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Le emozioni nelle organizzazioni: un possibile sguardo psicodinamico

L’intelligenza emotiva ha un impatto positivo sull’engagement, sulla soddisfazione e sul benessere lavorativo con effetti visibili nelle organizzazioni

Di Lucia Prudente

Pubblicato il 09 Giu. 2021

Aggiornato il 11 Giu. 2021 13:26

Quando nelle organizzazioni viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo di frustrazione, incertezza, minaccia.

 

Nonostante il vecchio cliché sull’ambiente lavorativo come luogo privo di emozioni, la ricerca negli ultimi 30 anni ha dimostrato il ruolo fondamentale che esse rivestono in questo particolare contesto.

Inizialmente l’interesse si è focalizzato sul modo in cui si sentono le persone rispetto al proprio lavoro, in un’ottica dunque individuale; con il tempo, comprendendo la portata del contributo che le emozioni apportano all’efficacia organizzativa, la ricerca si è ampliata alle varie modalità di utilizzo esplicito delle emozioni (Pugh & Groth, 2020).

L’intelligenza emotiva avrebbe infatti un impatto positivo sull’engagement, sulla soddisfazione e sul benessere lavorativo e gli effetti sarebbero tangibili, come nel caso della diminuzione del turnover, problematica che spesso intacca le organizzazioni (Brunetto et al., 2012).

Riprendendo la definizione di Franco Avallone (2005, p.65), il concetto di benessere organizzativo è da intendersi come

l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative.

In tale concettualizzazione è dunque importante l’accento posto non solo sull’individuo, ma sull’aspetto di convivenza, che richiama la componente relazionale. È in questo connubio tra la dimensione individuale e collettiva, tra il mondo intrapsichico e quello intersoggettivo, che diviene possibile inserire il concetto di mentalizzazione. Esso è da intendersi come un processo mentale in cui le azioni proprie ed altrui vengono interpretate in maniera implicita ed esplicita; tale dinamica permette all’individuo di dotare di senso il comportamento, i desideri, i bisogni, i sentimenti, le emozioni altrui a partire dalla comprensione degli stati mentali (Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Gli inglesi rendono questo complesso concetto in maniera molto semplice ed efficace con la frase “mind the mind”, ovvero tieni a mente la mente, restituendo l’idea di un processo attivo, non passivo, statico ed immutabile (Baldoni, 2014). Questo tassello va ad inserirsi nel complesso mosaico che costituisce la competenza relazionale di ciascuno, una competenza fondamentale per vivere una vita sociale “sana” e che viene sempre più richiesta all’interno delle organizzazioni. In altri termini, nel modo in cui creiamo, manteniamo ed alimentiamo le relazioni vi è un fondamentale passaggio legato alla comprensione del senso dei comportamenti altrui; durante la pratica del proprio lavoro l’individuo mette in atto continuamente attribuzioni di senso e di intenzionalità al comportamento dell’altro con l’obiettivo di comprendere e mantenere la relazione.

Per tale ragione è possibile pensare che, come ogni altra competenza che va a delineare un ruolo organizzativo, la mentalizzazione costituisca una capacità che è possibile apprendere, implementare ed allenare.

Nell’organizzazione “mentalizzante” coloro che vi partecipano hanno raggiunto la competenza di rappresentarsi mentalmente non solo l’intenzionalità propria ed altrui, ma anche le emozioni, le sensazioni, i significati elicitati dal luogo di lavoro e che guidano i comportamenti del lavoratore (Di Stefano, 2017).

Come sostenuto dalle teorie psicodinamiche, coloro i quali non hanno capacità di mentalizzazione non riescono ad utilizzare i propri stati interni per comunicare e collaborare con gli altri in vari ambiti di vita, che vanno dalla sfera intima a quella lavorativa (Fonagy & Target, 2001); una difficoltà temporanea di mentalizzazione è spesso correlata a difficoltà nella regolazione degli affetti e del controllo dei processi attentivi, oltre che all’aumento di distress (Fonagy & Allison, 2012; Fonagy, Bateman & Luyten, 2012).

Quando nell’organizzazione viene a mancare la capacità di mentalizzazione, si determina un’impossibilità per il professionista di elaborare le emozioni, di attribuire senso all’esperienza e, probabilmente, la sua rappresentazione mentale del contesto organizzativo avrà come oggetto un luogo, non più di crescita personale, ma di frustrazione, incertezza, minaccia. Sarebbe possibile, infatti, imputare all’incapacità o al difetto di mentalizzazione la moltiplicazione dei fattori di rischio che espongono il lavoratore – e di conseguenza l’organizzazione di cui fa parte – a patologie come distress, burnout, mobbing (Di Stefano, 2017).

Al contrario, se il soggetto è collocato all’interno di un contesto lavorativo che promuove la mentalizzazione, ponendosi come contenitore riflessivo, gli effetti positivi investono il campo della fiducia reciproca tra i membri che lo abitano, dell’empatia e della resilienza collettiva (Kahn, 2001).

In che modo possono le organizzazioni costruire un ambiente di lavoro siffatto?

Come spesso accade, coloro i quali possono realmente apportare un cambiamento nelle pratiche di lavoro sono i professionisti che hanno accesso alle posizioni manageriali: chi occupa un ruolo di potere e di responsabilità all’interno delle aziende può decidere di investire sulla promozione di “pratiche riflessive”, che si radichino nella routine quotidiana della realtà organizzativa e mirino alla condivisione delle esperienze di lavoro, nonché di spazi di pensiero. Bisognerebbe dunque partire dall’esperienza individuale, valorizzando lo scambio di prospettiva tra i lavoratori e promuovendo la messa in atto di comportamenti attivi all’interno del contesto lavorativo (Fonagy, 2012; Di Stefano, 2017).

L’acquisizione di una simile competenza avrebbe effetti profondamente positivi che, partendo dal singolo, si espandono all’intero sistema lavorativo. Esempi sono l’attivazione di legami di attaccamento e affiliazione tra i colleghi e tra i lavoratori e l’organizzazione stessa, incrementando i livelli di coinvolgimento e di impegno (Fonagy & Target, 2001; Ammaniti & Gallese, 2014; Scrima, Di Stefano, Guarnaccia & Lorito, 2015).

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Lucia Prudente
Lucia Prudente

Psicologa, psicoterapeuta in formazione

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ammaniti, M, & Gallese, V. (2014). La nascita dell’intersoggettività: Lo sviluppo del Sé tra psicodinamica e neurobiologia. Milano: Raffaello Cortina.
  • Avallone, F., Paplomatas, A. (2005). Salute organizzativa: Psicologia del benessere nei contesti lavorativi. Milano: Raffaello Cortina.
  • Baldoni, F. (2014). Mentalizzazione e integrazione psicosomatica del Sé. In G. Northoff, Farinelli, M., Chattat, R., & Baldoni, F. (Eds), La plasticità del Sé: Un approccio neuropsicodinamico (pp. 93-130). Bologna: Il Mulino.
  • Brunetto, Y., Teo, S.T.T., Shacklock, K., & Farr-Wharton, R. (2012). Emotional intelligence, job satisfaction, well-being and engagement: explaining organisational committment and turnover intentions in policing. Human Resource Management Journal, 22 (4), 428-441.
  • Di Stefano, G., Piacentino, B., & Ruvolo, G. (2017). Il mentalizzare nelle organizzazioni. Un modello di comprensione del benessere e della sofferenza nei contesti lavorativi. Etnografia dell’interazione quotidiana. Prospettive cliniche e sociali, 12 (2), 124-135.
  • Fonagy, P, & Allison, E. (2012), What is mentalization? The concept and its foundations in developmental research. In N. Midgley & I. Vrouva (Eds.), Minding the child: Mentalization-based interventions with children, young people and their families (pp. 11-34). Routledge/ Taylor & Francis Group.
  • Fonagy, P., & Target, M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Raffaello Cortina.
  • Fonagy, P., Bateman, A. W., & Luyten, P. (2012). Introduction and overview. In A. W. Bateman & P. Fonagy (Eds.), Handbook of mentalizing in mental health practice (pp. 3–42). American Psychiatric Publishing, Inc.
  • Kahn, W.A. (2001). Holding environments at work. The Journal of Applied Behavioral Science,37 (3), 260-279.
  • Pugh, S.D., & Groth, M. (2020). Why emotions matter to the practice of management. Lessons learned from the service research literature. Organizational Dynamics, 49, 1-11.
  • Scrima, F., Di Stefano, G., Guarnaccia, C., & Lorito, L. (2015). The impact of adult attachment style on organizational commitment and adult attachment in the workplace. Personality and Individual Differences, 86, 432-437.
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