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Il terapeuta sotto pressione (2021) di Muran e Eubanks – Recensione del libro

Nel libro 'Il terapeuta sotto pressione' si trova una dettagliata delle possibili rotture dell'alleanza terapeutica, corredata da esempi e vignette cliniche

Di Silvia Dioni

Pubblicato il 28 Feb. 2022

Il libro Il terapeuta sotto pressione è una testimonianza del lavoro svolto sul campo dagli autori, una panoramica degli aspetti più insidiosi del lavoro clinico.

 

Non è raro che il lavoro dello psicoterapeuta evochi, in chi non lo pratica e non lo conosce, commenti talvolta semplicistici ed ironici, quando non astiosi, sulla vita comoda di chi ha il vantaggio di poter guadagnare standosene semplicemente seduto ad ascoltare sornione i fatti altrui, limitandosi ad annuire o intervenire brevemente ad intervalli regolari, insomma ‘cavandosela a chiacchere’, per dirla con il caro Roberto Lorenzini.

Il recente volume di Muran e Eubanks, Il terapeuta sotto pressione, edito da Raffaello Cortina, appare quindi come una dichiarazione di empatia e solidarietà, una mano tesa verso chi il lavoro di psicoterapeuta invece lo svolge e ne conosce bene le indubbie gratificazioni, ma anche le notevoli fatiche, il logorio mentale e fisico, i rischi e le tensioni. La pressione, appunto.

Il libro è una testimonianza del lavoro svolto sul campo dagli autori, una panoramica degli aspetti più insidiosi del lavoro clinico, destinata idealmente soprattutto ad una formazione preventiva dei colleghi più giovani che magari non hanno ancora dovuto sperimentare in prima persona alcune delle trappole più frequenti nel processo di cura.

Gli autori si concentrano nello specifico sulla pressione connessa al rapporto particolarissimo che si crea tra terapeuta e paziente nel qui ed ora della singola terapia e che diventa possibile luogo di fratture, tensioni, crisi, rotture relazionali.

La sintonia tra paziente e terapeuta è una dimensione delicata e sfuggente, su cui difficilmente si riesce ad esercitare un pieno e totale controllo; una buona dose di autostima del clinico può per certi versi metterlo al riparo da derive depressive, senso di inefficacia e scoraggiamento (ingredienti spesso fatali al buon esito della terapia) connessi ai momenti di stallo e di crisi del trattamento.

Tuttavia il rischio è che una simile negazione grandiosa, al contempo sano meccanismo di difesa e rischio professionale a cui spesso i terapeuti si espongono, impedisca di riconoscere oggettive e reali rotture dell’alleanza terapeutica e quindi precluda la possibilità di esplorarle e ripararle.

Le crisi si possono verificare in qualunque fase del trattamento e possono consistere in sfide al contratto terapeutico, coincidere con il momento in cui la terapia mette in crisi gli abituali meccanismi di difesa del paziente o quando il sollievo dagli aspetti sintomatologici più invalidanti consente un’esperienza più consapevole delle proprie fragilità più profonde, identitarie ed esistenziali.

Spesso le rotture sono rappresentazioni dei sentimenti sollevati dalla relazione terapeutica ed è per questo che il messaggio implicito che percorre tutto il libro è un monito ai terapeuti affinché si ricordino di chiedersi sempre qualcosa del tipo: ‘Cosa sta succedendo, qui e ora, nel rapporto tra me e questo paziente che lo sta portando ad aggredirmi/trasgredire il contratto/minacciare di abbandonare la terapia/essere evasivo o deferente/ etc.’.

Proprio perché i momenti di implicita o esplicita rottura nell’alleanza tendono ad evocare forti emozioni nel terapeuta (ansia, frustrazione, colpa, preoccupazione, rabbia) essi richiedono un’attenta analisi ed un’accurata gestione, affinché il clinico non sia trascinato dal paziente nella direzione di un abbandono dello sforzo esplorativo e supportivo, se non della terapia stessa.

Difficile manualizzare in modo rigido e definitivo il processo di gestione delle crisi che può variare a seconda delle situazioni; può richiedere al terapeuta di diventare temporaneamente più proattivo oppure di rafforzare l’adesione alla cornice del trattamento o ancora di optare per opportune deviazioni dal contratto terapeutico.

Il concetto di base è che la gestione delle crisi pone una sfida all’adeguatezza della cornice stabilita nel contratto e all’abilità del clinico di muoversi con elasticità all’interno di questa cornice man mano che il trattamento procede. È indispensabile sforzarsi di capire il significato implicito e profondo delle sfide al setting piuttosto che lasciare che la rottura demolisca il contratto e distorca il trattamento.

Nel libro si trova una dettagliata disamina delle possibili rotture dell’alleanza terapeutica, riconducibili per gli autori a due categorie (di ritiro o di confrontazione) e corredata da esempi e vignette cliniche.

Possibili indicatori di rischio esaminati nel manuale sono risposte laconiche, comunicazioni astratte, narrazioni evitanti, deferenza e accondiscendenza, scissione degli affetti, autocritica e rassegnazione, lamentele sulla terapia e sul terapeuta, rifiuto degli interventi, atteggiamento difensivo o tentativi di mettere il terapeuta sotto pressione.

Il terapeuta potrebbe d’impulso reagire difensivamente a tali segnali di rottura dando risposte blandamente supportive che, per quanto possano salvare nell’immediato la terapia, precludono l’opportunità di ragionare su cosa stia accadendo alla diade, oppure potrebbe fornire un feedback neutrale e strutturato, essenzialmente corretto dal punto di vista tecnico ma rigido e rifiutante, che inconsciamente mira a far precipitare la fine della terapia per porre fine all’ansia crescente del terapeuta.

È per questo che gli autori propongono viceversa un modello di riparazione delle rotture che parta dal riconoscimento e dall’esplorazione dell’esperienza condivisa con rinegoziazione di compiti e obiettivi, in un clima di dilemma condiviso attento a ciò che accade nel qui ed ora, senza che il clinico abbia timore di esplorare e condividere il proprio contributo all’insorgere della rottura e riconoscendo che il rapporto è in continua evoluzione e che ad una riparazione possono seguire nuove rotture e così via.

La capacità individuale degli psicoterapeuti di gestire correttamente le loro reazioni controtrasferali è stata resa operativa nel manuale con la Countertransference Factors Inventory (CFI), una misura delle dimensioni di empatia, gestione dell’ansia e abilità di concentualizzazione.

Degno di nota l’approfondimento sull’importanza della cura di sé da parte dei clinici; è necessario sottolineare che accogliere messaggi emotivamente ed affettivamente carichi per molte ore al giorno può rapidamente condurre all’esaurimento proprio di quelle risorse emotive indispensabili ad un proficuo contatto empatico e alla buona riuscita del lavoro di uno psicoterapeuta.

Un clinico può lavorare bene solo quando dà ascolto ai propri legittimi bisogni personali, anche se ciò assorbe a sua volta tempo ed energia.

Riconoscere e appagare i propri bisogni di sonno, riposo, svago, attività fisica, soddisfazione economica e formazione e supervisione continua è un fattore indispensabile al lavoro e un ottimo antidoto alle tendenze masochistiche che generalmente presentano gli operatori impegnati nel campo delle relazioni di aiuto.

Alcune strategie di autocura descritte nel volume consistono nel praticare la mindfulness prima delle sedute, tenere un diario delle emozioni per ripercorrere le reazioni nei confronti dei pazienti, promuovere un atteggiamento di indagine critica rispetto ai propri bias cognitivi, fare pratica tramite role-play e ricorrere al supporto e alla supervisione di colleghi più esperti.

In sostanza ciò che gli autori cercano di trasmettere è che momenti di crisi o sentimenti negativi del clinico non sono inauditi, disdicevoli o segnali di errore, ma fanno parte di qualsiasi percorso terapeutico, pur con vari gradi di gravità e di intensità e che, benché possano comprensibilmente generare forti stati d’animo negativi, tali da rendere talvolta difficile proseguire con il trattamento, se ben gestiti, costituiscono preziose opportunità non solo per la salvaguardia, ma addirittura per l’avanzamento stesso del processo terapeutico.

Un suggestivo esempio di consapevolezza e gestione di una rottura (piuttosto mascherata, peraltro) che ha consentito uno scatto nella terapia ce lo dà Irving Yalom, nel suo illuminante Il dono della terapia:

Fornisco a tutti i pazienti le stesse indicazioni per il mio studio in occasione della loro prima visita: procedete lungo la strada X per mezzo miglio dopo la strada XX, voltate a destra al viale XXX dove c’è un’insegna per Fresca (un attraente ristorante locale) sull’angolo. Alcuni pazienti fanno commenti sulle indicazioni, altri no.

Un paziente in particolare (lo stesso che si era lamentato del sentiero fangoso) mi affrontò in una delle prime sedute: ‘Com’è che ha scelto Fresca come punto di riferimento piuttosto che Tio?’ (Taco Tio è un fast-food messicano, un pugno nell’occhio all’angolo di fronte) […]

Scelsi di rispondergli candidamente: ‘Be’, Bob, ha ragione! Invece di dire: volti a destra al Fresca, avrei potuto dire: volti a destra alla bancarella dei tacos. Perché ho fatto la scelta che ho fatto? Sono sicuro che è perché preferisco associare me stesso con il ristorante più raffinato. Non mi sarei sentito a mio agio dicendo: volti alla bancarella dei tacos’.

Di nuovo, qual è il rischio? Sto solo riconoscendo qualcosa che lui ovviamente sapeva. E solo dopo esserci tolti di mezzo il problema con la mia ammissione potemmo dedicarci all’importante questione di esplorare il suo desiderio di mettermi in imbarazzo.

 

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Silvia Dioni
Silvia Dioni

Psicologa Psicoterapeuta laureata presso l’Università degli Studi di Parma e specializzata in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale all’Istituto “Studi Cognitivi” di Modena.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Muran J.C., Eubanks C.F. (2021) Il terapeuta sotto pressione – Riparare le rotture dell'alleanza terapeutica. Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Yalom I.D. (2014) Il dono della terapia Neri Pozza, Vicenza
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