Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base per l’alcolismo della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico.
Riassunto
Il presente lavoro riassume il protocollo terapeutico di base utilizzato dalla Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D 2 di Salerno, in un particolare momento storico come quello marchiato dall’evento pandemico. L’emergenza alcol che la società contemporanea sta registrando, anche nel faticoso periodo attuale – benché attualmente sia venuta un po’ meno l’enfasi delle cronache riportate dai mass-media – richiede di intervenire su un ampio settore della popolazione: oltre la prevenzione, programmi terapeutici integrati, praticabili ed efficaci, consentono una prima risposta a tale problematica. Solo in periodi successivi è possibile valutare l’opportunità di interventi più strutturati.
Summary
The present work reassumes the basic therapeutic protocol, used at Salerno’s Operative Unite for Drugs Addiction, Alcoholisms Section.
Alcohol emergency that the contemporary society is recording, so emphasised by mass media, requires acting on a large sector of population: beside the prevention also an efficacious and feasible therapeutic program, integrated and effective, can give a first answer to this problems. Only afterwards it can be adopted, if necessary, more organised interventions.
Introduzione
L’emergenza alcol che la società attuale registra, benché attualmente più nascosta dall’attenzione rivolta alla pandemia, è tuttavia di portata tale da rappresentare un’assoluta priorità nelle politiche d’intervento sulle problematiche socio-sanitarie; se le cifre ufficiali sono evidenti, la cronaca e l’esperienza diretta del personale sanitario testimoniano il drammatico presentarsi dei danni collegati all’uso di alcolici.
Il concetto di “problema alcolcorrelato”, che ha sostituito quello tradizionale di alcolismo, ha consentito alle dipendenze patologiche in generale di superare ingorghi definitori che impedivano una convincente articolazione terminologica. In altri termini, se resta una differenza clinicamente utile la classica distinzione, espunta dal DSM-5, tra semplice abuso e dipendenza, la definizione succitata permette di ricomprendere nelle tematiche derivate dall’uso di sostanze anche situazioni più sfumate. A questo punto la suddivisione tra uso problematico, abuso e dipendenza ha un valore diagnostico per il singolo caso clinico, ma rispetto ai possibili danni l’intera popolazione può essere esposta, anche nel caso di un singolo comportamento di assunzione, come nel Binge Drinking.
Il progressivo aumento degli utenti con problemi alcolcorrelati che afferiscono ai servizi per le dipendenze ha costretto a riorientare nel tempo l’offerta delle prestazioni erogate, in modo da diversificare i trattamenti, somministrati sulla base delle esigenze dei pazienti e del loro livello di motivazione (De Rosa, 2018). Una presa in carico che comprenda un’attenta valutazione diagnostica, oltre che delle risorse e del livello motivazionale del paziente, prelude alla stesura del piano terapeutico personalizzato; in questa fase il lavoro è centrato sulle caratteristiche dell’utente, sulle dimensioni cliniche presenti e sull’identificazione degli aspetti del suo contesto di vita, in maniera da sviluppare un progetto articolato di cura (Gallant, 1987). Va sempre tenuta in adeguata considerazione la caratteristica cronicità di tale paziente (Mc Lellan, 2000), che ne complica ulteriormente e ne connota in senso specifico la presa in carico.
Quanto segue illustra il protocollo terapeutico di base della Sezione Alcologia dell’U.O.C. Ser.D. 2 di Salerno. In particolare, si cercherà di valutare anche l’influenza dell’emergenza sanitaria su consumi e modalità di presa in carico. Fondamentalmente, viste le difficoltà insite nel trattamento di un ‘paziente difficile’, e schematizzando, è previsto un percorso a due fasi: un primo livello affronta gli aspetti critici e basali del problema, mirando a promuovere cambiamenti individuali e familiari concreti e il più possibile rapidi. Il secondo livello, raggiungibile nei casi maggiormente favorevoli, persegue obiettivi di più lungo periodo, tesi a promuovere mutamenti sostanziali e strutturalmente definiti.
Considerando che, in molti casi, si accede ad un servizio per le dipendenze con un livello di motivazione non particolarmente alto, è importante offrire delle opportunità adatte a tali situazioni. L’impostazione che la nostra struttura persegue, esaurita la fase diagnostica affrontata ai più vari livelli, si concreta in un eventuale trattamento farmacologico non disgiunto da un breve ciclo di colloqui psicologici, finalizzati a disegnare una nuova cornice di senso entro il quale uno specifico comportamento, che per definizione è comunicazione e ha valore di messaggio, assume finalmente un significato, e una volta ottenuta una comprensibilità della situazione clinica si definisce un intervento di mantenimento. Naturalmente, laddove il livello motivazionale del paziente lo consenta, si prende in considerazione un trattamento più specifico, quale una psicoterapia strutturata, in particolare una terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale (Galanter e Kleber, 1998). Inoltre, in alcuni casi viene effettuata un’immissione in un gruppo di autoaiuto, la cui frequenza si affianca al programma terapeutico concordato con il servizio. In altri casi, infine, in seguito alla valutazione della struttura e alla richiesta dell’utente, si provvede all’invio presso una Comunità Terapeutica.
La presa in carico
Il paziente che si presenta al servizio, in genere su iniziativa personale o familiare o tramite invio del medico curante o di altra struttura sanitaria, è sottoposto ad un iter diagnostico approfondito, al fine di inquadrare nel migliore dei modi la sua situazione specifica.
Il primo momento è rappresentato dall’anamnesi sociale e della sua situazione di vita attuale. L’assistente sociale, oltre al colloquio teso alla ricerca dei dati personali, somministra alcuni questionari di primo livello, in particolare l’AUDIT, che permettono una comprensione generale del tipo di problema dell’utente (Reinert e Allen, 2002). Per monitorare l’impatto dell’emergenza sanitaria Covid-19 sull’utenza che afferisce al servizio, è stato realizzato un questionario ad hoc al fine di indagare tre aree principali:
- Stato percepito dell’emergenza, per comprendere la messa in atto di comportamenti precauzionali al fine di tutelare la salute propria e altrui.
- Stato dei consumi, per rilevare i cambiamenti dell’utilizzo di alcool e altre sostanze psicoattive, nella quantità, nella tipologia, nella frequenza e nelle modalità.
- Relazione con il servizio, per esplorare i cambiamenti nella richiesta e nell’accesso ai servizi sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo.
Attraverso questionari di questo tipo si inizia ad avviare la relazione con il paziente, cercando di costruire un rapporto di fiducia attraverso l’atteggiamento empatico dell’operatore, così da predisporre interventi di trattamento contestualizzati.
Segue una prima valutazione da parte dello psicologo, che inizia ad inquadrare l’utente, formulando una prima ipotesi diagnostica, anche rispetto a una possibile co-morbilità. A tal fine risulta utile, accanto al colloquio clinico, valutare l’utilizzo di alcuni test psicologici, quali ASI, MMPI e BIS-11, per formulare una prima ipotesi diagnostica sulla struttura di personalità dell’utente preso in carico.
Vengono altresì convocati e coinvolti i familiari, in modo da avere ulteriori riscontri rispetto al comportamento problematico, al fine di valutare ogni possibile risorsa per attivare un percorso di riabilitazione efficace.
Il terzo ed ultimo momento di questa fase è rappresentato dalla visita medica e dalla prescrizione di esami ematochimici e tossicologici.
Dai dati emersi in questi vari momenti, viene stilato un progetto terapeutico-riabilitativo, da revisionare nel tempo sulla base del rimando del paziente. Naturalmente in questa fase è importante il trattamento delle condizioni fisiche, che possono andare dalla sindrome di astinenza alle complicanze di patologie legate al consumo di alcolici. Per queste ultime ci si avvale anche di consulenze esterne, mentre per gravi sintomatologie astinenziali si ricorre a ricoveri ospedalieri o in case di cura specializzate.
Un’adeguata terapia farmacologica, inizialmente anti-astinenziale e successivamente anti-craving, consentendo un effettivo compenso delle condizioni cliniche, rappresenta la base per impostare dei programmi di cura ulteriori. Si utilizzano farmaci che, agendo a vari livelli, permettono in primo tempo un controllo dei sintomi dell’astinenza alcolica, condizione che può preludere a gravi conseguenze, e, in seguito, arginano il più insidioso fattore delle ricadute, la forte appetizione all’uso delle bevande alcoliche. L’uso del Sodio Oxibato, dell’Acamprosato, del Disulfiram o del Naltrexone viene continuato per un periodo sufficiente alla stabilizzazione del paziente, che può così impegnarsi nel percorso di recupero.
La fase della presa in carico è di fondamentale importanza per il successivo andamento del programma, non soltanto per una corretta valutazione della situazione, ma anche per lo sviluppo di una relazione feconda tra operatori e paziente, in grado di incidere sull’intenzione a impegnarsi attivamente nel trattamento. Inoltre non si tralascia, in questa fase, di supportare il contesto familiare, fortemente implicato nella gestione del problema, in modo da evitare manovre non idonee che possano costituire fattori di mantenimento della problematica alcolcorrelata.
Al termine di questo periodo, si decide anche per un eventuale ricorso alle comunità terapeutiche o ai gruppi di auto-aiuto, sulla base delle richieste formulate dall’utente e dalle valutazioni dell’équipe curante. Anche in questo caso è molto importante non limitarsi all’invio puro e semplice, delegante e deresponsabilizzante, ma fornire il necessario supporto alla scelta concordata con il paziente e la sua famiglia in relazione alle proprie esigenze e caratteristiche e, successivamente, monitorare il percorso comunitario, in modo da poter intervenire in caso di crisi.
Terminata la fase della presa in carico con tutto il corteo dei dati acquisiti, inizia il piano terapeutico vero e proprio. Raggiunta l’astinenza dall’alcol, un’accurata prevenzione delle ricadute minimizzerà i rischi di una ripresa del consumo e consentirà anche di mantenere un rapporto di medio periodo con il servizio, funzionale all’incremento della motivazione al cambiamento dello stile di vita. A questo punto, in accordo con l’utente e in condizioni favorevoli, si valuterà l’inserimento in un programma più avanzato, come una psicoterapia individuale, familiare o di gruppo.
Nella revisione attuale del DSM-5 (APA, 2000), il craving rientra tra i criteri diagnostici e l’interesse sostenuto da emergenti evidenze clinico-scientifiche dimostra come esso possa predire episodi di ricaduta nelle addiction. Così, la possibilità di delineare modelli di previsione delle ricadute degli utenti in carico presso la nostra struttura ha reso fondamentale l’inserimento nel protocollo terapeutico di base del Substance Craving Questionnaire (SCQ-Now), un test che permette la misurazione multidimensionale del craving. Il questionario, validato in italiano, è suddiviso in cinque dimensioni (desiderio di usare la sostanza, intenzione di usare la sostanza, anticipazione degli effetti positivi, anticipazione dei sintomi d’astinenza e disforia, perdita di controllo) che indagano la percezione del desiderio della sostanza nel preciso momento della somministrazione del test. I risultati permettono di osservare la correlazione tra i costrutti in esame ed intervenire nelle dimensioni a rischio. L’ulteriore vantaggio di questo strumento è la possibilità di utilizzarlo come follow up per gli utenti in trattamento e per coloro che tornano dopo una fase di assenza dal servizio.
Nella pratica clinica del nostro servizio il Substance Craving Questionnaire è associato ad un questionario sulle esperienze avverse dell’infanzia, l’Adverse Childhood Experiences – International Questionnaire (ACE-IQ) che valuta le fonti di stress più intense e frequenti durante le fasi significative del ciclo vitale (matrimonio, relazione con i genitori, ambiente familiare, violenza tra pari, violenza nella comunità e violenza collettiva). L’indagine retrospettiva permette di conoscere le modalità di reazione messe in campo per affrontare eventi importanti e può avere un valore aggiunto in termini di strategie di prevenzione e trattamento.
Tuttavia, uno sforzo costante deve essere dedicato anche a quelle situazioni che non implicano quella linearità ideale sopra descritta, rispetto alle quali valgono le indicazioni che ci vengono dalla cultura della Riduzione del danno, il cui obiettivo è in definitiva la riduzione dei consumi o comunque il migliore governo possibile del problema presentato dal paziente.
Il trattamento di base
Dal momento della costituzione nel nostro servizio di una sezione alcologica, abbiamo approntato una sorta di protocollo di base – i cui fondamenti essenziali sono stati esplicitati sopra – che potesse consentirci di fornire un primo trattamento ambulatoriale, per poi successivamente e qualora fosse necessario, indirizzarsi verso cure più articolate e strutturate. I capisaldi di tale intervento di base sono stati essenzialmente due: innanzitutto il colloquio motivazionale (Rollnick e Miller, 2003), che costituisce la pietra angolare del trattamento, poiché permette di monitorare i nostri interventi momento per momento, in base alla fase del paziente. Nella valutazione iniziale, quindi, è opportuno introdurre il concetto di livello di recettività al cambiamento, determinando la fase in cui il paziente si trova. La disponibilità al cambiamento in un determinato periodo può essere influenzato da vari fattori: grado di consapevolezza del problema costituito dall’utilizzo di sostanze, comprese le conseguenze connesse a tale pratica; percezione della necessità del cambiamento; grado di accettazione degli interventi proposti, che è condizionato dal livello di coerenza di questi con i reali bisogni e interessi del paziente, con le sue aspettative in merito alle modifiche comportamentali proposte; possibilità di intraprendere e mantenere l’adesione a programmi anche minimi.
L’altro caposaldo è invece la prevenzione delle ricadute (PR) secondo Marlatt e Gordon (1985), un intervento cognitivo-comportamentale che combina procedure comportamentali con tecniche di intervento cognitivo, per aiutare i soggetti a mantenere i cambiamenti di comportamento ottenuti. Il fondamento di una tale prospettiva ai problemi d’abuso di sostanze è il training delle abilità. Tramite tale addestramento, ai pazienti vengono insegnate abilità comportamentali e cognitive quali il resistere alla pressione sociale, l’aumento dell’assertività, il rilassamento e la gestione dello stress e la comunicazione interpersonale. Uno degli obiettivi della prevenzione delle ricadute consiste nell’offrire ad un individuo le competenze e le strategie cognitive necessarie per evitare che un errore si tramuti in una ricaduta completa.
Nel tempo, abbiamo provato a declinare questi momenti all’interno di una vera e propria struttura psicoterapica, ispirati dal lavoro di Denning e Little, Practice Harm Reduction Psychotherapy (2000), in cui – pur piegando la psicoterapia in un senso latamente eretico, laddove essa assume un carattere di trattamento sintomatico, almeno in apparenza – la cura concentra i diversi momenti in un percorso in qualche modo unitario che risponda alle esigenze del paziente. La stessa eventualità di un trattamento farmacologico viene gestita all’interno di una relazione terapeutica compartecipata dal curato. Una “Psicoterapia della riduzione del danno”, infatti, prova a incrementare le capacità decisionali e di autogestione del problema da parte del paziente, evitando l’accanimento terapeutico derivato dal prospettare come unico fine dell’intervento l’astensione completa dalla sostanza. La responsabilizzazione dell’utente è stato anche l’obiettivo di un lavoro di Self Change (Klingemann, 2016), approntato al fine di promuovere un “auto-cambiamento” che attingesse alle risorse personali, naturalmente presenti nei pazienti, e opportunamente favorite e facilitate nei casi più refrattari a percorsi convenzionali; qui l’obiettivo consiste nel non puntare in ogni caso all’astinenza completa, ma anche all’obiettivo minimo della semplice riduzione del consumo e miglioramento della qualità della vita (Zuffa, 20156). Questo livello minimo di intervento risponde a una precondizione essenziale della cura delle dipendenze: la permanenza in trattamento, aspetto che tende al contrasto dei possibili eventi sfavorevoli e che appunto consente la messa in opera di un dispositivo di cura teso in prima istanza alla riduzione del danno.
Conclusioni
La sezione di Alcologia di una U.O.C. Ser.D. 2 deve affrontare il continuo incremento di utenza che da qualche anno si riscontra costantemente. Rispetto alla terapia, si è ritenuto fondamentale una filosofia di fondo che, innanzitutto, dia delle risposte essenziali a una larga fascia di utenti, in modo da raggiungere una parte considerevole delle persone che chiedono aiuto per problemi alcolcorrelati.
Come già sottolineato, un intervento semplice ma rigoroso, scientificamente fondato, riesce a ottenere dei cambiamenti importanti nei consumi e nello stile di vita delle persone in difficoltà, come tutte le ricerche testimoniano in maniera inconfutabile. Questo, nel nostro caso, si è concretato nel protocollo di intervento che abbiamo sommariamente descritto in queste pagine. Naturalmente un intervento di base può essere l’obiettivo primario di un trattamento che si sviluppa ulteriormente con risposte più specifiche, volte ad ottenere cambiamenti strutturali della personalità. Se tale evoluzione rappresenta la condizione ideale, in molti casi i trattamenti si fermano a tale livello basale, ma non bisogna considerare come parzialmente fallimentari le situazioni del genere. Nel campo delle dipendenze patologiche anche la semplice riduzione dei consumi è un risultato non marginale, particolarmente rispetto a una sostanza legale come l’alcol.
Tenendo presente queste considerazioni, l’obiettivo realistico di un servizio alcologico, perseguito attraverso una attenta ricognizione delle risorse cui attingere e delle esigenze cui rispondere, ci obbliga a confrontarci con la necessità di fronteggiare il disagio con i mezzi effettivamente a disposizione, all’interno della dialettica costi/benefici.
La pressante situazione in cui versa la società attuale in materia di consumi alcolici, con l’incremento esponenziale anche in fasce giovanili di popolazione (Fuller-Thomas et al., 2016), le amplissime occasioni di consumo per chiunque voglia farlo e, quindi, l’esposizione di un numero considerevole di persone a problemi alcolcorrelati di diversa natura (Dawson et al., 2005), ci interroga sulle misure da promuovere in merito al tema dell’educazione alla salute. Raggiungere i medici di base, stimolarli e formarli all’intervento breve (IPIB) in questo campo, come appunto dimostrano i diversi studi pubblicati (Bartoli et al., 2001), significa ottenere un livello assistenziale importante e, inoltre, consente di concentrare l’attività delle strutture specialistiche su situazioni particolarmente complesse di disagio.