Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in La pulsione aggressiva e la guerra in psicoanalisi, che afferma come all’interno di un setting terapeutico, possa aver luogo una guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione.
Il testo di Muzio Treccani e Rivardo mette in evidenza l’importanza della decisione nella clinica psicoanalitica, laddove con questo termine si intende la scelta di mettere in discussione il disagio psichico e tutto quanto ha contribuito alla sua formazione e perpetuazione, accettando di modificare e lasciarsi modificare da una nuova alleanza- quella col terapeuta- che aiuti il paziente ad abbandonare i precedenti legami, e ad aprirsi con spirito di iniziativa ad un’esistenza fatta di significati nuovi, curiosi, e per questo indubbiamente coraggiosi.
La rassegna dei casi clinici presentati ha il sapore di un dialogo che gli autori fanno con i lettori, con i pazienti e anche con se stessi, cercando di ricomporre frammenti di esistenze che hanno perso la propria simmetria e che, nel setting clinico, chiedono di ricevere una “nuova disposizione”.
Ma si tratta di una richiesta che non va esente da conflitti tormentosi. Emerge la presenza del no come resistenza aggressiva da parte di un paziente che, prigioniero nella propria immobilità, porta avanti una vera e propria battaglia contro l’analista, impedendogli di portare alla luce ciò che, a mezzo di controinvestimenti dolorosi, nasconde nelle trame dell’inconscio.
Il ruolo dell’aggressività viene posto in primo piano in un testo che afferma come all’interno di un setting terapeutico, non meno che in un campo di battaglia, possa aver luogo una vera e propria guerra, portata avanti con vigore narcisistico da parte del paziente che si nega alla guarigione, armato di quella coazione a ripetere che lo induce a perpetrare il sintomo (Freud, 1915-17; 1920; Green, 1983) nell’intento patologico di sedimentarne gli effetti, renderli irreversibili, pietrificarli fino a lasciarsene fagocitare.
Il profondo e spesso inconscio disagio per cui si accede alla terapia, rappresenta il frutto di una scelta il cui fine resta essenzialmente quello di proteggere il Sé da attacchi esterni. Il paziente si è condannato al dolore, e dunque alla patologia, soltanto per salvarsi. Si è identificato con l’aggressore, ha scelto di perpetuare l’esperienza traumatica in un dolore muto e pietrificante in cui l’aggressività ferina – rivolta alternativamente al Sé o all’altro – diventa l’unica alternativa per sopravvivere (Kernberg, 2016).
La grande decisione, sintetizzabile nella resa incondizionata alla patologia, diventa allora il frutto “necessario” di una sofferenza insostenibile. Una scelta dilemmatica in cui le alternative appaiono severamente dicotomiche: distruggere o lasciarsi distruggere. Ma la vittima è in ogni caso il Sé, e le storie cliniche lo dimostrano: l’aggressività endogena si scaglia contro il corpo, impedendogli l’evoluzione, la libera espressione, il processo trasformativo.
Ostaggio di un masochismo alternato a sadismo, il paziente prende a lottare contro tutti i possibili invasori del suo spazio, coloro che vogliono impedirgli di portare a termine una battaglia di cui la coazione a ripetere rappresenta al contempo l’arma e il vessillo. E la perseveranza patologica si esprime con l’ostinazione nella dipendenza, nel rifiuto del cibo, della novità, del miglioramento. Nel rifiuto dell’altro, e infine del Sé. Ma soprattutto, il paziente pervicacemente legato a Tanatos rifiuta il setting, per rimanere ostaggio di blocchi evolutivi che impediscono la revoca delle “grandi decisioni”, e condannano ad un destino di involuzione ed impotenza.
Il significato dell’arte nella decisione e nella resistenza
Il parallelismo con l’arte ricorre efficacemente in tutto il corpo del testo, divenendo una suggestiva metafora in grado di evidenziare quanto profondo sia il legame tra universo interiore ed espressione grafica, e quanto proprio quest’ultima, con le sue simbologie e le morfologie dense di significato psichico, costituisca -anche nel setting- un prezioso strumento di conoscenza.
Il riferimento al linguaggio espressivo si fa ancor più esplicito nell’ultima parte del testo, in cui vengono riportate storie di pazienti infantili le cui vicissitudini cliniche non trovano espressione soltanto attraverso lo strumento semantico, ma anche e soprattutto attraverso il linguaggio dei colori e delle linee.
È allora possibile vedere come, grazie all’immediatezza e alla genuinità dell’arte grafica, i disegni riescano a rendersi messaggeri dell’inconscia conflittualità tra la volontà di revoca e di prosecuzione della scelta, che nel bambino si rende ancora più tormentosa e inesprimibile.
Da questa guerra tutta interiore emergono esecuzioni grafiche in cui le linee traboccano di sofferenza, gli scarabocchi diventano ruvide espressioni di un’oppositività inconscia, gli spazi e gli orientamenti delle figure fungono da assetti di guerra, le asimmetrie nel foglio e le stesse lettere dell’alfabeto agiscono alla stregua di messaggi di attacco, mentre i colori e la pressione del tratto si trasformano in armi con cui portare avanti una battaglia tutta tesa alla difesa del proprio no. Un no narcisisticamente e inconsapevolmente legato a Tanatos, che disegna il miraggio di una salvezza laddove c’è soltanto distruzione (Green, 1983). Sono i casi nei quali la terapia non riesce a fare il suo corso, a disegnare quelle brecce salvifiche che feriscono sì, ma per recare beneficio. Come un balsamo sulla ferita.
Il coraggio della scelta
Il testo evidenzia come la guerra che il paziente deve portare avanti sia prima di tutto con se stesso, e come sia finalizzata a sconfiggere il no che lo sottrae al mutamento direzionale. Alla messa in discussione del prima, del mai, e dunque alla nuova decisione.
Da qui l’obbligo inesorabile della scelta: se continuare lungo il cammino dei propositi mortiferi, dolorosi ma rassicuranti perché ormai sin troppo noti; se aggrapparsi a quei meccanismi di difesa patologici che hanno limitato ma anche protetto dal proprio universo pulsionale e dal mondo esterno; se ostinarsi nel no e sottrarsi a quell’oggetto trasformativo che affascina ma fa anche tanta paura (Bollas, 1987)… O se al contrario cedere alla lusinghe di Eros e decidere di percorrere assieme al terapeuta una direzione nuova, incerta ma potenzialmente salvifica. Per convertire l’aggressività di morte in energia vitale.
È questa la grande scelta da compiere, prima e durante la psicoanalisi. E da qui in avanti trovare il coraggio di guardare le proprie incertezze, accettando di fronteggiare le conflittualità motivazionali che faranno del setting ora un luogo di salvezza ora una fonte di distruzione, e del terapeuta ora un generoso salvatore, ora un elemento persecutorio.
Il coraggio di trovare i luoghi della fobia e di lasciarli emergere- ( p. 165) è rappresentato efficacemente tramite il riferimento ad una tecnica pittorica mutuata dalla fotografia- il cliché-verre- incisione di un’immagine applicata su di un vetrino sporco di bitume, grazie alla quale la luce può penetrare l’oscurità creando un pregevole effetto visivo: “Il motto è dunque ora sia fatta luce. E così mi avvio lentamente verso il nuovo mondo della tonalità” (p. 173), sono le parole del pittore Klee, che nei suoi lavori ne faceva un largo impiego.
Tramutare il nero in bianco, portare la luce laddove c’è buio: la metafora evocativa di una luce che penetra l’oscurità di un vetro, e col suo apporto luminoso riesce a costruire autentiche immagini, richiama l’idea di un paziente che si affida all’Io ausiliario del terapeuta e gli consente di far luce nel suo mondo oscuro e inconoscibile, fendendo quelle difese, ostinate e aggressive, che costituiscono le sbarre di una prigione travestita di libertà.
Lo scopo, in pittura come in terapia, diventa allora l’avvento del bianco, nella cui dimensione ogni fragore si annulla, e il resto dei colori viene inghiottito per lasciare il posto ad un silenzio creativo e chiarificante che consente la fuga verso infinite nuove possibilità.
Costruito sul filo ambivalente di un disordine che, mentre si afferma ostinatamente, chiede di essere disconfermato, il testo di Rivardo e Muzio Treccani analizza la simbologia espressiva dei pazienti con coraggio e chiarezza, contribuendo a portare la luce laddove, in apparenza, sembra esistere la sola oscurità. L’espressione mortifera del no può così diventare, come nel vetro scuro di Klee, una fenditura significante in grado di sostituire il bianco di Eros al nero di Tanatos. In vista di una trasformazione, un’evoluzione pacificante e produttiva che in ogni guerra rappresenta la sola autentica vittoria.