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La scrittura autobiografica nella condizione di malattia come ricerca e ricostruzione di un’identità perduta

La patografia è una forma di narrazione che aiuta a costruire nuove storie capaci di curare le ferite dell’anima causate dall'insorgere di una malattia

Di Astrid Giordano

Pubblicato il 13 Gen. 2022

Davanti alla malattia i pazienti si trovano a dover costruire una nuova narrazione che presuppone una revisione di convinzioni e aspettative, un cambio del punto di vista sugli eventi e talvolta un faticoso processo di reinterpretazione di sé stessi. Con il termine patografia si intende una pratica letteraria che consiste in una narrazione biografica scritta che ha per oggetto un’esperienza di malattia.

 

L’esperienza di malattia e il confronto con il pensiero e la paura della morte portano spesso il paziente a porsi degli interrogativi sul senso della propria esistenza, ma soprattutto lo conducono verso una rielaborazione della vita vissuta, delle esperienze passate, che possono essere riviste e re-interpretate da un’ottica completamente diversa, attribuendo significati nuovi e facendo spazio, nella propria narrazione, all’evento malattia. Proprio questa ricerca di significato è ciò che può caratterizzare i racconti dei pazienti che vivono una condizione patologica. Questo perché la malattia rappresenta una frattura nella trama narrativa dell’esistenza che interrompe il flusso lineare degli eventi e sconvolge le rappresentazioni mentali, i ruoli e le dinamiche sociali e relazionali del paziente (Bert, 2007); è necessario che venga integrata nella propria narrazione affinché non rimanga un evento sospeso, privo di significato, sconnesso dagli altri elementi caratterizzanti la storia dell’individuo, sottraendosi così a qualsiasi possibilità di elaborazione e accettazione. La perdita di senso è quindi insita nell’esperienza di malattia soprattutto nei casi di malattie croniche o terminali, in cui si stravolgono i consueti sistemi di significati, così come le aspettative, i progetti futuri, le possibilità di realizzazione; viene meno la sensazione di esercitare un controllo sulla propria vita mentre si apre il pensiero alla precarietà e della perdita di speranza. Tutto questo può spingere l’individuo malato ad una ancora più affannosa ricerca di senso, che può diventare però anche uno stimolo e una risorsa per affrontare le situazioni più difficili. I pazienti si trovano quindi a dover costruire una nuova narrazione che presuppone una revisione di convinzioni e aspettative, ma soprattutto un cambio del punto di vista sugli eventi e talvolta un faticoso processo di reinterpretazione di sé stessi (Bruzzone, 2018). Ciò che il paziente racconterà di sé attraverso le sue narrazioni, definirà la sua identità che spesso, in condizioni di malattia, viene aggredita e compromessa. La narrazione permette di costruire nuove storie capaci di curare le ferite dell’anima, quelle che persistono anche quando la malattia come processo patologico appare superata. In questo senso guarire significa guarire dalla malattia intesa come “problema” appartenente al malato, come il suo personale discorso e non solo come processo biologico, significa raccontare una nuova storia di vita (Bert, 2007). Possiamo dire che la narrazione rappresenta quindi una via attraverso cui dare nuova forma alla propria identità.

La patografia

Con il termine patografia si intende una pratica letteraria, particolarmente diffusa a partire dal Novecento, che consiste in una narrazione biografica scritta che ha per oggetto un’esperienza di malattia. Il narratore, che corrisponde poi all’autore, può essere il paziente stesso o una persona a lui vicina. Nelle patografie, il racconto può limitarsi all’evento malattia nelle sue diverse fasi, o trasformarsi in una rilettura dell’intera biografia alla luce della nuova condizione patologica. I motivi invece, che sottendono il bisogno di raccontare la malattia sono molteplici: ad esempio la denuncia di un determinato stato di cose, il racconto di una rinascita dopo la malattia, il ripercorrere la vicenda medica e, forse il motivo più importante, la ricerca di nuovi significati che favoriscano un’elaborazione dell’esperienza attraverso la costruzione di una storia dotata di nessi cronologici e causali (Loddo, 2015). Oggi è possibile ritrovare un’ampia varietà di patografie, scritte da pazienti comuni o personaggi noti; sebbene non si tratti quindi sempre di scrittori professionisti, questi scritti hanno indubbiamente un impareggiabile valore come testimonianze e stimolo per i lettori che possono trovarsi ad affrontare situazioni simili a quelle raccontante.

Il caso di Riccardo

Riccardo è un paziente di 65 anni affetto da una malattia neurodegenerativa progressiva che produrrà, in un tempo relativamente breve, una graduale perdita della motricità degli arti superiori e inferiori.

La presa in carico del paziente avviene in un momento particolarmente difficile del percorso di malattia ovvero quando egli inizia ad esperire i primi significativi peggioramenti e quindi le prime perdite funzionali. Riccardo non si muove più autonomamente, cammina solo con l’aiuto di un deambulatore, è compromesso l’utilizzo degli arti superiori e sta andando incontro ad una disfunzione diaframmatica sempre più importante. Nel momento del nostro primo colloquio Riccardo è molto diffidente sebbene si mostri aperto al dialogo; la rabbia è l’emozione predominante nel suo atteggiamento verbale e non verbale. È possibile pensare che la rabbia fosse in quel momento l’unica strategia, sebbene difensiva, che Riccardo era riuscito a trovare per mantenersi in equilibrio. Ho compreso quindi fin da subito che era necessario trovare un chiave giusta per entrare nel mondo di quel paziente, un qualcosa che mi consentisse di “agganciarlo” per poi offrirgli un appiglio. Fin dal primo colloquio Riccardo mi racconta di sua spontanea volontà il suo percorso di malattia, il momento della diagnosi, il decorso e, infine, la sua vita prima dell’esordio. Riccardo accoglie difficilmente i miei interventi, per lui è difficile sentirsi compreso, la rabbia prevale su qualsiasi altro vissuto e diventa lo sfondo di ogni sua conversazione. Nonostante ciò, è evidente la sua voglia di vivere, la sua tendenza a ricercare ancora uno stimolo per andare avanti, nonostante sia pienamente consapevole della prognosi di malattia. A distanza di circa tre colloqui, Riccardo inizia ad acquisire fiducia soprattutto perché inizia a comprendere che la mia presenza è funzionale a contenere i suoi vissuti, compresa la rabbia, e che può sentirsi libero di esprimersi. Nel corso di un colloquio mi spiega quindi che gli piacerebbe raccontare come la sua vita è cambiata in seguito alla diagnosi, raccontare di quelli che erano i suoi progetti e di come sta cercando di far fronte a questo momento drammatico, rivolgendosi in particolare ai pazienti che si trovano nella sua medesima condizione. È così che nasce l’idea di trasformare i suoi racconti in un libro. Un libro che parlasse della sua vita prima della diagnosi, delle sue esperienze, e poi delle sue trasformazioni, delle sue scelte, delle debolezze ma anche dei punti di forza.

Di seguito riporto un frammento di un dialogo con il paziente che racconta in particolare i suoi vissuti e stati d’animo e che consente di evidenziare la forza vitale che la narrazione è riuscita a sprigionare pur nella condizione di malattia.

L’obiettivo è il domani, quello che farò domani. La malattia ti mette in continuazione in difficoltà, ma il vero dramma per me è desiderare ancora di fare le cose normali, come tutti, come prima. Perché questa malattia ti dice di stare fermo, di rinunciare a tutto e ti pone in una condizione di dipendenza continua dagli altri, dagli altri che non sempre possono capire, anche se ti amano… e tu sei sempre più impotente e sempre più vulnerabile. E non riesco a spiegarmi perchè la mia mente lavora ancora in positivo pensando che prima o poi guarirò! Eppure, lo sento che ogni giorno peggioro… ma non voglio pensare al peggio… voglio pensare che io sia sempre lo stesso, nonostante tutto. Nei fatti, la malattia, non ti fa più camminare, non ti fa più fare le cose, ma la persona rimane uguale, io sono lo stesso, la mia mente funziona sempre bene anche se è spaccata in due: una parte gode di quello che ho e una parte si dispera per quello che un posso più avere. Ma io sono un illuso e penso che un giorno tornerò alla mia vita di prima!! Ma quella, forse, è solo speranza, non illusione.

 

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Astrid Giordano
Astrid Giordano

Psicologa Psicoterapeuta Psicodinamica

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