Se in passato il termine positivo rimandava a qualcosa di piacevole, oggi invece suscita nei più un senso di allarme e pericolo.
L’abituazione rappresenta un processo di apprendimento, il più semplice e il meno dispendioso, in quanto avviene in maniera del tutto inconscia. Attraverso gli studi di Kandel sulla lumaca gigante di mare Aplysia si è scoperta la semplicità di alcune acquisizioni, nonostante, paradossalmente, il nostro sistema nervoso sia complesso. Grazie a questi meccanismi è possibile rispettare quel principio di economia cognitiva, fondamentale per la nostra massa gelatinosa, in quanto impossibilitata a creare una banca dati infinita, per incapacità di spazio e di risorse. Quel principio che garantisce alla specie la sopravvivenza. Anche rispetto a quelli che sono i processi consapevoli vale la stessa identica regola: dopo un primo periodo di prove, guidare diventa un’abitudine, come l’andare in bicicletta o il giocare a tennis. Non solo. Pensiamo alla capacità di crearsi degli schemi mentali che ci permettono ad esempio di studiare più velocemente, di partire da una base sicura per poi ampliare i nostri discorsi, quegli schemi mentali che, se funzionali, migliorano l’efficienza e la performance.
Anche le stesse formule matematiche cercano di rispettare quel principio di semplicità che permette loro di spiegare i meccanismi più arcani e complessi. Dunque una base sicura, che ci dà equilibrio, che ci permette di riposare, che previene e preserva il nostro cervello da possibili blackout. Lo stesso vale per le abitudini e per le associazioni. Ma cosa accade se ad una abitudine o ad una semplice associazione si impone un cambiamento improvviso? Fino ad un anno e mezzo fa pronunciare l’aggettivo positivo portava il più delle volte ad una rapida e diretta connessione con beneficio, fortuna, vedere il bicchiere mezzo pieno, c’è chi addirittura così scrive in una sua canzone: “Io penso positivo, perché son vivo, perché son vivo”, e, dunque, positivo come fonte primaria di vita. Anche nei tentativi di supporto e sostegno altrui quella parola risuona spesso come incentivo a non mollare, a non arrendersi, a non rinunciare.
Tutto questo fino al giungere di un evento straordinario, la cui particolarità sta nel suo protrarsi nel tempo. Un evento che riesce a bloccare la frenesia del quotidiano, proprio come un freno che fa inchiodare, all’improvviso, e paralizza. Quel Male arriva interrompendo il vortice incessantemente irrequieto della nostra società liquida, quel Male arriva solidificando la qualunque, rendendo più pesanti e lenti perfino quei processi cognitivi più veloci della luce, interrompendo la noiosa, ma stabile routine, la nostra familiare quotidianità. Proviamo in questo momento a pronunciare l’aggettivo positivo, chiedendo alle persone quale meccanismo innesca, sia esso mentale che comportamentale, quale immagine evoca. Io stessa ho partecipato al gioco ed è successo questo: ho pensato immediatamente alle malattie sessualmente trasmissibili, alle droghe, all’alcol, io che ho sempre visto la vita in “maniera positiva”, io che ho sempre visualizzato il mondo con ottimismo e con fiducia. Ho fatto lo stesso inserendo l’aggettivo su Google ed ecco cosa ho visualizzato tra le prime posizioni: positivo al covid, positivo dopo 21 giorni, positivo asintomatico. Questo Male ha modificato e messo in discussione le nostre certezze, ha modificato la prospettiva di visione del mondo. Pronunci positivo e ti dicono di cambiare parola, sorridendo, ma, pensandoci, c’è davvero poco da sorridere: questo Mostro ha stravolto i nostri assetti, agendo anche sui nostri gruppi neuronali che oggi, a quella parola, rispondono allarmati. Cambiano i sistemi delle nostre cellule nervose, cambiano i nostri pensieri, le nostre associazioni, le nostre abitudini. Cambiamo noi. La plasticità cerebrale presenta due facce: una rivolta all’innovazione, all’efficienza, al cambiamento funzionale, l’altra però va dalla parte opposta. Ci condiziona. Ci limita. Ci altera. Lei stessa condizionata, limitata, alterata dal sintomo virale.