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Cinema, metafore e psicoterapia (2021) di Isabel Caro Gabalda (a cura di) – Recensione

Scopo del volume 'Cinema, metafore e psicoterapia' non è “spiegare ogni film a partire dalla psicoterapia, quanto la psicoterapia a partire dal film”

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 30 Lug. 2021

È un lavoro interessante quello nato dalla collaborazione degli autori di Cinema, metafore e psicoterapia.

 

Per una psicoterapeuta appassionata di cinema il titolo di questo volume è stato un invito a nozze, e le mie aspettative non sono certo state deluse. Nonostante la complessità e l’ampiezza del tema, il susseguirsi dei capitoli accompagna il lettore in un’analisi “attraverso lo schermo” che evidenzia molto bene gli ingredienti per una buona terapia, a prescindere dal modello di riferimento. Un’analisi molto emozionante ed evocativa, dal momento che a illustrare il caleidoscopico mondo della psicoterapia, sono proprio le storie e i personaggi che abitano il magico mondo del cinema.

Accostare questi due temi in un libro non è certo un’idea nuova, ma di certo nuova ed originale è la prospettiva da cui vengono analizzati in quest’opera. L’aspetto particolarmente interessante è dato dal fatto che scopo di questo lavoro non è “spiegare ogni film a partire dalla psicoterapia, quanto la psicoterapia a partire dal film” (p.XVII). Ogni capitolo, infatti, utilizza un diverso film come metafora per spiegare ed analizzare, in maniera semplice e nello stesso tempo niente affatto banale, gli elementi fondamentali della psicoterapia e del processo terapeutico. La pretesa non è naturalmente quella di offrire un quadro esaustivo, ma di illustrare, attraverso le narrative e i personaggi cinematografici, i temi chiave, le caratteristiche, i protagonisti e le complessità della psicoterapia.

Il volume è suddiviso in quattro parti, che restringono il focus di osservazione sui diversi elementi della psicoterapia: il paziente, il terapeuta, il processo e il cambiamento terapeutico e infine l’interazione terapeutica e la psicoterapia come relazione.

Sebbene sia difficile e per certi versi artificioso separare questi elementi, ciò rende la lettura e la riflessione degli autori di più facile comprensione e permette al lettore di non perdersi nella vastità e complessità di un simile argomento.

Chi è il paziente che viene in terapia? Per quanto diverse siano le storie e le richieste di chi inizia un percorso di psicoterapia, il paziente è innanzitutto una persona e come tale va trattato: perché il lavoro sia efficace, dobbiamo considerare la persona nella sua globalità, non come un insieme di sintomi, comprenderla nella sua interezza e nel suo mondo, all’interno del suo contesto socioculturale. È questa l’idea sostanziale che emerge trasversalmente nell’opera. Anche il modo in cui noi terapeuti guardiamo a un problema, riflette di quadri teorici e concettuali radicati in un tempo storico e in un contesto sociale e culturale: i modelli e le metafore che noi usiamo, strutturano le esperienze di vita. “Il Truman Show”, per esempio, mostra come sia diverso concepire la psicosi come una malattia incurabile o da cui è possibile uscire: l’uscita di Truman dal palcoscenico è dunque la metafora della possibilità di venire fuori dal delirio grazie alla relazione con un altro reale, non delirante, il terapeuta, che aiuta a dare una direzione e un senso al suo agire (come nel film fa la sua ex fidanzata) e grazie anche alla fiducia nelle proprie capacità. Nonostante la sofferenza del momento, il paziente ha dentro di sé tante risorse che vanno cercate e attivate affinché possa uscire dalle difficoltà, proprio come fa Truman. Il paziente ha già in sé stesso ciò che cerca: la terapia è un cammino alla ricerca del suo essere, come il protagonista di “Lion”, sulle tracce delle proprie origini, o “Billy Elliot”, alla ricerca della sua vera identità e del suo posto nel mondo. Un cammino in cui è aiutato a riparare ciò che è frammentato, a curare le ferite dell’identità e dell’attaccamento, come accade a Conrad, protagonista di “Gente comune”, il cui rapporto con una madre anaffettiva e rifiutante genera ferite emotive profonde e cicli interpersonali altamente disfunzionali, oppure Jean-Baptiste Grenouille, protagonista del “Profumo”, la cui totale assenza di odore rappresenta un deficit ontologico che affonda le sue radici nella prima infanzia, fatta di grave trascuratezza e malnutrizione fisica ed emotiva, di totale assenza di uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, quello di riconoscimento e amore. Senza questo riconoscimento, quest’accettazione e amore incondizionato, il rischio è di sviluppare una “personalità liquida” come direbbe Zigmund Bauman, una personalità che, come Zelig interpretato da Woody Allen, si adatta talmente tanto all’altro per farsi accettare da perdere la propria forma e la propria identità. La terapia diventa dunque occasione di sperimentare quell’accettazione incondizionata e quella validazione dell’essere così fondanti. Ma per ottenere risultati occorrono impegno, motivazione e tenacia. Il cambiamento terapeutico non è lineare, ma è la somma di tanti piccoli progressi e passi indietro, in cui il paziente deve avere un ruolo attivo, ottimamente esemplificato da ciò che fanno i protagonisti de “La storia fantastica”, che perseverano, nonostante le mille peripezie e difficoltà, per raggiungere il loro scopo finale. Per fare questo occorre chiedere al paziente di smettere di fare ciò che riteneva una soluzione e invece alimentava le difficoltà, e di imparare a fare qualcosa di diverso, per ottenere un risultato diverso, come fece Mandela, raccontato nel film “Invictus”, quando, dopo quasi trenta anni di prigionia per la sua lotta contro l’apartheid, decise di non proseguire sulla strada della violenza e della vendetta verso i suoi oppressori, ma, cambiando il proprio modo di relazionarsi, di utilizzare il gioco del rugby per facilitare l’unità nazionale.

Fare terapia è certamente una sfida, per il paziente ma anche per il terapeuta: implica cercare di produrre un cambiamento nell’altro, ma genera inevitabilmente un cambiamento nel terapeuta stesso. Avere il permesso e il privilegio di entrare nelle “vite degli altri” richiede grande senso di responsabilità e un delicato equilibrio fra coinvolgimento e distacco, fra le richieste del paziente e le esigenze della propria professione, fra le sue capacità professionali e il suo essere persona. Come il capitano Gerd Wiesler (“Le vite degli altri”, appunto) siamo chiamati all’ascolto, un’attenzione silenziosa che ci conduca senza giudizio all’autentica comprensione dell’altro. L’empatia non è solo ascolto ma sintonizzazione emotiva profonda che aiuti il paziente ad accedere a esperienze dolorose con la guida di un altro sensibile e capace di sostenerlo. Se ci poniamo in quest’ottica, potremo entrare davvero in connessione empatica col paziente, proprio come fa il protagonista di questo film, capitano della Stasi, verso le persone che deve spiare. Naturalmente lo scopo della terapia non è spiare le vite altrui e, a differenza di quanto fa Wiesler alla fine del film, il terapeuta deve essere ben consapevole e attento ai confini del setting e all’etica professionale. Il film “Mumford”, che ha per protagonista un sedicente psicologo, offre un’interessante occasione per riflettere su cosa serva per essere un buon terapeuta: non solo un bagaglio di conoscenze appropriate, garantite da una buona formazione e una continua supervisione, ma anche una serie di caratteristiche personali, incarnate appunto dal dottor Mumford, come empatia, interesse per le persone, autenticità, sensibilità e accettazione. È certamente complesso bilanciare ciò che siamo a livello umano e ciò che la nostra professione ci richiede. Ma al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta è un essere umano e come tale ha le sue paure e le sue ansie, a volte dubita della sua intelligenza e delle sue conoscenze, come lo Spaventapasseri del “Mago di Oz”, o ha paura di agire, come il Leone codardo, o teme di non sentire nulla, come l’Uomo di latta o al contrario di essere emotivamente troppo coinvolto, o subisce l’incertezza di sapere cosa sta affrontando. Certamente al terapeuta non è richiesta la perfezione, così come non deve essere richiesta al paziente. Il terapeuta non è necessariamente una persona equilibrata e “risolta”, tuttavia, per mantenere un giusto equilibrio nello svolgimento della propria professione, è importante che dedichi grande cura alla propria vita. Per chi si occupa ogni giorno della cura degli altri, è necessario occuparsi anche della cura di se stesso, perché non si crei, come nel caso della dottoressa Margaret Ford de “La casa dei giochi”, un disequilibrio che inevitabilmente impatta negativamente sulla terapia e sulla sua efficacia.

La psicoterapia, come si diceva, non è un processo lineare, ma è composto da una serie di piccoli cambiamenti, movimenti avanti e indietro verso il cambiamento finale. Il paziente è accompagnato dal terapeuta, che assume il ruolo di guida, nella ricostruzione di ciò che è andato perduto, nel rimettere insieme i pezzi del suo puzzle, per dirla come Isabel Caro Gabalda. Il terapeuta, come uno “Sherlock Holmes della mente”, secondo la definizione di Perez Alvarez, uno degli autori del volume, svolge un lavoro investigativo per unire gli elementi della trama, per connettere pezzi fino a quel momento scollegati, attraverso l’insight, come accade a “Marnie, la ladra” di Hitchcock. Il lavoro terapeutico accompagna nel difficile processo di prendere consapevolezza e assimilare, come fa il dottor Malcom Crowe, ne “Il sesto senso”, esperienze, parti di noi stessi, emozioni, memorie e stati interni che fino a quel momento erano difensivamente tenuti fuori dalla coscienza. Tutto ciò implica lavorare con le emozioni, far capire al paziente che non esistono emozioni buone e cattive, ma che ognuna ha il suo ruolo e la sua importanza nella regolazione del comportamento e nel dare senso alle nostre esperienze e che anzi la complessità è ciò che ci permettere di crescere ed evolvere (“Inside out”).

In definitiva la psicoterapia è un viaggio avventuroso, per certi versi spaventoso e affascinante come quello di Butch, un assassino in fuga, e il piccolo Philip (“Un mondo perfetto”), segnato da difficoltà ed esperienze formative, in cui alla fine i due protagonisti, terapeuta e paziente, si separano ma arricchiti e cresciuti grazie al loro incontro e alla strada percorsa insieme.

Elemento chiave del cambiamento terapeutico è, come emerge da moltissimi studi e come evidenziato anche nel libro, la relazione terapeutica. Il cambiamento terapeutico, infatti, è un processo che si costruisce nell’interazione con il terapeuta momento per momento e che richiede una piena collaborazione di entrambi i partecipanti. La qualità della relazione terapeutica è ciò che permette al paziente di osare, mettersi in gioco, affrontare le difficoltà e le sfide che il cambiamento comporta. È grazie all’incontro con l’altro che il paziente cambia: l’altro inteso come terapeuta ma anche l’altro inteso come rapporti sani nella sua vita privata. È grazie alla “fidanzata” Bianca e alla dottoressa Dagmar che Lars (nello splendido film “Lars e una ragazza tutta sua”) riesce gradualmente a uscire dal suo isolamento sociale e a costruire legami autentici, prendendo a poco a poco contatto con la realtà. Allo stesso modo è grazie a Claire che Drew, in “Elizabethtown”, riesce a entrare in contatto col suo dolore e ad affrontare l’elaborazione non solo del lutto del padre, ma anche della sua solitudine, di tutte le sue perdite e del suo fallimento, aprendosi così a un possibile futuro più autentico. Lo stesso percorso che attraversa il paziente.

Nasciamo all’interno di rapporti interpersonali e, come evidenzia Guerra nel suo capitolo prendendo spunto dal film “Se mi lasci ti cancello!”, il modo in cui funzioniamo e ci relazioniamo dipende in larga misura dalla nostra Conoscenza Relazionale Implicita, ovvero ciò che abbiamo implicitamente imparato nelle nostre relazioni di attaccamento primarie rispetto a cosa ci si deve aspettare e come comportarsi nei rapporti interpersonali. Molti, se non la totalità, dei pazienti, ha sperimentato modelli relazionali disfunzionali e solo attraverso un’altra relazione sana significativa, come quella terapeutica, è possibile cambiare questo nucleo. Per questo è fondamentale che il rapporto col paziente sia il più possibile genuino, guidato da un autentico interesse ad aiutarlo, avvicinandoci al paziente come fanno il dottor Mickler con Don Juan de Marco nell’omonimo film e la dottoressa Banks con gli alieni, entrando nel suo mondo con curiosità e rispetto, senza irrigidirci o nasconderci dietro le nostre tecniche ma consapevoli che una vera comprensione è possibile solo se ci disponiamo a creare un linguaggio comune e a “condividere un certo mito e un certo rituale”, come afferma Isabel Caro Gabalda.

Il cinema e la psicoterapia hanno molte cose in comune: entrambi si occupano di storie, raccontano, se pure in modi e con scopi differenti, le vite delle persone. Da sempre cinema e psicoterapia hanno incrociato le loro strade, offrendosi reciprocamente spunti interessanti: il cinema ha spesso attinto al mondo della psicoterapia o in generale della salute mentale per costruire i suoi personaggi, soprattutto mostrando lati insoliti o spaventosi del comportamento umano. Allo stesso modo la psicoterapia ha spesso utilizzato le storie del cinema come metafore e modelli per aiutare a capire le vite e la realtà delle persone.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Caro Gabalda, I. (a cura di) (2021). Cinema, metafore e psicoterapia. Giovanni Fioriti Editore: Roma.

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