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La gestione del trauma dal punto di vista di un survivor

La mente, il corpo e il cervello tentano ogni strategia possibile pur di sopravvivere al trauma, ma qual è il vissuto di chi sopravvive?

Di Valentina Tatti Tonni

Pubblicato il 29 Apr. 2022

Ancora soffro dei miei stessi ricordi. Mentre scrivo sono nella prima fase del trattamento del trauma orientato per fasi sostenuto da Judith Herman, ossia in quella in cui cerco e creo sicurezza e stabilità nel presente per superare la disregolazione corporea ed emotiva (Herman, 2005).

 

La mia mente, il mio corpo e il mio cervello stanno tentando ogni strategia possibile pur di sopravvivere alle memorie traumatiche (Van der Kolk, 2015) legate ed attivate da trigger sconvolgenti. L’attività onirica, tra speranza e ricordo, si fa spesso spaventosa. Mi sembra di impazzire ogni volta che nel quotidiano lotto strenuamente per la mia vita.

Alle persone che mi circondano non arriva la decodifica con cui la mente blocca i pensieri patogeni, ma la soluzione più rapida e indolore possibile che in quel momento ho trovato efficace. Scopro che la soluzione però ha un effetto alterato e la risposta è illusoria rispetto a un problema che è invece reale e che così non viene risolto. Nel tentativo di adattarmi al cambiamento che mi ha investito e al quale ho assistito impotente, infatti, il sistema neurobiologico e comportamentale va in sovraccarico. Nell’intuizione della mia sofferenza, il Sè è distrutto da uno scombussolamento inquietante. La consapevolezza non mi rende libera: sono intrappolata in un sequestro interiore dove l’aggressione dei ricordi non è reversibile. Osservando la mia disperazione, attraverso il modello della dissociazione strutturale (van der Hart et al., 2006), vedo il trauma smarrire parti di me nelle galassie psichiche.

Nel provarlo posso sostenere che quando una persona soffre del Disturbo da Stress Post-Traumatico, seppur latente, pur di non sentire il dolore mette in atto tutta una serie di strategie di coping volte a fronteggiarlo e ad alleviarlo, sebbene a breve termine. Ne sono un esempio i comportamenti autolesionistici (come bere alcol) e quelli che non gestiscono gli impulsi (non prendersi cura di sé stessi ma anzi deliberatamente ricorrere ad azioni rischiose) né calmare il corpo (mantenersi quindi ipervigili in attesa di un pericolo, reale o percepito che sia). La soluzione che metto in atto per non sentire il dolore è dunque falsa, basata su una percezione alterata che va ad incentivare la creazione di schemi che sono nati e che si nutrono del trauma stesso e che configurano una proiezione che dal passato riemerge e si fortifica nel presente attraverso flashback, stato di allerta, vulnerabilità emozionale, scarsa capacità di concentrazione, compromissione della lucidità mentale, bassa autostima, uso eccessivo del controllo che sembra proteggere dai carichi di stress ma che con il tempo sfinisce, somatizzazione, sfiducia negli altri, paura dell’abbandono, rabbia, impulsività, pensieri accelerati.

Con la psicoeducazione comprendo che non è tanto importante ricordare e raccontare quanto ho subito, per quanto la terapia dell’esposizione narrativa si riveli spesso d’aiuto (Schauer et al., 2011), ma di impatto è importante che io conosca e riconosca nel dettaglio i miei sintomi e da che cosa vengono attivati per poi espandere la finestra di tolleranza in modo da riuscire, nei piccoli passi che compongono il quotidiano, a perdonare, a trasformare e ad apprezzare il vissuto come parte integrante della mia storia di guarigione.

Ed è tutt’altro che facile, ci sono alti e bassi e voli pindarici: avere a che fare con il dolore, pur con l’aiuto di una psicoterapia mirata e il sostegno della rete sociale di appartenenza, rende il vivere scomodo, soprattutto se a buttar sale sulla ferita sono io stessa. Metaforicamente si potrebbe dire: nessuno mi sta bombardando, sono io a spararmi contro.

Questo perché i meccanismi di difesa che ho nei riguardi di reazioni che avvengono in situazioni di pericolo apparente, come quelle che si agganciano a ricordi intrusivi che fanno rivivere il trauma, sono istintivi e conflittuali a seconda della prospettiva con la quale il cervello si sintonizza.

Aspetti impliciti o non verbali dei ricordi continuano ad attivare quel senso nefasto di immediato pericolo e, per quanto la mia mente vorrebbe mantenersi nel qui e ora, il mio corpo si mobilita per reagire non sapendo che sto ricordando una minaccia che mi ha colpito in passato ma che non sono minacciata in quel momento (Fisher, 2021). Per ironia della sorte, la corteccia prefrontale si disattiva proprio a causa della minaccia percepita, per risparmiare le risorse, ma così facendo non mi permette di razionalizzare quello che sto provando.

Nel tempo che impiego a sentirmi altrove e poi ritornare, sparire, insistere, mi ritrovo di nuovo catapultata in un buco nero che ha forme depressive e non lascia scampo al senso che tutto questo potrebbe avere. Ciò che è veramente insopportabile non è l’oscurità, ma l’assenza e la mancata prossimità che prima era ed ora non è più.

L’affascinante studio della neurobiologia e della plasticità del cervello mi introduce alla conoscenza del sistema nervoso autonomo e dell’ipotalamo, responsabile dell’elaborazione delle emozioni e delle sensazioni di piacere e dolore, e dell’amigdala che dà significato emozionale e sensoriale agli stimoli. Il cervello ne ha capacità, ma i ricordi disfunzionali non lo aiutano a guarire perché lo riportano e lo inchiodano sempre al passato, non agiscono sulla coscienza ma anzi la privano di quel sollievo necessario a ristabilire un equilibrio e un amor proprio. Non posso riprendere in mano la mia vita senza sospendere il giudizio e senza una adeguata ricerca del mio benessere psico-fisico, al di là del baratro nel quale in ogni istante potrei ragionevolmente cadere.

Ho trent’anni e il mio sistema nervoso è traumatizzato ma, per fortuna, non sembra voler tollerare di rimanere sconvolto. Si ostina a tenermi occupata anche quando, nel lento e complesso percorso di elaborazione, mi sento sopraffatta e inibita. Per questo oggi ho voluto scriverne. La consapevolezza non è abbastanza per cambiare le mie abitudini di sopravvivenza, ma posso imparare a identificare le mie emozioni come comunicazioni provenienti da una parte di me che è condizionata a causa di ciò che attiva il ricordo traumatico, stimolando il cervello pensante a interpretare in modo positivo quello che provo, anziché facilitare la ricaduta verso azioni distruttive che alla lunga mi feriscono ulteriormente (Fisher, 2021).

Centrandomi con costanza, ma non senza fatica, talvolta riesco già a proiettarmi nel futuro. Bramo di arrivare incolume all’ultima fase, perché solo nell’accettazione il dolore si trasforma. Solo allora resta l’amore, la convinzione di essere stata vista almeno una volta. Solo allora il trauma, che per me è un lutto grande, diventa una restituzione e non più una perdita. La testimonianza che reca coraggio, la cura che coinvolge la vita.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • J. Fisher, “Trasformare l’eredità del trauma. Un manuale pratico per la vita quotidiana e per la terapia”, Mimesis Edizioni 2021, pp. 177
  • J. Herman, “Guarire dal trauma. Affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo”, Magi Edizioni 2005, pp. VIII-358
  • O. Van der Hart et al., “Fantasmi nel Sé. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale”, Raffaello Cortina 2011, pp. 434
  • B. Van der Kolk, “Il corpo accusa il colpo”, Raffaello Cortina 2015, pp. 501
  • M. Schauer et al., “Terapia dell’esposizione narrativa”, Giovanni Fioriti Editore 2011, pp. 212
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