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Quando l’analista si ammala

Quando l'analista si ammala, questioni etiche si intrecciano in maniera inestricabile con aspetti dolorosamente umani. Una riflessione sull'argomento..

Di Giovanna Tatti

Pubblicato il 05 Mag. 2021

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino)

 

Qualche giorno fa cercavo di scrivere qualcosa rispetto alla situazione pandemica. L’articolo, se così può definirsi, intendeva partire dagli effetti sul macro sociale e proseguire ad imbuto sul microcosmo famigliare e individuale e terminava con una riflessione su cosa accada nelle stanze di analisi, all’epoca del coronavirus. In questo paragrafo parlavo della malattia nella stanza di analisi del paziente, ma anche e soprattutto di quella dell’analista.

Alcuni colleghi leggendolo mi hanno suggerito di scrivere di più su questo tema, molto meno esplorato e, effettivamente, con bibliografia meno ampia.

Riprenderò dunque il pensiero espresso nell’articolo e proverò ad ampliare le riflessioni dalla malattia da coronavirus, di cui si parlava lì, alla malattia in generale, fino alla morte.

E nelle stanze di analisi? Iniziavo così, interrogandomi su cosa fosse capitato ai nostri luoghi sicuri, a come avessero assunto forme e colori diversi senza la presenza dei pazienti, su come il covid li avesse trasformati, dalle abitudini di commiato, come la mano tesa a stringere le mani dei pazienti, alle operazioni di sanificazione con amuchinosimili, alle modifiche strutturali (una cosa per tutte: il telo di carta sul lettino, mi sentivo un’osteopata!).

Le nostre stanze si sono svuotate della presenza fisica dei nostri pazienti, talvolta anche di quella dei terapeuti che hanno iniziato a lavorare da casa in questa nuova (per molti) modalità che prevede che la terapia sia fatta a distanza, che i vissuti siano comunicati non più con i sospiri leggeri, l’occhio che si inumidisce, il non verbale dei piedi che si agitano, coi silenzi preziosi di condivisione densa di emotività; che la presenza dell’ascolto silenzioso non passi più attraverso l’odore della presenza, l’atmosfera co-creata e condivisa, ma attraverso i vari dispositivi elettronici, dalle semplici telefonate, alle video chiamate, ai vari zoom, skype, meet, teams, etc… Dove il non verbale del volto spesso arriva dissincrono dalla voce, la linea salta, l’immagine si blocca.. quante sedute in momenti delicati sono state interrotte dai vari: ‘mi sente?’, ‘l’ho persa un attimo’, ‘sento la voce metallica’…

Questa modifica di setting, ha richiesto un ulteriore maggiore esercizio della nostra capacità di mantenere un setting interno rigoroso, mentre era necessaria una grande flessibilità di quello esterno e relazionale.

Personalmente, non mi sono facilmente adattata a questo nuovo stile di lavoro che per molti aspetti mi pare il fantasma delle nostre analisi e ho fatto non poca fatica a proporre, specie ad alcuni pazienti più gravi e fragili, le sedute a distanza, con il pensiero che per quanto sia la sola cosa che ora si possa fare, non sarebbe la cosa migliore per loro.

Oltre alla fatica -anche fisica e di concentrazione- che faccio a gestire ore di sedute a distanza.

Il periodo non sarà certamente ricordato per la grande tolleranza fraterna, e anche tra noi psicoanalisti non abbiamo fatto eccezione. Ci siamo molto allenati a criticare il modo del collega di gestire le terapie in presenza e a distanza, tra chi ritiene che sia al limite dell’antisocialità vedere i pazienti in presenza per la responsabilità sociale che abbiamo e dobbiamo trasmettere ai pazienti, e coloro che ritengono sia irresponsabile non vedere i pazienti in presenza, perché si trasmette paura, non fiducia ed altro del genere. I toni si sono anche scaldati in alcuni momenti e la rete ha ospitato talvolta scambi di opinione piuttosto accesi.

Come spesso accade, e per fortuna, la maggior parte di noi si situa tra queste posizioni estreme e considera le varie variabili personali e situazionali. Chiaramente, un collega 80enne non si sentirà sicuro a vedere pazienti in presenza, né probabilmente la maggior parte dei pazienti sentiranno di esporre il proprio terapeuta al rischio di essere contagiato. O ancora, chi lavora anche in strutture ospedaliere, comunitarie, o come nel mio caso in carcere, si è forse sentito di dover proteggere i propri pazienti perché si è soggetti particolarmente esposti e dunque potenzialmente più ‘pericolosi’.

E poi ci sono i casi in cui i pazienti si ammalano o, anche, i terapeuti si ammalano. Questo evento entra a gamba tesa nella relazione analitica. Pazienti che fino a quel momento avevano considerato il virus una brutta faccenda che però non riguardava nessuno di vicino, si sentono toccati. La malattia dell’analista attacca l’idea dell’indistruttibilità dello stesso e attiva angosce profonde di perdita e di abbandono. La costanza delle sedute salta, se il terapeuta non è in grado di lavorare, in un momento di confinamento che le rende così preziose anche per mantenere un senso del tempo che sembra aggrovigliarsi su sé stesso. La storia di ciascuno con le proprie trame traumatiche rappresenterà l’ordito che strutturerà i vissuti. A bocce ferme, questo sarà materiale prezioso per capire aspetti del sé profondi.

E all’analista malato che accade? Di nuovo, probabilmente, anche in questo caso la storia personale e professionale sarà una traccia impercettibile su cui si struttureranno vissuti, pensieri, emozioni. Sicuramente, potrebbe non essere semplice gestire il bisogno di tempo per sé, e la consapevolezza che questa malattia a differenza di altre è ora fonte di grande angoscia per tutti, pazienti compresi, e porterà a interrogarsi su quanto sia opportuno condividere coi pazienti e con quali pazienti.

Pazienti, medici e infermieri spesso finiscono con il fare l’indagine dei valori (febbre, saturazione, atti respiratori, terapia…) altri inviano messaggi per avere conferma che pur malato, il terapeuta sia ancora vivo. Una mia paziente, la cui prima analista morì in pochissimi mesi e data una sospensione della terapia in quel periodo, lei non venne avvisata fino a scoprire pochi giorni prima del decesso la malattia della analista e poi dai social della sua morte, ha avuto vissuti di grande angoscia, quando mi sono ammalata in primavera e ha dovuto verificare fossi viva ogni giorno e io ho avuto molto il pensiero di non dimenticarmi di rispondere ai suoi messaggi. E ho verificato più volte di avere inserito il suo telefono tra i contatti dei pazienti da avvisare consegnati a una collega e amica, laddove fosse accaduto qualcosa che mi avrebbe impedito di farlo personalmente.

Un’altra paziente la cui madre è stata operata più volte di cancro e che ha temuto di perderla, è entrata in uno stato di grande sofferenza e confusione all’idea di potermi perdere in un momento dell’analisi molto delicata per lei, e pur non osando mai disturbarmi con messaggi, si è dimenticata della sospensione delle sedute e mi ha telefonato, un lunedì al suo orario.

Chiaramente, è stato poi necessario rileggere questi vissuti e alcuni agiti, ripresa l’analisi, per poterli comprendere ed elaborare, con la disponibilità a volte faticosa di essere l’oggetto di cui si doveva parlare e talvolta il rappresentante persecutorio abbandonico.

L’analista che si ammala rappresenta in qualche modo la caduta dell’illusione, e una umanizzazione della persona analista (”allora anche lei è umana!”, esclama un paziente in analisi da 7 anni, dato che in questo tempo non avevo mai avuto nemmeno un’influenza), talvolta non semplice da tollerare per alcuni pazienti, soprattutto se accade quando l’analisi è in una fase iniziale.

Recentemente, un collega della SPI, Roberto Goisis ha scelto di pubblicare un articolo divulgativo sulla sua esperienza da paziente Covid. Lo fa in prima istanza su una testata piuttosto diffusa e condivide generosamente la sua esperienza da paziente, e da terapeuta paziente. Con tutte le difficoltà che la malattia dell’analista -in particolar modo ai tempi del covid- porta nella terapia. Tra le riflessioni che seguono questa pubblicazione, ne apre una interessante sulla vergogna. La vergogna per essersi ammalati, che credo si possa considerare sentimento abbastanza diffuso all’atto delle diagnosi. Ricordo numerosissime situazioni di persone che scopertesi ammalate, non volevano si sapesse ‘in giro’. Quando la malattia è una malattia contagiosa, forse questo elemento è ancora più marcato. La vergogna per essersi ammalati, ma anche quella di poter aver contagiato qualcuno che si confonde nella colpa, o di essere visti come più deboli.

La mia riflessione parte da qui, dalle considerazioni che seguono la malattia da Covid, ma cercherò di estendere la riflessione sulle malattie che costringono a convivere con esse per lunghi tempi, anni talvolta, e forse per fortuna, e che esitano nella morte. E proverò a ragionare intorno alla vecchiaia, e all’avvicinarsi alla fine dell’attività professionale. Cosa assai complessa in genere, ma il modo in cui noi definiamo la nostra professione ‘siamo psicoanalisti’ più che ‘facciamo gli psicoanalisti’, dice forse tutto rispetto alla difficoltà di rinunciare ad un aspetto identitario, talvolta preponderante nelle nostre vite.

Non è semplice fare un discorso organico, ma proverò a partire dalle analisi in corso coi miei pazienti, quando mi sono ammalata a marzo e come è stato poi riprendere, a distanza prima e in presenza poi. E su cosa accade nella mia mente di analista durante le interruzioni per malattia. Come si concilia la responsabilità verso i pazienti con il bisogno di essere paziente, e con la quota di regressione che questo porta fisiologicamente con sé? Mentre condividevo strategie (leggasi, difese) e fatica rispetto all’affrontare le settimane di malattia, una collega mi fa riflettere sull’impegno emotivo di occuparsi dei pazienti in un momento di difficoltà e malattia e di come questo, data anche la solitudine, potesse spingere a mettere da parte sé.

Nel ripensare a questi scambi mi pare di poter cogliere una sorta di risposta maniacale, nel mio cercare di pensare ai pazienti e nell’ ‘usarli’, come sostegno. Maniacalità e negazione che lottano contro l’idea della possibilità della morte, nonché la ribellione verso l’insulto narcisistico che la malattia mi riproponeva a distanza di pochi mesi.

Quando la malattia dell’analista mette in pericolo la vita e il terrore di morire è una delle possibilità che si sentono probabili, questioni etiche si intrecciano in maniera inestricabile con aspetti dolorosamente umani. La malattia fisica fa vibrare corde molto intime, che suscitano sentimenti d’inadeguatezza, di colpa, di vergogna e può attivare difese antiche pre-edipiche, di negazione, proiettive e narcisistiche. Secondo la comunità scientifica, in caso di malattie severe, si osserva generalmente il prevalere di condotte di negazione grandiosa, con tendenza all’isolamento e una certa chiusura narcisistica, in sintonia con quanto già affermava Freud (1914, 452).

Sempre Freud, l’anno dopo, prosegue: “Abbiamo mostrato una tendenza inconfondibile a mettere la morte da parte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo provato a farla tacere. Abbiamo anche un detto (in tedesco): ‘pensare di qualcosa come se fosse la morte’. Chiaro, come se fosse la propria morte. È impossibile immaginare la propria morte ed ogni volta che proviamo ad immaginarla, possiamo percepire che ancora stiamo in ruolo di spettatori. Quindi, la scuola psicoanalitica potrebbe avventurarsi nell’asserzione che nessuno crede nella propria morte o, dire lo stesso in altro modo, che incoscientemente ognuno di noi è convinto di essere immortale.” (S. Freud, 1915).” E ancora Eduard Klain, citando Kohut dice: “La capacità dell’uomo di riconoscere che la sua vita può finire e di agire conformemente a ciò potrebbe essere il successo psicologico più grande, anche se non si può escludere l’emergenza di un diniego velato nell’accettazione di transitorietà”

Gli oncologi in questo campo hanno prodotto ricerche molto interessanti, osservando che nei pazienti oncologici il livello di negazione della malattia è direttamente proporzionale al grado di severità della patologia: man a mano che ci si avvicina alla morte, la negazione diviene sempre più massiccia. Un’interessante ricerca del 2007, che analizzava tra le variabili anche la professione dei pazienti, rileva che l’atteggiamento difensivo descritto si riscontra anche nei medici e negli psicoterapeuti (Tamburini e Murru, 2007). Ancora, Vigneri ci dice che «il fenomeno clinico della negazione», nel caso di situazioni cliniche severe, “è talora talmente evidente e conclamato da potere essere considerato alla stregua di un’allucinazione negativa” (2010, 59).

Nel periodo di malattia, quando le sedute erano, dunque, sospese, ho cercato di consentire ai pazienti di avere la possibilità di scrivermi. Ho scelto di chiamare i pazienti quando la situazione ha reso chiaro che non avrei potuto lavorare i giorni successivi, e dire loro in pochissimi minuti, che ero ammalata e non ero in grado di lavorare. Ho deciso di chiamare perché un messaggio avrebbe potuto lasciare spazio a fantasie di maggiore gravità (non può nemmeno parlare) e perché volevo sentissero dalla mia voce la prudente fiducia nell’evoluzione. Ho ripetuto a tutti che ero seguita da un infettivologo e dal mio medico e che ero curata al meglio.

Non ho fatto video chiamate, e mi sono poi chiesta se sia stata una scelta adeguata per i pazienti, quanto sicuramente era per me che mi sentivo inguardabile. I pazienti tutti, o quasi, mi hanno affettuosamente fatto gli auguri, detto di non preoccuparmi e chiesto se potevano disturbarmi con dei messaggi. Ho detto a tutti di sentirsi liberi di scrivermi, e che avrei cercato di rispondere.

Alcuni hanno formulato domande più specifiche e ho scelto di dire sempre la verità, non sempre tutta.

Forse questo è stata una delle difficoltà maggiori. Quanto, cosa, a chi è opportuno dire? E quando? Appartengo al gruppo di analisti che ritiene fondamentale l’autenticità, e che considera le self disclosure, se ben adoperate, un utilissimo atto clinico. Ma sulla mia capacità di valutare la disclosure, in quei momenti ho avuto dubbi. Ho cercato di considerare la storia del paziente, con l’idea che la mia malattia in un momento difficile come era il primo confinamento era di per sé fonte di grande allarme, ma che sarebbe chiaramente stata ‘traumatica’ se avesse in qualche modo finito per ripercorrere il dedalo di sentieri traumatici di ognuno di loro e, viceversa, avrebbe potuto essere l’occasione per qualcosa di diverso. Questi pensieri in forma un po’ di bozza hanno attraversato la mia mente alle comunicazioni iniziali di malattia, ma anche quando decidevo se o come rispondere a messaggi (tanti) e telefonate (poche).

Il rientro al lavoro mi ha permesso di capire meglio cosa ha attraversato l’animo dei miei pazienti nei giorni di malattia. Alcuni hanno fatto appello a tutte le loro energie per dimostrarci che il lavoro fatto era sufficientemente solido da sopportare il terremoto. Altri hanno descritto solo mesi dopo, alla vigilia della separazione estiva, l’angoscia che li aveva attraversati. Una donna mi disse che si era chiesta moltissime volte se io fossi spaventata e se qualcuno mi stesse aiutando. Aveva assistito la mamma malata, che la aveva investita per lunghi periodi, del ruolo salvifico (e maledetto, aggiungo io) di essere la sola in grado di sostenerla, di farla mangiare, di farle fare la terapia quando voleva rinunciare…sentire di non poter fare nulla per me era stato terribile. L’idea che potessi entrare in ospedale e non uscirne più, la aveva paralizzata per notti, fino a che ‘per errore’ mi chiamò e sentì la mia voce. Temeva di non sentirla più. Invece così aveva verificato fossi Viva.

Un’altra paziente, in questa seconda malattia, mi dice ad un certo punto che per giorni si è arrovellata nel conflitto ‘scrivo per chiedere come sta’ o ‘non scrivo’. Arriva lei stessa a comprendere l’angoscia che si cela dietro l’idea del ‘disturbo o non disturbo?’, ‘è opportuno o non è opportuno?’ e che ha origine nell’angoscia terribile di sapere che io potessi stare molto male. O non risponderle per qualunque ragione, ma che lei in quel momento avrebbe attribuito a un peggioramento di salute. Questo ‘meglio non sapere’ ci ha permesso di tornare insieme su alcuni temi relazionali e situazioni raccontate dalla paziente dove lei si è totalmente ritirata dalla relazione per paura della perdita. La ‘nostra’ vicenda legata alla malattia ci ha permesso di esplorare emozioni prima non contattabili. E a lei di sperimentare di potere non fuggire totalmente (come aveva fatto con la fantasia che la seduta dopo la sospensione sarebbe stata annullata, da me o da lei).

Ho scelto di rispondere alle domande e ‘autorizzarli’ a farle. Un paziente, la cui madre morì suicida quando lui era ancora un bambino, dopo alcuni giorni mi scrisse dicendomi che non aveva osato scrivermi prima perché non voleva essere intrusivo e aveva chiaro quanto il nostro lavoro negli anni di analisi aveva dovuto lavorare sul bisogno di controllo estremo, ma ci teneva che sapessi che mi pensava. Sono stata colpita dalle fantasie mai emerse, o mai condivise, rispetto alla mia persona e alla vita personale. Alcuni mi hanno immaginata sposata con figli, altri sola, alcuni coloro che sono in analisi da abbastanza anni da aver conosciuto la mia seconda gravidanza, si chiedevano come potesse essere difficile per i bambini, identificandosi, talvolta nella me sola chiusa in camera, talaltre nei miei figli costretti alla distanza dalla loro mamma e, forse spaventati.

Non sono mancate, chiaramente, rabbia e delusione. Come quella espressa da G col suo grande bisogno di controllarmi e assoggettarmi. G è un giovane uomo con dei tratti perversi e un nucleo ambiguo rilevante e alla sospensione delle sedute in presenza, mi aveva chiesto di poter fare delle video chiamate (è un paziente sul lettino e coi paziente sul lettino, abbiamo in genere continuato a non vederci durante la seduta, se non per i saluti iniziali e finali o con una seduta video ogni tot). Io avevo accolto la richiesta senza analizzare abbastanza la domanda, credo perché mi sentivo in colpa per la modalità a distanza; così in breve, dopo la malattia, diventai una delle donne che guarda nei siti porno, una delle tante a video che fanno quello che lui dice di fare, che ci sono quando decide lui e che sono sostituibilissime.

Un elemento che è spesso stato presente nelle fantasie dei pazienti e nel racconto del loro vissuto è il dolore per non poter essere di aiuto. L’analista è necessariamente una persona da cui si dipende e da cui ci si sente aiutati. I pazienti conoscono la nostra volontà di stare con loro nei loro momenti peggiori attuali o passati e quando l’analista si ammala, invece, ci si sente quasi nessuno, di non poter fare nulla, se non evitare di aumentare il peso.

Viceversa, come mi ricorda una collega che ha da poco più di un anno affrontato un intervento e le cure per un carcinoma, il timore di aumentare il peso -ai pazienti, questa volta- è la ragione manifesta per cui alcuni colleghi decidono di non dire ai pazienti che sono ammalati.

La vergogna

“Io mi rimprovero qualche cosa – ho paura che altre persone lo sappiano; mi vergogno quindi di fronte agli altri.” Freud (1895, p. 53).

Lo scontro traumatico con la caducità e con il limite (De Masi, 2002) fa vacillare la struttura narcisistica del sé: come oltre un decennio fa dichiarava Robutti, recuperando un pensiero di Morrison, l’analista colpito da un’affezione a rischio di vita tende di solito a nasconderlo, perché ha paura che la notizia si diffonda, che i colleghi non gli diano più credito e che si riducano le sue opportunità d’impiego (2009).

Morrison scriveva pagine illuminanti su questo tema così delicato, come la vergogna dell’analista ammalato, sottolineando come questo sentimento possa derivare anche dal timore che la stessa comunità dei colleghi ti consideri inadeguato, non più affidabile, colpevole e ti precluda la partecipazione alla sua vita societaria (2008).

E poi c’è quella che qualcuno definisce vergogna controtransferale.

La vergogna nei confronti dell’analizzando può derivare dall’avvertirsi temporaneamente deficitario riguardo alle proprie competenze e alle funzioni di holding e di rêverie.

Credo questo affetto possa anche legarsi al timore di essere considerato un ‘oggetto deteriorato’: lo sguardo dell’analizzando può cogliere i segni della malattia del terapeuta, che si sente “scoperto” nella sua intima fragilità. Qui si torna al delicato tema della self-disclosure di cui parlerò a breve.

Se consideriamo la vergogna, come emozione che fa da protezione verso lo scivolamento verso zone grigie e ambigue (Amati Sas), l’emersione della vergogna controtransferale può rappresentare un prezioso indice di autenticità, di sincerità, di incorruttibilità e di coerenza, utile a segnalare la normalità delle difficoltà umane, senza doversi trincerare alle spalle di difese inconsce più arcaiche che possono ‘inquinare’ il campo analitico.

Self disclosure

La self disclosure costituisce sempre una scelta complessa, se la si vuole intendere al servizio della analisi e della relazione e non come agito dell’analista. Mi riferisco qui, quindi, solo alla definizione più ristretta di self disclosure e che prevede la condivisione con l’analizzando di pensieri ed emozioni del terapeuta, che vengono quindi offerti al campo analitico e messi a disposizione dell’analisi. So che è superfluo specificarlo, ma self disclosure non è dire quello che ci passa per la testa.

Bollas (1983), ritiene la disclosure centrale nello stabilire un discorso intersoggettivo.

Mi pare utile ricordare la differenza tra self-disclosure e self-revelation come concettualizzata da Levenson, dove quest’ultima fa riferimento a ciò che di sé l’analista comunica suo malgrado, in modo quindi involontario -rivela, appunto-, al paziente. E questo passa in condizioni normali, attraverso il nostro gusto per il vestire, come arrediamo lo studio, le borse che usiamo, se ci trucchiamo o meno, se usiamo giacca e cravatta o jeans e scarpe da tennis. E, in tempo di malattia, se siamo dimagriti, se abbiamo le occhiaie, se sembriamo pallidi e stanchi, se tossiamo (in questo periodo soprattutto!).

L’analista malato non può eludere la self-revelation e deve scegliere quanto condividere (self-disclosure). Durante la prima gravidanza, ancora allieva al 3° anno di scuola, mi trovai di fronte a questa difficile questione. Lo dico ai pazienti? E quando lo dico? O aspetto siano loro a coglierlo? Scelsi di attendere le loro prime intuizioni e dichiarazioni coscienti o preconsce (una signora sognò che prendeva in braccio mio figlio, pochi giorni prima che io scoprissi di essere incinta) e partire da lì per informarli sulla gravidanza e su come la terapia sarebbe proseguita, salvo imprevisti, che ovviamente ci sono stati!

Un unico paziente – peraltro quello che portai come caso di tesi – non si accorse minimamente e così al sesto mese decisi di dirglielo. Ovviamente, dalla seduta successiva, notava la pancia…Quanta realtà dell’analista è colta dall’analizzando e quanta, invece, va dichiarata, svelata dall’analista?

Ovviamente, il problema è più semplice da risolvere quando si ha a che fare con una gravidanza che con una malattia; o ancora se si tratta di malattie in acuzie, o di malanni che non mettono a rischio la vita e che si risolvono più o meno velocemente, senza segnare permanentemente la vita e il corpo della persona. Mentre è chiaramente più complesso se si ha a che fare con malattie croniche, magari degenerative.

Per sottolineare l’importanza di pensare cosa e come dire ai pazienti di sé, si è scelto di parlare di ‘delicate self-disclosure’, che se ben intendo si caratterizzerebbe dalla ulteriore cura e dalla modulazione di cosa si condivide con l’analizzando in considerazione dei suoi bisogni e della sua sensibilità e, immagino, dell’epoca della analisi. La ricerca di una terminologia ancora più specifica ‘delicate self disclosure’, richiama quanto il tema della self disclosure sia delicato, appunto. Come nelle ricette di cucina: q.b.

Ritengo la condivisione di aspetti personali (ma che necessariamente finiscono col riguardare la coppia al lavoro) possa rappresentare un’esperienza umana tanto normale e comune da poter essere impiegata a favore del processo analitico e rivelarsi per il paziente un’occasione per mettere in campo aree del sé più adulte e mature.

Tuttavia, forse questo riguarda più le analisi già avviate che quelle all’esordio.

Van Damn segnala che con i pazienti colpiti da reiterate esperienze abbandoniche e assillati dall’angoscia per la perdita dell’oggetto, l’analista corra maggiormente il rischio di offrire loro troppe informazioni, incorrendo in gravi errori di tecnica (Van Damn, 1987).

Il delicato svelamento del sé comporta precise scelte di natura etica e di tecnica, che l’analista deve dosare in base alle caratteristiche del paziente che sta curando, ma anche ponendo molta attenzione al proprio stato mentale. Clark (2009) scrive che sono ormai un esercito i pazienti rimasti soli, a causa di una grave infermità o della morte del loro analista, di cui nessuno ha saputo più nulla (2009). Sono rimasta molto colpita che all’interno della Società di Psicoanalisi, nel 2005, Traesdal, per fronteggiare questo pericolo, propone la costituzione di una sorta di “comitato di crisi”, che avrebbe il compito di tracciare delle lineeguida di comportamento da tenere in tali situazioni estreme.

Mi rendo conto di aver scritto pensando solo di malattie organiche o primariamente organiche, tuttavia sarebbe sciocco negare la possibilità di disturbi di altra natura.

La vecchiaia

Sono molto in difficoltà rispetto a quest’ultima parte di riflessione. Sebbene io sia ancora lontana dall’età della vecchiaia, mi rendo conto che i miei Maestri sono tutti ormai abbastanza in là con l’età. Per lo più, da quel che so, in sufficiente buona salute, ma il pensiero che la morte possa riguardare loro mi addolora molto ed è un pensiero davvero difficile da sostenere.

Altrettanto difficile è però pensare a quei pazienti orfani che hanno ‘accompagnato i loro analisti alla morte’, rimanendo accanto ai loro analisti con gratitudine, ma anche con la sensazione di poter rappresentare per l’analista-paziente una qualche fonte di ‘rifornimento’.

Ormai anni fa durante un seminario incontrai una mia vecchia compagna di università che mi disse di aver finalmente deciso chi sarebbe stato il suo psicoanalista. Eravamo diventate ‘più intime’ quando il papà si ammalò per un tumore e in un tempo relativamente breve, morì.

Quando la incontrai e mi disse chi era lo psicoanalista scelto, mi sentii in grande difficoltà. Conoscevo non personalmente il collega, ma sapevo che aveva appena ricevuto una diagnosi oncologica. Mi chiesi se dovessi dirlo o meno e decisi di lasciare a loro la gestione della faccenda.

Anni dopo durante l’estate scrissi a questa amica, sapendo della morte del suo analista per sapere come stava e lei mi rispose che non sapeva più nulla del Dr S, che mesi prima quando andò in seduta la collega dello studio la avvisò che non ci sarebbe stata la seduta perché era in ospedale e che non sapeva se avrebbe ripreso. Il giorno dopo la andai a trovare, su suggerimento di una collega con molta più esperienza di me, e le dissi che era morto un mesetto prima.

Passano mesi e la collega mi chiede indicazioni di analisti donne, se ricordo bene. E dopo un po’ di tempo, ancora, mi dice che con l’andare avanti della seconda analisi ha capito cosa era accaduto nella prima, con l’aggravarsi della situazione.

Quanto va condiviso coi propri pazienti? Non lo so. In alcuni momenti ho pensato che si abbia il diritto di sapere se il proprio analista ha una malattia grave e mortale. Di per sé questo non impedisce di essere un buon analista. La morte è parte della vita.

Spesso però mi sono chiesta cosa spinga al di là di possibili ragioni concrete e/o economiche gli analisti a lavorare e prendere nuovi pazienti anche in età molto avanzate.

Se uno inizia con un analista poniamo di 70 anni, a parte c’è il fantasma della morte, anche se non avverrà perché l’analista può sopravvivere alla terapia del paziente e al paziente stesso, talvolta, però la fantasia della morte di quell’analista sarà presente inevitabilmente.

Danielle Quinodoz, nel suo “Invecchiare. Una scoperta” descrive il vissuto di un analizzando che sente la paura della morte nel suo analista: “Se gli analizzandi esprimono l’ansietà verso la morte dello psicoanalista, lo psicoanalista deve trovare conforto con la propria ansietà verso la morte e deve avere la libertà interna per ascoltare quello che l’analizzando ha da dire e/o discuterlo apertamente. Se gli analizzandi hanno l’impressione che quella discussione provoca l’ansietà nello psicoanalista o la negazione, gli analizzati eviteranno il tema o lo toccheranno in modo che l’analista non sarà capace di leggere tra le righe e non andrà al di là del senso delle parole dell’analizzando ed infine non lo capirà.”

Con Freud succede l’opposto, dice Jones (1961): “Una paziente seppe che era malata gravemente e non poteva parlarne. Quando Freud scoprì che lei nascondeva qualcosa, le disse: abbiamo solo uno scopo ed una lealtà, in psicoanalisi. Se si rompe questa regola, si danneggia qualcosa più importante di ogni considerazione che mi deve.”

Klain, psicoanalista croato, conferma i grandi problemi quando muore lo psicoanalista ed evidenzia che è più facile quando muore il gruppoanalista perché un altro collega riceve tutto il gruppo. Questo gruppo parla dell’analista, ma ha una forza: sono insieme, è tutto il gruppo che va dall’altro analista. Nency Eduard una gruppoanalista americana, scrisse un buon articolo su questo. Quando un suo collega morì, lei ha accettato il suo gruppo. Solita lavorare coi sogni, descrive come i sogni dei pazienti di questo gruppo erano molto interessanti perché nei sogni, ci dice,  avveniva questa elaborazione della vita e della morte del primo gruppoanalista.

Una collega anziana mi ha raccontato di recente di uno psicoanalista Milanese che affrontò una malattia molto grave e che purtroppo lo uccise. Mi raccontava di come lui avesse coraggiosamente accompagnato i suoi pazienti alla di lui morte, di come scelse per ognuno di loro un possibile nuovo analista e li accompagnò nel passaggio. Mantenendo la sua funzione anche nel momento della separazione. E fatico a pensare il dolore che deve avere abitato i loro animi in quei mesi, ma ho idea sia stato un passaggio di grande cura e generosità.

Il tema della morte c’è come fatto reale, però per noi è importante considerarlo per i suoi aspetti simbolici. Chiaramaente, la patologia organica fa paura in quanto tale, sul piano di realtà. E lo stesso vale per la vecchiaia. L’idea della demenza, il ‘rimbambimento’ fa paura in quanto tale. La morte fa paura in quanto morte. Tuttavia, credo ci siano una serie di simbolismi intorno alla morte che rivestono ruoli fondamentali nella dinamica transfert controtransfert, o nei casi dei gruppi (di cui però so molto poco) rispetto alle dinamiche di rispecchiamento controrispecchiamento multiplo

Quando i pazienti parlano della vicinanza della morte dell’analista, dice Klain parlando della sua esperienza di terapie di gruppo, forse lo vogliono ridimensionare: ormai ti sei fatto vecchio datti una regolata, rassegnati. E questo potrebbe essere un significato. C’è, però, sicuramente da considerare la morte come separazione, come perdita di affetti, come perdita di legami affettivi. E ancora, e soprattutto, la malattia e ancora di più la morte comportano, una ferita narcisistica profondissima. Mi chiedevo, nello scrivere, quanto queste cose circolino a livello non cosciente o pre cosciente, nella situazione individuale e gruppale.

Mi rendo conto che per me non sia semplice approcciarmi al tema dell’anzianità, per le ragioni di età di cui ho accennato sopra. Questo sentimento però di scrivere da bambina di qualcosa che riguarda i grandi, mi rievoca una sensazione spesso sperimentata nei gruppi di lavoro a cui ho partecipato, o nelle associazioni in cui appartengo, dove spesso sono la più giovane, e di conseguenza, meno esperta e con riflessioni meno sostanziose da condividere. È innegabile che da un punto di vista sociale, la nostra è una professione che richiede un lungo tempo di formazione e di conseguenza si raggiunge una buona stabilità non da giovanissimi. Insomma, io a 40 anni sono una giovane analista (proprio qualche giorno fa una collega Senior apre una mail scrivendomi ”Mia cara giovane amica”),

Mi chiedo quanto questo possa avere un peso nel transgenerazionale nel mondo delle società di psicoanalisi. Credo di aver sentito più volte parlare di gereontocrazia psicoanalitica, degli anziani che non vogliono o non possono o non riescono a lasciare spazio. Mi sono chiesta se fosse legato al timore che il grande lavoro fatto in questi decenni possa essere disperso da chi non ha dovuto fare le lotte che invece hanno caratterizzato i decenni precedenti, o ancora se ci sia una specie di illusione di eternità, o ancora se la vita degli psicoanalisti possa essere per alcuni talmente totalizzante che se non si è psicoanalisti cosa si rimane? Molte volte ho sentito alcuni dei miei maestri, ho in mente Correale ma è in buona compagnia, parlare dell’importanza di avere una vita ricca, di legami, interessi, passioni. I nostri pazienti non possono essere il nostro massimo rifornimento affettivo e narcsitico, forse, anche.

Da questo forse deriva il fatto che si prosegue la professione fino a età molto avanzate, spesso fino alla morte. Anche recentemente alla morte di un collega anziano, dopo lunga malattia, si è commentato: “era in studio fino a due stettimane fa“…

Ipotizzo che in qualche modo noi abbiamo bisogno dei nostri pazienti, in che misura dipende da quanto detto sopra. È possibile che, in vecchiaia, questo antico e originario bisogno possa farsi più forte?

Riconosco con imbarazzo che nei momenti peggiori della malattia, recuperare la funzione terapeutica verso i miei pazienti mi è stato utile, a sentirmi meno disorientata; mi chiedo se in modo simile con l’avvicinarsi alla fine della vita noi si senta il bisogno del lavoro coi pazienti. Che diventa quindi irrinunciabile.

D’altra parte, però, come potremmo rinunciare all’esperienza di alcuni di nostri maestri anziani e perché i pazienti che potrebbero tanto essere da loro aiutati dovrebbero esserne privati? Concludo con le parole di  Danielle Quinodoz (2010) che lo dice meglio di me: “Per uno psicoanalista è molto importante essere cosciente della propria età. Infatti la consapevolezza di invecchiare influisce direttamente sul lavoro e sulla responsabilità professionale […] Alcuni colleghi anziani hanno grande esperienza e sarebbe un peccato privare gli analizzandi di questa risorsa….”

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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