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I grandi pensieri vengono dal Cuore. Educare all’ascolto (2021) di Eugenio Borgna – Recensione

Il libro "I grandi pensieri vengono dal cuore" invita a prestare attenzione alle sfumature dell’umana sofferenza, tragiche eppure ricche di bellezza e vita

Di Angela Niro

Pubblicato il 11 Giu. 2021

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte l’autore del libro I grandi pensieri vengono dal Cuore.

 

Il cuore è la pietra angolare dell’intera rassegna di opere di Eugenio Borgna, del suo modo di leggere la cura, di incontrare la sofferenza. Nel suo libro I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto, Borgna ci invita ancora una volta a cogliere la testimonianza della possibilità di una “psichiatria dell’interiorità”, attenta a tutte le sfumature dell’umana sofferenza, tragiche e pure incredibilmente feconde di bellezza e di vita.

Dico ancora una volta perché nel trasferire il suo personale modo di intrattenere un dialogo con la sofferenza, Borgna riserva parole che non nascondono mai la necessità di calarsi nella profondità di se stessi per non lasciarsi accecare dalla crosta spessa e impenetrabile della malattia. È in questo contatto con “la fragilità che è in noi” che riconosce la strada maestra per non perdere di vista quelle emozioni umane che uno strumento tanto sensibile quanto multiforme come l’arte è capace di cogliere e raccontare.

Un tributo generoso e appassionato alla sua ardente capacità di pronunciarsi sull’invisibilità dell’esistenza è, di fatto, la trama di cui è intessuto anche questo libro, che non può fare a meno di mettere in evidenza l’incompatibilità con uno sguardo fugace, con un orecchio disattento, incapace di accostarsi alla straordinaria e caduca dimensione di ogni cosa.

Da qui sembra partire il suo tentativo di avvicinare la dimensione artistica di ogni disciplina all’uomo, per metterlo in contatto con le sue molteplici modalità di stare al mondo, le sue domande impossibili, la sua infinita ricerca di senso.

È all’incunearsi del mistero nelle pieghe dell’esistenza e al loro meraviglioso rivelarsi che Borgna orienta il suo sguardo e lo traduce con parole che spera possano ampliare la conoscenza della sofferenza, restituire speranza e bellezza alla fragilità umiliata, negata, occultata dell’uomo.

Nell’accorato discorso che rivolge a chi vive il mestiere della cura, si muove nella sua direzione, o che può incontrare la sofferenza predisponendosi con un atteggiamento frettoloso, indifferente, lontano dalla sua essenza, esorta al contatto e all’educazione permanente di quella particolare sensibilità che è disposta a mantenere un dialogo costante con le proprie ferite, indispensabile per non perdere di vista quelle dell’altro. È, infatti, in quella che lui definisce, “comunità di ascolto e di dialogo fra chi cura e chi è curato”, che i silenzi diventano preziosi e non terribilmente oscuri, le parole delicate e piene di speranza di fronte alle ombre più nere della sofferenza.

Il suo desiderio di presentarci una psichiatria “gentile”, “umana”, fa riecheggiare il corpo-soggetto e la danza in cui siamo coinvolti nel tentativo di metterci a contatto con esso, su una melodia sconosciuta e imprevedibile che segue il ritmo scandito dalle emozioni.

“Nulla si comprende di una sofferenza psichica nelle sue diverse forme di espressione, se non si conoscono gli intrecci emozionali ardenti e complessi che sono in essa”, avverte (Borgna, 2021, p. 87). Appurate le loro forme a volte limpide, a volte più opache, ardenti, appiattite, cangianti o cristallizzate, Borgna sottolinea l’importanza di non confonderle, di non utilizzarle impropriamente nel linguaggio quotidiano e nella cura. Non solo, ma cogliere il loro imprevedibile e viceversa presumibile associarsi alla malinconia, alla disperazione, alla speranza, alla creatività, alla morte e il nostro riconoscerci in esse, anche nelle loro forme più dolorose, come possono non renderle più decifrabili, più umane?

Una strada praticabile, certo, ma che richiede di essere attraversata nel silenzio perché, “Solo nel silenzio si colgono fino in fondo gli abissi di fragilità che sono in noi, e negli altri da noi, e si impara ad accoglierli nelle loro luci e nelle loro ombre” (Borgna, 2014, p.17).

È alle relazioni umane, dunque, ai loro confini lassi o estremamente rigidi, alle derive troppo spesso poco umane, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio vissuto sono invase o annullate, che Borgna vuole condurre l’attenzione del lettore, portandolo a scorgere l’interdipendenza tra vicinanza e lontananza e l’equilibrio funambolico da conservare nella cura e nella vita.

Un processo di maturazione che non considera solo appannaggio di chi sceglie una professione di cura, ma che si estende in orizzonti vastissimi, pensiamo alla scuola e alla famiglia che non dovrebbero esimersi dall’utilizzo di quella che lui definisce la “saggezza del cuore” nel loro quotidiano operare.

Allora eccolo arrivare dritto al destino delle parole, messo a fuoco sotto la sua lente più nitida, da cui non può che scaturire un appello a non dimenticarlo dopo averle pronunciate. È, infatti, al loro scivolare via senza responsabilità, senza prestare attenzione alle attese e ai bisogni dell’interlocutore, al nostro perdere di vista la loro composizione superficiale e profonda, visibile e invisibile che richiama la nostra attenzione. Ci invita a fermarci dinanzi al rapporto indissolubile che lega le parole al silenzio, a imparare a riconoscerlo nelle sue molteplici forme.

“Sono molti i modi in cui la parola e il silenzio si intrecciano: c’è il silenzio che rende palpitante e viva la parola, dilatandone le emozioni; c’è il silenzio che si sostituisce alla parola nel dire la gioia e il dolore, la speranza e la disperazione; c’è il silenzio del cuore che nasce dagli abissi della interiorità; ma c’è anche il silenzio che si chiude in se stesso, e non ridesta risonanze emozionali” (Borgna, 2021, p. 29).

Si tratta di tonalità emozionali che nel contatto con le interiorità profondamente ferite delle sue pazienti non possono essergli sfuggite e averlo condotto lontano dal rispettare la loro dignità, dal riservarle una doverosa importanza.

“Cosa fare al fine di evitare ferite alla dignità delle persone? Lo dico ancora una volta: ascoltare, essere gentili, e miti, dire parole che nascano dal cuore (avete cuore, fratelli, avete coraggio?), non dimenticando mai l’importanza degli sguardi, e del sorriso, evitando noncuranze, e indifferenza. La gentilezza non costa nulla, e non costano nulla la mitezza e la tenerezza, che nella loro fragile fragranza e nelle loro umbratili forme di espressione cambiano la climax delle relazioni di cura” (Ivi, p.90).

Infatti, nelle pagine di vita vissuta assieme alle sue pazienti, di cui ci fa generosamente dono, a parlare di comunione e conforto nell’intimità dell’incontro sono: lo sguardo, la parola appena accennata, la silenziosa vicinanza, la presenza mite e gentile.

Non è difficile comprendere come quelle speranze timide, fuggevoli, che nascevano come rapidi bagliori per poi spegnarsi altrettanto rapidamente nelle pazienti del manicomio di Novara possano aver destato sin dai primissimi anni della sua esperienza clinica un interesse particolare per la speranza, tanto da indurlo a dedicarle pagine bellissime sulle sue relazioni con la disperazione, l’attesa, il tempo vissuto.

Nel suo cammino di formazione, che ha tutte le caratteristiche per presentarci come si trasformi la persona a contatto con i suoi pazienti, sembra non abbandonarlo mai il suo appassionato interagire con le opere di incredibili protagonisti della filosofia, della letteratura, della poesia e la possibilità di attingere ad esse come fonte inesauribile di conoscenza sulla vita.

“Non c’è cura senza cuore” è l’altisonante messaggio di cui le sue pagine sono intrise e che ha destato anche nei cuori più assopiti quella saggezza necessaria per sopravvivere ad un tempo di pandemia come quello che stiamo attraversando, dominato dalla paura, dall’ombra della morte, dal silenzio e dalla solitudine. L’ascolto di se stessi e il riconoscimento del giusto valore della vicinanza, della compassione, della solidarietà, come pure l’attenzione verso l’esacerbarsi delle condizioni di sofferenza preesistenti, il loro precario equilibrio, la dimensione sociale della psichiatria non potevano non diventare per Borgna e per noi, motivo di riflessione e di costruzione di un nuovo orizzonte di senso e di cura.

In conclusione, educare a rivolgere uno sguardo alla sofferenza che non la banalizzi, ne riduca la complessità e il mistero, ma sappia apprezzarne le emozioni, la creatività, la libertà è la capacità raffinatissima che Borgna possiede e che non possiamo fare a meno di esaltare. Una qualità, la sua, che si nutre di speranza e mai interrompe un rapporto speciale con essa, che costituisce uno “slancio verso il futuro, si presenta «come apertura nel tempo: come un tempo aperto che vive del futuro (dell’avvenire) e che non si arena nel passato[…], che tende alla riconciliazione e alla riunificazione; e, in questo senso, essa è come una memoria del futuro” (Borgna, 2018, p. 91).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Borgna, E. (2021). I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all’ascolto. Milano: Raffaello Cortina.
  • Borgna, E. (2018). L’attesa e la speranza. Milano: Feltrinelli.
  • Borgna, E . (2017). Le parole che ci salvano. Torino: Einaudi.
  • Borgna, E. (2014). La fragilità che è in noi. Torino: Einaudi.
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