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La morte in terapia

La morte è presente in ogni percorso di terapia in quanto parte dell'esistenza umana, sebbene molti terapeuti ne evitino la discussione diretta

Di Annamaria Nuzzo

Pubblicato il 28 Ott. 2021

Aggiornato il 29 Ott. 2021 10:56

Il timore della morte è un pensiero ricorrente che tende a ossessionare ognuno di noi per tutto il corso della vita, riversandosi sulle nostre fantasie e i nostri incubi.

 

Come uomini erigiamo difese, basate sulla negazione, al fine di affrontare la dura consapevolezza che la fine è ineluttabile.

Ne Il dono della terapia (2014), lo psicoterapeuta Irvin Yalom evidenzia come la morte sia presente in ogni percorso di terapia, sebbene molti terapeuti evitino intenzionalmente la discussione diretta della morte, trasmettendo implicitamente il messaggio che sia troppo terribile per parlarne o sia un tema inutile in terapia. In realtà, la prima buona ragione per cui dovremmo affrontare questa delicata tematica risiede nell’essenza stessa della terapia, quale esplorazione profonda ed esaustiva del corso e del significato dell’esistenza umana, all’interno della quale la morte ricopre un ruolo centrale.

“Sebbene la morte fisica ci distrugga, l’idea della morte può salvarci”: è questo il messaggio, semplice quanto profondo, da veicolare, secondo Irvin Yalom.

Molte grandi opere letterarie contengono un significato simile. Yalom riporta come, alla maggior parte degli operatori di salute mentale che si occupano di pazienti vicini alla morte, sia stato consigliato, durante la loro formazione, di leggere il racconto di Tolstoj «La morte di Ivan Il’ič»:

Ivan Il’ič, un meschino burocrate ormai agonizzante, si imbatte in un’intuizione sorprendente proprio alla fine della vita: si rende conto che muore male perché ha vissuto altrettanto male. La sua intuizione produce un grande cambiamento personale, e negli ultimi giorni la vita di Ivan Il’ič si riempie di una pace e di un significato mai raggiunti prima (p.102).

Esempi simili sono rintracciabili in Guerra e pace, dove Pierre, il protagonista, vive un cambiamento profondo dopo che la sua fucilazione viene sospesa all’ultimo secondo; nel Canto di Natale di Dickens, nel quale la trasformazione del vecchio protagonista Scrooge avviene quando lo spirito del futuro gli concede di essere testimone della propria morte e di vedere degli estranei azzuffarsi per accaparrarsi i suoi beni.

Galimberti rimarca come la morte non abbia una propria voce ma si esprima a partire da mediazioni culturali perché è sempre la cultura a interpretarne il senso. Egli descrive come il concetto di essere mortale sia radicato nella cultura greca, in base alla quale l’essere umano definisce sé stesso a partire dalla morte, intesa come la fine di tutto. A tal proposito, Galimberti evidenzia come l’essere umano sia qualificato dai greci “brotos” ossia mortale, e infatti Omero non utilizza mai il termine anthropos (uomo) nelle sue opere, ma narra le imprese dei “mortali”.

La morte nella cultura greca

È interessante osservare come, per i Greci, “la gioia della vita è resa possibile dalla crudeltà della morte, per cui il dolore e la morte non sono qualcosa che è capitato alla vita in seguito a una caduta o a una colpa, come nella tradizione giudaico-cristiana, ma sono intrinseci alla vita stessa come condizioni del suo accadere” (Galimberti, 2012).

In altre parole, i Greci hanno colto la circolarità della vita con la morte, la felicità e la gioia della vita inseparabile dal dolore e dalla morte, come termine ultimo e ineludibile.

Consapevoli del ciclo naturale dell’esistenza, i Greci riescono a elaborare risposte attive all’inevitabilità della fine; infatti, Galimberti sottolinea come, per i Greci, dal dolore per l’ineluttabilità della legge di natura nascano due importanti forme di resistenza, che sono il sapere, che consente di evitare il male evitabile, e, soprattutto, la virtù cioè la forza e il coraggio di vivere pienamente, al di là delle avversità (Galimberti, 2005). Dalla consapevolezza della morte, quindi, deriva la volontà di accrescere e potenziare la vita: è questa l’essenza della tragicità greca, un lascito prezioso da cogliere e far proprio.

La morte come parte dell’esistenza umana

Dal punto di vista filosofico, Yalom (2014) riporta il pensiero del tedesco Heidegger, il quale nella sua celebre opera Essere e tempo analizza le due modalità principali dell’esistenza: l’esistenza inautentica e l’esistenza autentica. La prima è l’esistenza quotidiana, monotona, nella quale l’uomo si lascia catturare e distrarre dal mondo, cadendo nel conformismo, in quanto incapace di essere propriamente sé stesso. L’esistenza autentica, invece, costituisce l’esperienza umana della libertà, nella quale l’uomo non fugge da sé stesso, non si conforma acriticamente agli schemi impersonali della società, ma si rivela per quello che propriamente è.

Quando viviamo la nostra vita in modo autentico, al di là delle preoccupazioni e chiacchiere di ogni giorno, liberi di esprimerci per ciò che propriamente siamo, entriamo in uno stato di particolare ricettività per un cambiamento personale. Solitamente, il passaggio dal modo di vivere quotidiano al modo autentico di vivere avviene attraverso le cosiddette «esperienze di confine», cioè episodi urgenti che ci scuotono via dalla bieca «quotidianità» e inchiodano la nostra attenzione sull’«essere» in sé. È bene sottolineare che il confronto con la propria finitudine – e quindi con la propria morte – costituisce l’esperienza di confine più potente, che apre alla possibilità di un cambiamento personale nel corso della terapia.

La morte e l’esperienza del lutto

Generalmente, ogni percorso terapeutico è costellato di esperienze che possono rimandare alla tematica della morte e della perdita, come il lutto di una persona cara.

Secondo Yalom (2014), la morte dell’altro è un’esperienza di confine la cui potenzialità è sfruttata troppo raramente nel processo terapeutico, in quanto si tende a concentrarsi in modo esteso ed esclusivo sulla perdita, sulle questioni rimaste in sospeso nel rapporto, sul difficile distacco dal defunto per poi rientrare di nuovo nella corrente della vita; tutte questioni sicuramente importanti, ma che non dovrebbero distogliere l’attenzione dal fatto che la morte dell’altro possa servire come monito e occasione di confronto, netto e pregnante, con la nostra stessa morte.

Yalom sottolinea come sorgano molte opportunità per discorsi correlati alla morte nel corso di una terapia; infatti, la mortalità forma l’orizzonte di tutte le discussioni sull’invecchiamento, sulle fasi della vita e i relativi cambiamenti corporei, oltre che di molti momenti significativi della vita, come compleanni e anniversari, la partenza dei figli per l’università e il conseguente fenomeno del nido vuoto, il pensionamento, la nascita dei nipoti.

Conclusioni

In conclusione, il discorso – difficile, faticoso e scomodo – sulla morte consente di parlare del significato della vita, la cui ricerca continua ci fa spesso precipitare in profonde crisi di significato. Non a caso, Jung riferì che un terzo dei suoi pazienti lo consultava proprio per questo motivo.

Un esempio calzante è riportato da Yalom ne Il dono della terapia e riguarda uno dei più comuni accorgimenti utilizzati nel corso dei laboratori sperimentali volti a incoraggiare il discorso sul significato della vita: chiedere ai partecipanti che cosa sceglierebbero come epitaffio per la loro tomba.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Galimberti, U. (2012). Cristianesimo: la religione del cielo vuoto. Feltrinelli, Milano
  • Yalom, I. D. (2014). Il dono della terapia. Neri Pozza Editore.
  • Umberto, G. (2005). La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica. Feltrinelli, Milano
  • Heidegger, M. (2005). Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano.
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