuamente la propria sofferenza ed i propri fallimenti, conseguenza del loro comportamento sbagliato e crudele di genitori incapaci. L’esperienza del dolore e della rabbia cosciente, tuttavia, non costituisce qui l’essenza ultima del problema, che invece si sustanzia e rivela piuttosto nel circulo vitioso che proprio per le sue caratteristiche intrinseche condanna il paziente ad una intima inflessibile conflittualità con i propri oggetti interni, e pertanto ad una sofferenza senza fine, in cui persino i successi vengono vissuti in chiave di rivendicazione maniacale di disprezzo, trionfo e dominio. Dal punto di vista del terapeuta si tratta sempre di un lavoro lungo e talora sfibrante, in cui il silenzio empatico non basta, e dove l’esortazione, la rassicurazione o, peggio, l’apologo ottengono effetti esattamente opposti a quelli desiderati, mentre il paziente rivendica a gran voce il suo diritto al dolore ed alla lamentela e ci rimprovera di essere incomprensivi e ipocriti, di tacere, di non averlo ancora  “guarito” e così via. Nel corso del tempo sono venuto a conoscenza di molte situazioni in cui il problema  è stato affrontato in termini di resistenza e come tale interpretato o “confrontato” al  paziente. L’unico risultato che in tal modo si è ottenuto è stato quello di farlo sentire profondamente incompreso, ancor più malato e sbagliato, e dal suo punto di vista assolutamente a ragione, giacché in tal modo è stata completamente fraintesa quella che era la sua vera “domanda”, e si è perso completamente di vista il fatto che il soggetto con questo tipo di problema è intrappolato in ungioco perverso la cui posta, del tutto inconsapevolmente, è proprio la ratifica dell’incompetenza del terapeuta (così come, originariamente, dei genitori) che gli consentirebbe di trionfare passivamente anche su di lui, inverando con ciò la sua “coazione di destino”. L’esperienza mi ha insegnato anche che, sia che si affronti direttamente il problema, sia che si adotti una linea attendista di puro ascolto empatico, è comunque sempre necessario molto tempo, a volte moltissimo, perché il discorso possa essere compreso a fondo, e con ciò sottrarsi alla tirannia del paradosso che lo governa per orientarsi in direzioni più proficue; e questo perché il soggetto ha appreso ad appagarsi (né d’altro canto avrebbe potuto fare diversamente) del beneficio, del tutto temporaneo ed ingannevole, dell’evacuazione della rabbia originaria proiettata sulle figure significative, ed oggi sul terapeuta.

Tra le tante modalità espressive di questo sentimento così dannoso assume particolare rilievo per il nostro tema la  c.d. “Sindrome di Penelope”, forse la più evidente tra le diverse manifestazioni dell’ostilità rigettante inconscia nei confronti dell’oggetto, ove il paziente distrugge ogni volta, di seduta in seduta, le nuove acquisizioni, quasi che gli fosse impossibile conservarle e renderle operanti, ovvero si rifiutasse di tenerne conto, ricominciando ogni volta da  capo.

Dopo diversi anni di lenta e faticosissima analisi, una paziente di circa cinquant’anni, al termine di una lunga  catena associativa osservò che il senso complessivo della prima parte della seduta poteva riassumersi in un  semplice “tanto non mi cambi”. Le dissi che anche io avevo colto lo stesso messaggio e le sottolineai garbatamente il problema senza aggiungere altro. L’argomento rimase sullo sfondo per diverse sedute, ed io mi limitai a sfiorarlo, in maniera attentamente non provocativa, quando il discorso lo consentiva, finché fu lei stessa a riprenderlo perché “voleva capirlo meglio”; e solo da quel momento in poi poté iniziare, assai lentamente, ad oggettivare questo suo aspetto ferocemente oppositivo ed immobilizzante, riattivando una serie di connessioni che precedentemente aveva colto più volte ma che non era mai riuscita ad utilizzare.

Rimanendo ancora nell’ambito del transfert ostile, una nota a parte, a mio parere, meritano quei soggetti che in seduta si lamentano con particolare accanimento di qualcuno (partner, figure parentali, colleghi, personaggi significativi del presente o anche del passato), ritenuto causa agente di tutti i loro problemi o malesseri. Nella mia esperienza, molte di queste situazioni traggono in inganno lo psicologo di primo livello e lo inducono a prescrizioni di terapie sistemico – relazionali del tutto inutili nei casi in oggetto, giacché il problema non è affatto quello che il paziente crede e vorrebbe farci credere, ma attiene piuttosto al tema qui in discussione, nel caso specifico complicato da un sovrapporsi di operazioni proiettive e di spostamento che non possono certo essere ridotte senza un’attenta ed approfondita analisi del transfert. Direi, anzi, che in circostanze del genere ci si offre l’opportunità di un importante differenziale patognomonico: in situazioni meno severe, di norma, dopo un periodo di ambientazione (e comunque sempre dopo essere stato attentamente ascoltato nelle sue lagnanze), il paziente riesce, sia pure con difficoltà, a convincersi che il vero motivo dell’incontrarsi non è una terapia di coppia o familiare in assenza delle controparti, e/o che il terapeuta non è un avvocato matrimonialista né un esperto in questioni lavorative o sindacali. Quando invece sembra che sia incapace a comprenderlo, e osserviamo ripresentarsi tali argomenti “evasivi” in coincidenza con temi per lui particolarmente implicanti e dolorosi, legittimamente dovremo pensare alle prime manifestazioni di una ben più complessa e strisciante reazione terapeutica negativa, e conseguentemente disporci ad affrontarla attraverso un’approfondita analisi del transfert. Se questa operazione riesce, nel corso del tempo il soggetto potrà iniziare – assai gradatamente – ad oscillare tra momenti in cui ancora prevalgono le parti scisse distruttive ed altri di relativa consapevolezza e talvolta persino di grata partecipazione, che ci segnalano il progressivo svincolarsi di elementi costruttivi dalla trappola dell’invidia. Sarà dunque in questi momenti più facile intervenire, mostrando al paziente i suoi differenti stati d’animo e consentendogli di riconoscere finalmente il suo funzionamento scisso, anche riconnettendolo alla sua storia personale.

Il Transfert Osservativo

Il Transfert Osservativo, che giustamente altri colleghi hanno paragonato ad una situazione di “supervisione” in cui la parte sana dell’Io si lega affettivamente al terapeuta mentre la parte scissa vi si sottrae rendendosi inanalizzabile attraverso l’intenzione profonda non di curare la parte malata, ma piuttosto di apprendere come gestirla ma con l’intima riserva di non dovervi rinunciare.

Questa configurazione evoca tipicamente la perversione sessuale, in particolare esibizionistico/ voyeurista, dove il piacere alimenta ed incoraggia la scissione escludendo l’incontro, evento temibile che sarebbe qui errato riferire all’angoscia di castrazione essendo invece imputabile principalmente alla negazione dell’oggetto – altro.

Da poco avevo accolto un paziente che aveva visto troncata la propria analisi a causa della morte improvvisa del terapeuta. Ciò che lo aveva convinto a riprendere il lavoro analitico era stato un sogno, avuto circa sei mesi dopo la drammatica interruzione, in cui si alzava da un letto su cui vedeva giacere un uomo nudo, morto, e frettolosamente si rivestiva per andarsene. Gli era stato subito chiaro che il morto era il suo analista, ed immediatamente si domandò il perché di quella rappresentazione così particolare. Cosa non era andato per il giusto verso nella loro relazione? Cosa faceva in quel letto, invece di analizzare? La cosa non lo convinceva affatto, e fu con questa domanda che si presentò al mio studio.

Personalmente, ritengo utile qui operare una ulteriore distinzione. Esistono persone ormai incallite nei loro contorti percorsi libidici profondi, i quali “giocano” con le loro perversioni in perfetta egosintonìa, le esibiscono con naturalezza e quasi le propongono al terapeuta, ed altri che invece le subiscono e sinceramente si dolgono di non riuscire a farne a meno. La differenza, anche dal punto di vista dell’aspettativa dei risultati, non è di poco conto.

Un mio paziente, anche lui sulla cinquantina, aveva avuto un percorso terapeutico alquanto complesso e discontinuo, e in più di un’occasione si era lamentato del fatto che i suoi precedenti analisti, arrivati ad un certo punto, “non erano stati in grado di indicargli la via”. Nella sua sofferta narrazione, peraltro puntuale ed onesta, raccontava di averli “provati un po’ tutti”: a suo dire, alcuni continuavano a riproporgli l’Edipo e l’angoscia di castrazione, mentre altri sembravano inerti e privi di strumenti di fronte alla sua depressione ed alle sue perversioni, sessuali e non. Si sentiva umiliato ed incurabile, e soprattutto incompreso nella sua volontà di  capire il problema e tentare di risolverlo, e non riusciva ad accettare l’idea che nessuno riuscisse ad indicargli, come diceva lui, “da che parte guardare”. Dopo diversi anni di lavoro, poiché lui stesso più volte aveva accennato ad una ricorrente percezione di non completa partecipazione alle cose, ed ad una sua peculiare forma di vergogna corporea accompagnata da un sottile “pudore dei sentimenti” che sperimentava in segreto con se stesso fin da bambino, gli proposi di indagare insieme su questi aspetti evitando di ricorrere a teoremi e definizioni già note. Dopo alcuni mesi avevamo raccolto una quantità di informazioni preziose, e fu lui stesso, ad un certo punto, a rendersi conto che, aldilà di tutti i suoi sinceri sforzi intellettuali, recava  in sé una profondissima riserva, una sempre vigile incapacità all’abbandonarsi, una ”distanza” che gli impediva una  piena alleanza terapeutica, e ciò gli consentì di osservarla e discuterla come essenza centrale, tragica, del suo problema.

Il Transfert Dubbioso/Confusivo

Il dubbio cronico, così come anche la confusione nel pensare e nell’esporre, costituiscono forme negate di aggressività distruttiva nei confronti di un oggetto primario percepito come inattendibile e crudele. La rabbia scissa è qui celata sotto le spoglie dell’incertezza, dove oggetto e soggetto vengono alternatamente incolpati ed assolti, distrutti e recuperati in una rimuginazione infinita che non  consente di pervenire ad un pensiero  chiaro e ad un’opinione certa e definitiva su questioni emotivamente e/o affettivamente significative, situazione che tende a contaminare tutto il vissuto ed è potenzialmente in grado di mutilare un’intera esistenza.

Una giovane donna proviene da una famiglia rigidamente gestita da una madre descritta da più parti come “un  carabiniere”, che a vent’anni ancora la “mette in punizione” e decide delle sue scelte in maniera inappellabile. Il padre è persona tutto sommato debole, e nella famiglia svolge un ruolo di puro procacciatore di risorse. Dopo un corso di studi superiori, la giovane inizia l’Università e conosce un uomo di sette anni più grande ma ancora senza un lavoro definito con cui intraprende una relazione assai intensa, ferocemente osteggiata dalla famiglia. In un primo tempo il rapporto sembra fiorire, ed in questo periodo la ragazza ha la prima esperienza  sessuale completa, e trova la forza per contrapporsi ai diversi ostacoli e divieti imposti dalla madre con la connivenza e la partecipazione del marito e dell’altro figlio; ma dopo un paio d’anni la spinta individuativa si esaurisce e il malessere tracima nella relazione iniziando a minarla mettendo in dubbio lo stesso sentimento. I rapporti sessuali si rarefanno o, quando hanno luogo, lei sostiene di “non sentire nulla”, anche se i due sembrano comunque ancora legati da un grande  affetto. A questo punto, però, il partner di lei commette un gravissimo errore: pur innamorato, ma esasperato da una relazione divenuta penosa e insoddisfacente, tradisce la donna e glielo confessa, sottraendole così l’unico punto certo cui aggrapparsi. Lei progressivamente vira sull’immagine idealizzata di un altro uomo “più nobile, più alto e più magro”, ed inizia a tradirlo a sua volta. La relazione nonostante tutto ancora non si estingue, ed alla fine i due addirittura si sposano. Lei cerca l’aiuto di un professionista, ma ben presto il dubbio si insinua anche lì, e la terapia viene interrotta. Un secondo tentativo con un clinico più esperto, ma probabilmente giunto troppo in ritardo, non riesce ad incidere più di tanto sulla comprensione del vero problema. La giovane abortisce per cinque volte nel corso di ben diciassette anni di relazione, di cui sette di matrimonio. Dopo ancora qualche anno i due si lasciano nella più completa reciproca incomprensione. A diversi anni di distanza ho avuto indirettamente notizie di questa persona: per quanto mi è stato dato sapere, ha avuto diversi partner ma non si è più sposata, non ha avuto figli e non ha nemmeno finito l’Università. Lui è diventato un professionista di riconosciuto valore.

Nel transfert, l’atteggiamento descritto si traduce in una sorta di silenziosa, corrosiva ed ingravescente intima riserva che impedisce la piena e fiduciosa adesione al progetto terapeutico e lo mina dall’interno in tutti i modi possibili, giacché il paziente cerca più un punto di vista certo e rassicurante, talora una vera e propria “assoluzione”, che non l’elaborazione del suo tema centrale. Nella mia esperienza, diversamente da altri tipi di transfert perverso che hanno bisogno di molto tempo per evidenziarsi e maturare, tale atteggiamento dovrebbe essere colto il più precocemente possibile per non dare il tempo a questo vero e proprio “sabotatore interno” di fare proseliti tra le parti sane dell’Io. Aldilà di questa precisazione puramente “strategica”, comunque, anche in questo caso come negli altri qui riassunti la questione non si esaurisce di certo liquidandola come resistenza, bensì problematicizzandola, esponendo cioè con chiarezza la situazione al paziente in maniera attiva e creativa, e chiedendo la sua partecipazione nel farsene carico e nel venirne a capo, a pena della non riuscita della terapia; mentre d’altro canto la consapevolezza da parte del paziente che il terapeuta ha colto la vera essenza del problema contribuirà a ripristinarne almeno in parte la fiducia. Io chiamo questo particolare aspetto della mia attività terapeutica, di cui peraltro mi avvalgo esclusivamente nei  casi in oggetto, e che adatto di volta in volta alla situazione obiettiva, “funzione  risoggettivante”,  argomento su cui riferirò meglio più avanti.

Il Transfert Promiscuo

Il transfert promiscuo è da taluno definito, a mio parere inesaustivamente, “di fuga”, fondato sulla continua  sostituzione dell’oggetto e sulla “dispersione dei sentimenti”. L’incostanza e la mutevolezza degli attaccamenti rende questo tipo di paziente difficilmente trattabile, giacché la sua personalissima coazione a ripetere consiste proprio nel distruggere ogni potenziale legame significativo prima che possa consolidarsi come tale. Nella storia di queste personalità è quasi sempre possibile rinvenire severe delusioni subìte precocemente da parte di genitori percepiti come indifferenti e più o meno inconsciamente sadici, tali da indurre il bambino a non affidarsi ed a non dipendere mai più da nessuno.

Una giovane e piacevole signora chiese il mio aiuto per una serie impressionante di fallimenti sentimentali. Viveva con un uomo ormai da parecchio tempo, ma dissapori ed incomprensioni iniziavano ormai a susseguirsi in maniera assai disturbante, sì da indurla a pensare di tornare a vivere da sola con la figlia. Iniziò a raccontare la sua storia, e ben presto si evidenziarono un padre completamente assente ed una conflittualità spietata con la madre, tale da indurla ad abbandonare la casa dei genitori all’età di quattordici anni. Aveva inizialmente vissuto di espedienti, ma dopo molti anni era finalmente riuscita ad approdare ad una condizione di relativo benessere aprendo una piccola attività: la vicenda sembrava dunque essersi finalmente risolta per il meglio, tranne per questi aspetti di inconcludenza ed insofferenza affettiva per i quali la signora era venuta in terapia e che le “distruggevano la vita”. Sembrava contenta di venire in seduta ed era spigliata e loquace, ma io percepivo che il suo raccontarsi aveva un che di sfuggente e sottilmente imprendibile, un che di distante che lasciava una sensazione come di “lavorare con la sabbia”, senza  riuscire a lasciare un segno stabile né un sedimentato del detto. Infastidito e preoccupato da questa sensazione così particolare e spiacevole, proposi la questione al mio supervisore di allora che mi suggerì di proporle di vederci con maggior frequenza per poterla seguire meglio in un momento talmente delicato della sua vita. Il provvedimento si rivelò ben presto un gravissimo errore. La reazione fu immediata, il clima delle sedute cambiò radicalmente e la donna si ritirò su posizioni esplicitamente difensive. Io stesso d’altro canto, all’epoca molto meno esperto, non trovai altra  soluzione se non quella di arroccarmi su argomentazioni tecniche, peggiorando ulteriormente le cose. Dopo altri due incontri la paziente mi avvertì che non sarebbe più venuta, cosa che infatti puntualmente accadde.

Avendo avuto in seguito più volte l’occasione di trattare situazioni simili, ed avendo sperimentato altre diverse  modalità di approccio, la mia netta impressione è che l’unico modo possibile per avvicinare questo tipo di  problematica sia esattamente l’opposto di quello che la tecnica generale raccomanderebbe – segnatamente, una cadenza più serrata delle sedute ed un particolare rigore nella gestione degli aspetti contenitivi del setting. E’ indubbiamente condivisibile che in situazioni meno severe ed in altri contesti storici e culturali certe logiche precauzioni possano o potessero raggiungere il loro scopo: di certo però, in questi casi, ed a maggior ragione in un tessuto socioculturale come quello attuale, in cui concetti quali “libertà” e “regola” sono interpretati in maniera talmente soggettiva e confusa, tali accorgimenti tecnici rischiano di ricalcare esattamente ciò che questo tipo di paziente teme di più, cioè essere ricondotto ed imprigionato all’interno di una situazione sadica e vessatoria, evocativa di quella dalla quale era riuscito a svincolarsi a prezzo di distorsioni e fratture interne dolorosissime. Per questi motivi mi sono convinto che l’unico modo possibile per approcciare questo tipo di personalità consista nell’offrire uno spazio espressivo in cui liberamente raccontarsi, sottoponendola al minor numero di condizioni possibile, senza peraltro fare “concessioni” che alterino la giusta asimmetria del rapporto, ma semplicemente adeguandosi alla situazione oggettiva, evitando di chiedere al paziente ciò che questi non è, almeno attualmente, in grado di dare. Il compito dell’analista in tali contigenze non si esaurisce tuttavia in queste misure precauzionali: se il paziente ce ne lascia il tempo, occorre essere pronti a cogliere i segni di un abbandono precoce della terapia (un sogno caratteristico di tali situazioni è la ripetuta rappresentazione di un litigio tra persone significative) interpretando il vissuto transferale in modalità insatura e chiarendone i risvolti anche in relazione alle prime vicende familiari del soggetto, e questo deve essere fatto al più presto e nella maniera più chiara e rassicurante possibile, con l’intendimento profondo di facilitare l’alleanza terapeutica ed evitando di mettere il paziente alle strette, assumendo piuttosto un atteggiamento “enzimatico” di riflessione e  poi di problematicizzazione.

Svalutazione del Sé / Falso Sé

Le reazioni transferali fondate sulle distorsioni del Sé sono a mio parere le più complesse e per certi versi le più interessanti e sorprendenti. Stupiscono e lasciano sovente “spiazzati” le modalità, a loro modo creative, con cui questi pazienti hanno appreso a proteggersi dalle irruzioni penetrative e violente delle persone per loro significative anche a costo di uscire temporaneamente fuori dai limiti del pensiero logico per poi rientrarvi con la massima naturalezza. Nell’esempio che segue si può ben cogliere il funzionamento scissionale del  soggetto, in questo caso singolarmente vicino al livello di coscienza.

Il paziente, un militare di circa quarant’anni, inviatomi da un collega psichiatra con una diagnosi di “personalità  infantile” con la puntualizzazione “non psicotica”, aveva subito in maniera annichilente il rapporto con il  padre, un uomo dalle idee chiare su tutto e che si era “fatto da sé” sotto ogni riguardo, soverchiando completamente  qualsiasi compensazione materna ed inducendo nel figlio un legame di rabbiosa quanto impotente sottomissione e dipendenza. In seduta, questo paziente tendeva ad esprimersi in terza persona, e solo dopo diversi anni aveva trovato il coraggio di farsi carico delle cose di cui parlava. La sua narrazione era tuttavia ancora elusiva, spersonalizzata e talvolta semidelirante: la sua infanzia era singolarmente ricca di  dimenticanze, di vuoti e di assenze, e lo stesso rapporto con la madre era stato completamente rimosso. Sorpreso nella prima giovinezza a masturbarsi, il ragazzino aveva strutturato la percezione di essere “immondo” (sic), ed un tale terrore del rimprovero paterno da inibirsi completamente qualsiasi tipo di rapporto  con l’altro sesso, tanto da essere ancora vergine alla sua età. Ma era andato ben oltre le pure faccende sessuali. Sentendosi – e ritengo a ragione – perennemente osservato e valutato a tutto campo dal padre, pur rendendosi perfettamente conto dell’illogicità di certe sue operazioni mentali, se da un lato lo aggrediva continuamente con domande reiterate sciocche e petulanti, dall’altro si “infilava nella sua mente” per carpire il segreto della sua forza, per ispirarsi a lui e per evitare i suoi terribili rimproveri anticipandone il pensiero. Infine, poiché doveva conciliare queste fantasie idealizzanti con la sua spaventosa angoscia di castrazione, si costringeva a pensare che il padre, come anche il sottoscritto,”veri uomini che non pensano a certe sciocchezze immorali”, non avessimo o non avessimo avuto una vita sessuale.

Quest’uomo aveva portato avanti sin da piccolissimo una sua silenziosa rivolta, ben esemplificata in un sogno di inizio analisi; anzi, era stato proprio in ragione di questo che avevo sperato in un esito positivo del trattamento. “Sono in  divisa, al cospetto del Presidente della Repubblica. Mentre lo guardo, intimorito, mi accorgo che i calzini che indossavo non erano d’ordinanza. Dovevo essermi sbagliato nel vestirmi per partecipare alla cerimonia”.

Nonostante le mie speranze, la rivolta, nata silenziosa, tale sarebbe rimasta ancora per lungo tempo, e, in barba a tutte le mie buone intenzioni, si sarebbe indirizzata anche contro il nostro lavoro sotto la forma di una negata, ostile e terrorizzata immobilità. Il paziente fingeva di non capire ciò che andavamo dicendo, ma, messo alle strette, ammetteva esplicitamente di aver capito perfettamente tutto e di star facendo, come diceva lui stesso, il “pesce in barile”. Ogni nuova acquisizione o scoperta veniva di volta in volta soffocata da fiumi di sintomi, e messa in discussione da contorsioni logiche al limite del delirante, della cui natura del tutto irrazionale il paziente si  dichiarava tuttavia perfettamente consapevole, rivendicandole al tempo stesso come “unica soluzione possibile”. Dopo diversi anni, approfittando del fatto che il padre gli aveva detto che il nostro lavoro lo aveva “molto migliorato”, cominciò ad accennare di voler concludere il trattamento, profondendosi in ringraziamenti per il mio aiuto e asserendo di essere “fermamente deciso ad abolire la sessualità dalla sua vita”, ma al contempo dichiarando con tranquilla naturalezza che sapeva benissimo che non era possibile e che quindi non ci sarebbe mai riuscito. Proprio alla fine di una seduta che pensavo sarebbe stata una delle ultime, ebbi un agito, e mi lasciai scappare un moto di stizza dicendogli: ”Ma Lei se ne frega proprio della ragione!” Mi guardò perplesso e fece un cenno di assenso con il capo, dopodiché se ne andò. La seduta successiva, sorprendentemente, il suo atteggiamento era mutato. La difesa stolida aveva ceduto, e il  paziente  iniziò a confidarmi i suoi reali timori e perplessità rispetto ad un eventuale cambiamento in maniera assai più ragionevole e concreta del consueto. La sua analisi è tuttora in corso… ma forse sarebbe meglio dire che è finalmente iniziata.

Devo confessare di essermi a lungo interrogato su questo caso, ed ancor oggi di non aver trovato una risposta  soddisfacente sul come avrei potuto diversamente, e con quali esiti, condurlo. L’impressione, chiarissima, è che le regole apparentemente complesse ma in realtà naturali e logicamente congruenti della teoria e della tecnica analitica fossero ogni volta aggirate da una parte di personalità rotta a tutte le strategie più mimetiche, e che sotto le spoglie di un’apparente stolidità agisse un acuto osservatore dotato di grande predittività tattica ed intelligenza che solo il mio involontario intervento di confrontazione, imprevedibile quanto violento, era riuscito a sorprendere, peraltro senza alcun merito specifico da parte del sottoscritto, ma in maniera una volta tanto significativa.

La “funzione risoggettivante”

È esperienza condivisa dalla collegialità psicoanalitica la constatazione della complessità, delicatezza ed aleatorietà implicita a percorsi terapeutici come quelli qui descritti, come già detto con particolare riguardo al tema della conclusione. Anche la stessa letteratura, di fronte a queste situazioni, si limita per lo più a rileggere  e descrivere, sin troppo spesso incorrendo in diligenti ricapitolazioni del noto in un’esegesi a volte assai raffinata ma che di rado riesce a suggerirci, se non altro in via ipotetica, qualcosa di più. Per tentare di chiarire queste difficoltà sono state chiamate in causa motivazioni diverse, dalla “debolezza” al “non – lavoro” dell’Io, tutte sostenute con  argomentazioni importanti e sottili che indubbiamente rappresentano un potente sforzo di comprensione. Tuttavia, il descrivere un fenomeno non conduce necessariamente a chiarire le personalissime ragioni del perché accada nella situazione data. Riprendendo quanto affermato in premessa al presente lavoro, a suo tempo mi sono chiesto invece se non fosse possibile, ed eventualmente in che modo, riattivare in funzione di pensiero le risorse del  paziente a favore del lavoro analitico.

L’origine di un tale interrogarsi risale all’inizio degli anni ’80, e nasce da una discussione con un mio supervisore di allora a proposito dell’interpretare o meno l’invidia primaria. Persona degnissima e di grande valore, egli sosteneva che l’invidia del paziente non dovesse essere interpretata, a pena di un’ulteriore implementazione di questa, con conseguenze catastrofiche sull’intero processo. Io obiettavo con forza che tuttavia un capitolo così ingombrante e potenzialmente immobilizzante del lavoro non poteva comunque essere lasciato all’intuizione del soggetto, e che una teorizzazione di tale importanza doveva invece essere indicata, spiegata e partecipata al paziente perché potesse avvalersene. La risposta fu che dovevo “decidere se fare il freudiano o il kleiniano”, il che, per inciso, contribuì non poco a ridimensionare, salutarmente, la mia idealizzazione giovanile della figura del didatta. Ho ritrovato situazioni analoghe assai spesso nel corso della vita: ogni volta sembrava che, in funzione dell’area di appartenenza, certi temi non potessero essere accolti e discussi, quasi fossero un tabù, e che seguire un filone di pensiero dovesse necessariamente escludere le scoperte dell’altro; e mi tornava continuamente alla memoria quell’affermazione straordinaria di Freud per la quale “ha diritto a chiamarsi psicoanalista chiunque lavori sul transfert e sulla resistenza, anche se arriva a risultati diversi dai miei”. Solo molto più tardi avrei compreso appieno quanto l’appartenenza possa pesare anche sulla riflessione scientifica, e quanto l’asseverazione ed il ribadimento delle certezze, o presunte tali, confluisca e diventi elemento  cementante il narcisismo secondario, entrando con ciò a far parte stabilmente del Sé adulto: un atteggiamento  certamente comprensibile e tutto sommato legittimo nelle questioni banali, ma che costituisce una formidabile  ipoteca nei confronti del nuovo, o perlomeno del nuovo non scelto da noi. Per avere un quadro complessivo e più preciso della questione ripresi attentamente in considerazione l’intera storia del movimento psicoanalitico, e  giunsi a pormi la domanda se certe divisioni e determinate apparenti inconciliabilità teoriche non fossero in gran parte da imputare più a difficoltà di comunicazione tra precursori che non a dati oggettivi. Da allora la mia ricerca personale culturale e teorica volge più al riconciliare che non a dividere: e così, ad esempio, arrivo al convincimento che la perversione sessuale sia epifenomeno di ben altre più intime e profonde “perversioni”, il cui vero senso è da ricercarsi in un Io mai stabilmente costituito ed anzi continuamente autoaggredito in quanto percepito come povero, inferiore e mutilato, irrimediabilmente sconfitto e pieno di vergogna e di rabbia. Se tali premesse sono corrette, non dovrebbe meravigliarci più di tanto che taluni dei nostri pazienti si attardino per anni a rimpiangersi ed a compiangersi, consumandosi nel corpo a corpo con un oggetto interno bramato ma al contempo rifiutante e rifiutato, né che altri, pur chiedendo disperatamente aiuto, non possano accoglierlo ed anzi tentino di prenderne in ogni modo possibile le distanze in quanto rappresentante di un altro che non riescono a far proprio non avendolo mai pienamente riconosciuto; o che, ancora, in queste disperate solitudini la mente cerchi le soluzioni più bizzarre pur di non entrare in contatto con la propria intima tragedia. Né dovrebbe stupirci, infine, che queste persone non riescano ad elaborare né una vera vicinanza né un distacco conclusivo dal proprio terapeuta, perché – volendo semplificare in modo estremo – si sta troppo bene, accuditi da un fantasma cui puoi dire tutto senza il timore del giudizio, che ti ascolta senza parlare più di tanto, con cui puoi anche litigare ma che sta sempre attento a non ferirti e che forse, chissà, ti vuole anche un po’ di bene, pur con tutti i tuoi ignobili difetti. Nella lamentata difficoltà a concludere questi trattamenti, destinata a concretizzarsi il più delle volte in una separazione imposta, io vedo piuttosto una conclusione assente, un non – esito dovuto ad una insufficiente elaborazione del tema ultimo, che consiste, per quanto ho potuto osservare, in una ferma opposizione di una parte scissa dell’Io a consentire l’accesso sulla  scena psichica del terzo separante, e ciò in ragione: 1) sul versante materno, delle circostanze specifiche che hanno perturbato e interrotto il naturale transito dalla dipendenza assoluta all’esperienza della continuità del Sé, al sano costituirsi come soggetto e sino alla rottura della relazione diadica primaria, e 2) della  presenza di un padre reale che non si è  prestato ai suoi compiti di accoglimento, di guida e di idealizzazione, ovvero si è mostrato disinteressato, anempatico o addirittura rigettante, tale da generare a sua volta nel bambino una reazione di ripulsa e di parziale refusione con l’oggetto primario, sebbene in  forma scissa.

Il compito dell’analista è di far sì che tutto questo coacervo di emozioni e sentimenti possa essere portato alla luce e diventi oggetto di pensiero, estraendolo dal magma indifferenziato e antichissimo che lo ha generato. Nel mio lavoro quotidiano, io ho trovato utile concettualizzare ed isolare una funzione specifica che ho denominato “risoggettivante”, che comprende tutto il complesso degli interventi che si propongono di evidenziare il senso e le modalità attraverso cui  la parte scissa dell’Io del paziente 1) si oppone attivamente ad una vera vicinanza,  non potendo accettare la  presenza “mutativa” di un oggetto – terzo con cui intessere una relazione non distrutta o distruttiva; e conseguentemente 2) non può nemmeno acconsentire ad una vera separazione, esito ultimo ed inevitabile del riconoscimento e dell’accoglimento della parte scissa in un Io finalmente integrato, permanendo invece in una sorta di “attaccamento evitante” viscerale e simbolico, destinato a protrarsi all’infinito. Mi propongo, in altri termini, di richiamare gradatamente alla coscienza e di implicare più direttamente quella parte dell’Io che si oppone all’integrazione cogliendone le segrete personalissime motivazioni, portandole alla luce ed aiutando il paziente ad elaborarle: riconsegnare cioè all’Io del soggetto una parte che, a mio modo di vedere,  non è né assente, né debole né sopita, ma anzi attivissima e ferocemente risoluta a non evolvere, che recita – anche qui semplificando – “Voglio stare nella fusione ed essere accudito fin quando mi parrà, perché mi sono state negate delle cose per me fondamentali e devo riaverle a qualunque costo”, senza mettere però in conto che si tratta di una fusione pericolosissima con un oggetto bramato ma al contempo odiato, distrutto e tossico, destinato a promuovere sofferenze inaudite che possono durare tutta una vita. Perdendo di vista questi aspetti e non intervenendovi, pertanto, l’analista potrebbe diventare persino una figura iatrogena, come talvolta abbiamo visto, purtroppo, accadere.

Sarebbe difficile in questo breve spazio enunciare un “metodo”, oppure elencare una serie di esempi su come porre in essere la “funzione risoggettivante”, ma confido che una riflessione attenta su quanto vado esponendo possa valere se non altro a introdurla con una certa efficacia, e mi limito dunque qui a ricapitolarne il nodo centrale, così come posta nell’incipit: “È possibile parlare con il nostro paziente degli aspetti che rendono impossibile (e/o interminabile) la sua analisi?” Affogare lo spazio analitico – così come del resto tutta la propria vita – in un mare di recriminazioni e di autocommiserazioni, sterilizzarlo nel dubbio ossessivo o nella rivolta rabbiosa, tenerlo a distanza pur giocando sadicamente al suo interno, o stravolgerlo attraverso spericolate acrobazie mentali, non possono a questo punto essere intesi come meri atteggiamenti difensivi quali erano originariamente e come si presentano nel paziente nevrotico, ma meriterebbero piuttosto, a mio parere, di essere considerati e trattati come veri e propri stati della vita psichica, di cui vanno enucleate le ragioni ed il senso, indicandoli e problematicizzandoli al paziente, perché possa, Deo concedente, sottrarsene.

L’atteggiamento terapeutico “risoggettivante” comporta da parte dell’analista un’acuta capacità di sintesi nel ricongiungere il pregresso al “qui ed ora”, estrapolando il significato complessivo di una storia e cogliendo il  senso del nostro intervenire, nel momento dato, in quella storia; e soprattutto, una acquisita abilità a cogliere quel che accade sotto e prima delle parole attraverso un’abitudine al “salto di livello” logico che si affina solo con l’esperienza ed il metodo, e che talora per essere compreso deve parzialmente prescindere persino dalle libere associazioni, o perlomeno dallo “strato superiore” di queste. Questo modo di procedere, che, ribadisco, adotto solo nei casi in oggetto, merita almeno due considerazioni, la prima riguardante la tecnica, e la seconda che coinvolge anche la rappresentazione che noi analisti abbiamo di noi stessi e della nostra professionalità. 1) La posizione di attesa del terapeuta, che pure è e rimane l’unica possibile nei trattamenti “classici”, ci colloca però in una situazione di cronico svantaggio rispetto alle segrete alchimie mentali della parte scissa dell’Io del paziente, laddove la funzione risoggettivante richiede invece una quantità discreta di iniziativa da parte dell’analista, e una certa dose di adduzione, comportante un aumentato margine di possibile errore rispetto alla classica interpretazione “di rimessa”; e, 2) La funzione risoggettivante mette in discussione, anche se solo in contingenze ben determinate, la visione dell’analista come puro ed ineffabile specchio opaco in attesa delle scoperte del suo paziente, o altrimenti in flagrante violazione del principio di astinenza se non addirittura in odore di manipolazione del transfert, ma introduce piuttosto nella terapia un momento attivo lucidamente  ponderato e dosato in cui scientemente il clinico propone alcune informazioni strutturanti, prodotto di una metariflessione mirata e specifica che, vorrei sottolineare, non si concretizza in roboanti pamphlet, né in sofisticate elucubrazioni metapsicologiche, quanto piuttosto in una maieutica, spesso riassunta in una frase, o in una spiegazione semplice e chiara, o meglio ancora in una confrontazione con aspetti profondi di cui il paziente non è consapevole ma che, se ben proposti, non tarda a riconoscere come propri.

Anche sulla questione del timing, cioè sul quando intervenire in maniera più attiva per confrontare ed illustrare al paziente le sue dinamiche profonde antilibidiche, o proporgli il problema, o, ancora, aiutarlo a comprendere,  non è possibile almeno per ora essere più precisi. Come ho tentato di spiegare nella prima parte del lavoro, vi sono situazioni in cui il tema può essere problematicizzato precocemente, altre in cui emerge lentamente, e altre in cui non emergerebbe mai, portando l’analisi avanti all’infinito, se non fossimo noi terapeuti ad accorgercene ed a proporlo. Come si può vedere, l’intera concettualizzazione è ancora assai grezza ed embrionale, anche se, avendola sperimentata per diversi anni, posso dire di aver osservato aspetti assai interessanti.

Il tema della legittimità dell’intervento attivo da parte dell’analista è complesso, e certamente, non possiamo aspettarci che argomentazioni talmente delicate possano essere prese in considerazione con sempre eguale disponibilità e simpatia. Ci consoleremo tuttavia pensando che, almeno per quanto ci consta, Freud era tutt’altro che impenetrabile e passivo nel condurre le sue sedute, e ricordando come già nel 1913, nei “Nuovi Consigli”,  paragonava lo svolgimento dell’analisi ad una partita a scacchi di cui si potevano postulare solo le prime mosse, confessando schiettamente il  timore che il neofita, pur applicando alla lettera i suoi suggerimenti, potesse egualmente “trovarsi ben presto nei guai”, per cui avvertiva di doversi limitare a tracciare le linee di “un trattamento mediamente appropriato”; ma non poteva astenersi dal precisare anche che “la straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo costretti a tener  conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti, sono  tutti elementi che si oppongono ad una standardizzazione della tecnica” (Ibidem).

Conclusioni

Credo fermamente che lo studio approfondito delle situazioni transferali solitamente ritenute intrattabili in analisi sia potenzialmente in grado di aprire nuovi straordinari orizzonti alla teoria ed alla tecnica. A mio parere, l’assunto dal quale dobbiamo comunque partire in questi casi così problematici è che chi detta legge non è l’Io cooperante ma le sue parti scisse, e che quindi, volenti o nolenti, siamo costretti a trovare un modo per venirvi a patti. Certamente per poter sconfiggere forze potenti e primitive quali quelle che hanno promosso la scissione dell’Io e la negazione dell’oggetto – altro dobbiamo poter contare su risorse fuori dal comune per ambedue i componenti la coppia analitica: pazienza, intelligenza, plasticità, desiderio incondizionato di conoscere e di comprendere; ma tutto questo da solo non basta, a meno di non affidarsi al caso e alle buone intenzioni. Più produttivo mi è apparso, invece, affrontare questi  temi così complessi a partire dalle risorse disponibili, e segnatamente dallo studio delle dinamiche di personalità, il che dà ragione della  prima parte del presente contributo. Su tali assunti, nella seconda parte ho tentato di suggerire una direzione, un “dove  guardare” atto, forse, a favorire, se e dove possibile, un avvicinamento ed una mediazione con le parti  dell’Io  rigettanti  o forcludenti.

Concludendo, osserviamo che, se utilizzate passivamente e senza rispetto per il divenire della conoscenza, alcune concettualizzazioni “storiche” del pensare psicoanalitico possono “pervertirsi” e limitare severamente le indicazioni all’uso dello strumento, rischiando anzi talvolta di contribuire nel ridurlo a feticcio. Temi fondanti, quali la resistenza al trattamento o la stessa reazione terapeutica negativa, se chiamate in causa semplicemente perché il paziente non reagisce come ci aspetteremmo, o come vorremmo che reagisse, indirettamente asseverano e ribadiscono che il trattamento è di per sé perfetto e imperfettibile, la qual cosa con ogni evidenza è infalsificabile ed antiscientifica, etichettando il soggetto come incurabile invece di porsi il problema di come curarlo. Non v’è dubbio che le modalità di non – rapporto con l’oggetto sopra descritte abbiano anche una potente valenza difensiva, ma limitarsi a rilevarne solo questo aspetto preclude la possibilità di indagarne e penetrarne la natura attuale di “status”, negandone al contempo la vera essenza tragica, che invece rappresenta, almeno a mio parere e per la mia esperienza, la reale “domanda” profonda del nostro paziente, al di là e prima delle sue perversioni e dei suoi comportamenti perversi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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