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Recensione di “Un attimo prima di cadere” e riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Nel volume Un attimo prima di cadere i personaggi sono l'autore e narratorre stesso, Giancarlo Dimaggio, e pazienti con disturbi di personalità

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 13 Set. 2021

Un attimo prima di cadere di Giancarlo Dimaggio (2020) è un’opera particolare, a metà tra il caso clinico romanzato e l’autoconfessione.

 

Non è e non vuole essere un libro scientifico, ma può vantare un fondamento scientifico. Appartiene più alla narrativa che alla saggistica ma si mantiene in equilibrio su un margine indefinito tra questi due terreni, perché i personaggi delle storie che racconta sono esplicitamente dei pazienti affetti da disturbi di personalità, che è il campo di competenza professionale e clinico dell’autore. Personaggi, beninteso, che sono il frutto di un rimescolamento di personaggi reali, al fine di proteggerne la privacy. Vi è poi un altro personaggio che è l’autore Dimaggio stesso, narratore che interviene non solo come terapeuta ma anche con la propria vita e i propri dolori tra i più intimi di quelli che possono capitare a qualcuno, confessati con estrema sincerità. Invitiamo chi si sia incuriosito a leggere il libro. Sarà una lettura istruttiva e appassionante.

Tuttavia, non si tratta di un diario personale. Come già detto, l’autore mantiene un sufficiente margine di ambiguità letteraria in cui rappresenta sé stesso come il personaggio narrante di una storia raccontata al caminetto. Non è una cronaca immediata, epperò l’autore/personaggio fa intendere che, come in un diario, tutto (o forse non proprio tutto, ma molto) ciò che racconta è vero. Si tratta insomma di un caso di auto-fiction, una forma di romanzo che è di grande successo da alcuni anni a questa parte. Ne è un esponente a esempio il romanziere francese Emmanuel Carrère. Anche lui scrive romanzi in cui c’è egli stesso come personaggio e in cui racconta fatti che sembrano capitatigli davvero, eppure raccontati in una maniera tale da essere comunque romanzi. Insomma, mantenendo un margine di ambiguità che non riguarda tanto la distinzione tra il vero e il non vero (tendenzialmente, nei romanzi di Carrère è tutto -o quasi- vero; epperò poi pare salti fuori che non tutto sia vero e molti episodi sono inventati) ma raccontato sempre in una maniera tale per la quale quel tutto, pur essendo vero, in fondo lo è come romanzo e tutta la storia in realtà fa parte di un universo parallelo, un altrove che è l’altrove del romanzo e non il qui e ora della realtà.

Qualcuno sostiene che l’auto-fiction è un genere recente ma, a pensarci bene, questo non è così esatto. Ad esempio, alcune opere di Dante sono costruite così. La Vita Nova è un’auto-fiction in cui tutto è vero e tutto è racconto; ma anche la Commedia -sia pure in misura minore data l’ambientazione soprannaturale- ha come personaggio principale Dante stesso che racconta episodi reali della sua vita, facendone romanzo non perché inserisce aspetti fantastici (a parte l’ambientazione soprannaturale) ma per il particolare sguardo da narratore che assume l’autore. E vi sono altri esempi. I romanzi di Primo Levi, a esempio, o anche -uscendo dalla narrativa- i diari di André Gide, i saggi di Montaigne o alcune opere di Kirkegaard sono costruiti allo stesso modo: raccontare sé stessi per fare esplorazione filosofica, scientifica o, nel caso di Un attimo prima di cadere, clinica.

Dimaggio, tuttavia, ci tiene a suggerire che la sua operazione clinica e narrativa sia qualcosa di nuovo. Ammette che l’auto-fiction applicata al personaggio dell’autore stesso non è qualcosa di nuovo, ma qui l’autore (o il personaggio?) ci tiene a dire che nel suo romanzo ci sono anche casi clinici, che da una parte rimangono casi clinici trattati con aderenza al dato reale (ma al tempo stesso correttamente mescolando insieme più casi al fine di proteggere la privacy del paziente stesso) ma poi diventano anche inevitabilmente letteratura perché inseriti in un contesto di racconto, però di auto-fiction, e sono gestiti per creare una trama con una suspence romanzata: e infatti le storie cliniche e del personaggio-autore riservano colpi di scena che è bene non rivelare. No spoiler.

Si può concedere all’autore e personaggio che questo incrocio di più livelli tra la serie di casi clinici per esporre un modello teorico, la storia personale e il romanzo in forma di auto-fiction sia un luogo nuovo e originale. E non è finita. Dalla narrazione si torna alla scienza perché l’autore sembra a volte suggerire che la storia personale del personaggio/autore è esposta con disarmante sincerità (che però è narrazione e non diario; e poi rimane il dubbio che, come in Carrère, salti fuori che non tutto sia vero e alcuni episodi siano inventati) non solo per fini narrativi ma anche scientifici, perché nel modello di Dimaggio (Dimaggio, Ottavi, Popolo e Salvatore, 2019) – che è poi quella terapia metacognitiva interpersonale (TMI, Semerari, 1999)- la self-disclosure, l’auto-rivelazione del terapista, svolge un ruolo clinico chiave, essendo uno degli strumenti di cura. E quindi il libro è una self-disclosure del personaggio/autore e di uno dei teorici della TMI?

Eppure, a pensarci bene anche questa commistione di narrazione e terapia non è del tutto nuova. Freud cosa faceva nell’Interpretazione dei Sogni e altrove se non questo? Anche lui, infatti, raccontava casi clinici in cui c’era anche lui non solo come terapeuta ma anche come personaggio. Basti pensare al suo ruolo di personaggio sia nel piccolo Hans che nel caso di Dora, ma anche in altri casi clinici. L’intera Interpretazione dei Sogni è una gigantesca auto-rivelazione di Freud che in essa recita al tempo stesso i ruoli di narratore, personaggio e perfino paziente di sé stesso. E tuttavia si può ancora una volta concedere un margine di originalità: Freud giocava sul confine mantenendosi però, sia pure a stento, al di qua della fiction, mentre in Un attimo prima di cadere Dimaggio l’autore si posiziona, anch’egli a stento, al di là del confine, più nella fiction che nella clinica. Oppure no? Il libro vuole essere un libro di clinica e vuole raccontare l’evoluzione di un ben preciso paradigma clinico, un paradigma che è quello particolare di Dimaggio, la sua variante di TMI che con lui è diventata anche una terapia esperienziale-corporea, e vuole raccontarne in parte anche le circostanze storiche e scientifiche di questa nascita. E per questo quindi, mettendo da parte le considerazioni sugli aspetti letterari del libro, è giusto parlarne anche come opera scientifica.

Un attimo prima di cadere è anche una testimonianza significativa del percorso peculiare del cognitivismo costruttivista italiano, percorso intrigante ma anche a tratti lontano da quello intrapreso nell’area del cognitivismo clinico di Beck. Una testimonianza che è caratterizzata, ancora una volta, dal fatto che essa è comunicata nella forma del romanzo di auto-fiction. In che senso? Nel senso che l’autore presenta sé stesso non solo come terapista o protagonista di una storia personale dolorosa, ma anche come studioso di psicologia che vuole accompagnare il lettore non esperto in psicoterapia cognitiva a comprendere le evoluzioni storiche di questa disciplina. Un’opera meritoria probabilmente, in un panorama in cui la cultura generale -anche quella elevata e non solo quella popolare- sembra essere incapace di andare oltre Freud e Jung lasciando nell’ombra tutto quello che è accaduto dopo la loro morte sia nella psicoanalisi che nelle psicoterapie non analitiche. Per l’uomo della strada ma anche per un accademico o un intellettuale nomi come quelli di Melanie Klein, Donald Winnicott, Carl Rogers, Abert Ellis o Aaron Beck sembrano non dire niente.

E qui però accade qualcosa nel libro di Dimaggio che rende quest’opera particolarmente adatta a capire la particolare evoluzione del cognitivismo clinico italiano. Qualcosa che dipende in parte dalla natura di questo libro, natura che è -scriviamolo ancora una volta- a cavallo tra fiction, auto-fiction e scienza. Questa natura anfibia aiuta l’autore a esporre l’evoluzione della psicoterapia cognitiva degli ultimi vent’anni non solo come studioso che conosce a fondo la letteratura scientifica della psicoterapia ma anche come psicoterapeuta medio, competente sì, ma che fa le sue scelte di aggiornamento professionale e culturale anche in base a preferenze personali. Infatti, in Un attimo prima di cadere il personaggio Dimaggio è costruito così bene e in maniera così credibile da esporre almeno in parte quelli che sono a nostro parere alcune caratteristiche culturali dell’ambiente clinico cognitivista italiano sì come si è formato a partire dagli anni ’70. E questo rende questo libro particolarmente leggibile non solo per l’uomo della strada ma anche per l’intellettuale però a digiuno di psicoterapia.

Queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivo costruttivista italiano sono rappresentate nel personaggio narratore con un’audacia che rimane in equilibrio tra la volontaria incoscienza e la consapevole ingenuità. Leggiamo ad esempio la franchezza con cui il personaggio narratore esprime la tipica rivalità tra cognitivismo costruttivista e cognitivismo classico alla Beck:

in Italia non si praticava il cognitivismo iper-protocollato che proveniva dagli studi di efficacia. Sembrava a tutti noi un filo rozzo, riduttivo, ci interessava di più la dimensione del significato personale. Impossibile dire se la declinazione tutta italiana che si praticava fosse meglio o peggio dell’ortodossa anglosassone. Io, in assenza di prove certe che nessuno ha mai raccolto, voto per: meglio noi. (Dimaggio, 2020, p. 37).

L’oscillazione tra personaggio e autore si osserva nella disarmante sincerità di quel chiedersi chi sia meglio tra razionalismo e costruttivismo, tra l’altro spudoratamente declinati etnicamente: uno italiano e l’altro anglosassone. E poi nel proclamare la superiorità del costruttivismo insieme all’ammissione della mancanza del dato empirico. Curioso modo di dare la vittoria a chi non ha giocato la partita. Qui è proprio il personaggio che parla, ma un personaggio che riflette realisticamente il modo di pensare di un praticante del cognitivismo che vive una sorta di rivalità tra il modello di riferimento che domina laggiù in America o in Inghilterra e la pratica che si coltiva in Italia e dà la vittoria al proprio ambiente culturale, in un comprensibile momento di vita vissuta e non di scienza applicata. Da un punto di vista scientifico al massimo si potrebbe accordare medesima efficacia ai due modelli, in cui il costruttivismo usufruisce -per osmosi da parentela- della stessa efficacia empiricamente dimostrata solo per il modello di “cognitivismo iper-protocollato”, ovvero il modello di Beck.

Altrettanto realistico ed espressivo è il fatto che altrove, lo stesso personaggio si rammarica che nel suo e nostro paese non sia possibile condurre studi controllati di efficacia della psicoterapia, rammarico che lascia perplessi dopo aver letto l’elogio della flessibilità non iper-protocollata dei terapeuti italiani, flessibilità sicuramente benemerita ma che però non facilita propriamente quegli studi di efficacia di cui lamenta la mancanza il personaggio narratore. Ma sarebbe errato rimproverare all’autore le contraddizioni del suo personaggio, che anzi vanno a merito dell’abilità dello scrittore di rappresentare realisticamente la relazione ambivalente che il cognitivismo italiano vive con la pratica clinica protocollata e riproducibile che permette la verifica scientifica. Che tutta l’operazione sia consapevole è confermato da altri passaggi narrativi che vanno a merito di Dimaggio, tra cui è da segnalarne almeno uno di vera e ammirevole poesia quando il personaggio racconta la nascita del suo amore davanti a un esercizio di disegno eseguito in coppia.

Eppure forse è possibile temere che queste caratteristiche culturali dello psicoterapeuta cognitivista e costruttivista italiano non sono solo costruiti ad arte per rendere realisticamente le umane contraddizioni della psicologia del personaggio ma siano insiti almeno in parte (beninteso, piccola, come è umanamente possibile e accettabile) nell’autore, ma non per sua responsabilità, ma perché inevitabilmente appresi all’interno di quell’ambiente in cui si è formato, un ambiente che a un certo punto ha tagliato in parte i ponti prima con la radice comportamentale del cognitivismo e poi con quella cognitiva classica, entrambe così anglo-sassoni, troppo anglo-sassoni.

Riflessioni su comportamentismo e svolta esperienziale corporea

Focalizziamoci ora solo sull’incrinatura tra psicoterapia cognitiva e radice comportamentale. Su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere può essere istruttiva. Questa frattura non è stata un evento accaduto solo in Italia, se pensiamo che un simile percorso sia stato imboccato da Michael Mahoney e da Arnold Lazarus, che da una formazione comportamentista approdarono e anzi fondarono la corrente costruttivista del cognitivismo, ripudiando almeno in parte il comportamentismo. Lazarus nel 1977 si chiedeva se la terapia comportamentale fosse sopravvissuta al suo compito storico. Questo ripudio si ripresenta anche nel cognitivismo italiano nell’introduzione del libro di Guidano e Liotti del 1983, tradotto e finalmente pubblicato in italiano nel 2019, quello che è a fondamento del costruttivismo italiano, in cui si esprimevano dubbi sul funzionalismo del modello comportamentale.

Questa separazione tra cognitivismo e comportamentismo è una storia strana. Nato come evoluzione da una teoria comportamentale ritenuta semplicistica, la psicoterapia cognitiva col tempo è sembrata diventare qualcosa di troppo mentale, di troppo separata dal vissuto emotivo. Di qui varie crisi e soluzioni, particolarmente sentite in Italia, in cui si cerca di recuperare l’aspetto esperienziale ed emotivo aprendosi a integrazioni dapprima relazionali e, ultimamente, appunto esperienziali e corporee. La domanda è: perché non recuperare anche gli aspetti comportamentali? Ed è proprio su questo punto che la lettura di Un attimo prima di cadere è illuminante.

Nel percorso del personaggio autore assistiamo alla rappresentazione di questo percorso culturale: l‘adesione iniziale dell’autore/personaggio alla psicoterapia cognitiva, la crisi generata dall’eccessivo razionalismo mentalistico e la soluzione con la svolta dapprima relazionale e poi esperienziale e corporea. E in tutto questo, un rapporto irrisolto con il comportamentismo. Da una parte, il personaggio/autore nella sua svolta esperienziale e corporea non può fare a meno di ammettere che il comportamentismo ha molto in comune con questa svolta. Cosa c’è di più corporeo ed esperienziale di un comportamento? Dall’altro però il personaggio/autore è comunque erede, ed erede orgoglioso, di una tradizione cognitivista e costruttivista che ha rigettato il comportamentismo non solo dal punto di vista teorico ma anche come pratica clinica e formazione. Lo stesso Dimaggio, con la sua solita disarmante sincerità, ammette poche pagine dopo che le tecniche comportamentiste di esposizione le fanno “in quattro gatti” (Dimaggio, 2020, p. 29). Ancora più stupefacente è che le basi teoriche del comportamentismo così come sono state esposte da Skinner sono rifiutate perché esse, secondo l’autore/personaggio, fanno “ribrezzo” (Dimaggio, 2020, p. 27). Ne consegue che il tributo di Dimaggio sia sentito ma vissuto confusamente, come qualcosa con cui in fondo non si è fatto i conti. Inevitabilmente, la successiva svolta esperienziale e corporea del personaggio/autore è sviluppata non rivolgendosi al modello comportamentale (e cognitivo) ma a una (rispettabilissima) radice umanistica e psicodinamica, soprattutto quella che fa capo a Wilhelm Reich e poi al suo allievo Dara Lowen, l’ideatore del grounding.

Questa sensazione è suggerita dal fatto che il comportamentismo nelle sue varie declinazioni verbali è citato meno del pur interessante e sottovalutato Reich (“comportamentismo”, “comportamentale” e comportamentista” naturalmente da soli e non accoppiati a “cognitivo” -fanno in tutto 10 citazioni contro le 12 che Reich si prende da solo; senza aggiungere i termini, esperienziale, corporeo e così via che sbilancerebbero definitivamente il numero di citazioni a sfavore del comportamentismo). Il numero di citazioni è tuttavia un criterio discutibile. Ciò che sembra meno discutibile è che nel libro il comportamentismo è solo citato e descritto rapidamente (da pagina 29 di parla di esposizione) ma mai trattato nelle sue caratteristiche teoriche costitutive, come l’analisi funzionale, cornice tecnica ben ampia dell’esposizione comportamentale, che è solo una tecnica.

Insomma, la curiosità del personaggio narratore verso la svolta esperienziale corporea è genuina, vissuta e particolareggiata in tutti i suoi aspetti, sia clinici che teorici. L’autore parla con passione di Lowen. Al comportamentismo invece va un tributo doveroso alle tecniche ma senza vera sensibilità per i principi teorici. Il problema non è solo di Dimaggio o degli altri clinici di provenienza costruttivista come Mahoney, Lazarus, Guidano e Liotti. In realtà va detto che il rapporto difficile con il comportamentismo è un problema dell’intero movimento cognitivista anche nel suo ramo cosiddetto razionalista alla Beck, il quale ridusse l’intervento comportamentale a una esposizione prescritta in maniera abbastanza ancillare come appendice conclusiva ma non risolutiva dell’intervento cognitivo. Questa sottovalutazione ha avuto i suoi effetti negativi, tra i quali una lacuna formativa per la generazione successiva di terapeuti cognitivisti e/o costruttivisti dopo Beck, Mahoney, Guidano e Liotti che hanno perso ulteriormente contatto con la tradizione comportamentale.

Ora, rigettare la base teorica del comportamentismo per poi accettarne gli interventi comportamentali può sembrare curioso, eppure in fondo è ciò che sempre ha fatto il cognitivismo, a partire proprio da quel Beck razionalista a sua volta rifiutato da Dimaggio. E invece il problema è tutto lì. Il nocciolo del comportamentismo è un nucleo funzionalista in cui le funzioni mentali sono funzioni e non strutture, gli stati mentali non sono sopraordinati a nulla ma sono in rapporto paritario con l’ambiente e quindi le rappresentazioni mentali sia di tipo dichiarativo concettuale che percettivo motorio hanno sempre un effetto e non hanno mai un significato strutturale o un’essenzialità, come diceva Popper. Insomma, proprio in questo disprezzato funzionalismo comportamentale si potrebbe celare la svolta esperienziale più rigorosa e capace di arrivare alle ultime conseguenze teoriche. In questa declinazione, che poi è quella di Skinner, il comportamentismo si rivela un modello complesso che si presenta in vesti apparentemente scarne e rozze.

 

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G. (2020). Un attimo prima di cadere. La rivoluzione della psicoterapia. Milano: Cortina.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., e Salvatore, G. (2019). Corpo, Immaginazione e Cambiamento: Terapia metacognitiva interpersonale. Milano: Cortina.
  • Guidano, V. F., & Liotti, G. (1983). Cognitive Processes and Emotional Disorders: A Structural Approach to Psychotherapy. New York, NY: Guilford Press.
  • Lazarus, A. A. (1977). Has behavior therapy outlived its usefulness? American Psychologist, 32(7), 550.
  • Mahoney, M. J. (1974). Cognition and behavior modification. Pensacola: Ballinger Publishing co.
  • Mahoney, M. J. (1991). Human change processes. New York: Basic Books.
  • Mahoney, M. J. (2003). Constructive psychotherapy: A practical guide. Guilford Press.
  • Semerari, A. (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Metacognizione e relazione terapeutica. Milano: Cortina.
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