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Funzioni metacognitive e psicopatologia. Come conoscere l’architettura cognitiva è utile in psicoterapia

Le funzioni metacognitive permettono di rappresentare bisogni e intenzioni propri e altrui, regolare il comportamento e mantenere relazioni interpersonali

Di Ruggiero Punzi

Pubblicato il 04 Mar. 2021

Vediamo nello specifico ognuna delle funzioni metacognitive e le ricadute cliniche di un loro deficit.

 

Curare la mente implica conoscere come la mente normalmente funzioni e quale sia la sua architettura. A oggi è possibile descrivere alcune funzioni essenziali di un sistema pensante, sano o patologico, tramite teorie coerenti (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Dimaggio & Semerari, 2003; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016) e in particolare rifacendosi al concetto di metacognizione. Le funzioni metacognitive, o metarappresentazionali, sono un insieme di capacità cognitive di alto livello, tipiche della nostra specie e che lavorano di concerto, sebbene siano dei costrutti differenziabili tra loro e misurabili in maniera indipendente. Esse sono essenziali per rappresentare bisogni e intenzioni proprie e altrui, oltre che per regolare e dirigere il comportamento finalizzato nel lungo termine e mantenere relazioni interpersonali stabili. L’alterazione di tali funzioni risulta in un vero e proprio deficit, presente in gravità variabile in numerose categorie psicopatologiche, in primis nei disturbi di personalità in cui è uno dei fattori nucleari che contraddistingue la peculiare struttura di tali disturbi, le loro manifestazioni e il loro trattamento.

In sintesi, è possibile ricondurre le funzioni metacognitive in due macrocategorie. La prima è quella che rientra nel solco della tradizione di ricerca della Teoria della mente o ToM (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985) e che include essenzialmente capacità rappresentative quali l’identificazione degli stati mentali propri e altrui come indipendenti e separati o il sapere che la mente è caratterizzata da stati diversi ma integrabili. La seconda macrocategoria, che rientra nella tradizione degli studi sulla regolazione emozionale e sulla metacognizione, è quella dei processi di monitoraggio e controllo, ovvero include il lavorare sugli stati mentali e quindi la capacità di modularli per raggiungere un obiettivo, ridurre la sofferenza, risolvere un problema interpersonale, etc. Vediamo nello specifico ciascuna funzione e le ricadute cliniche di un suo deficit.

L’identificazione è probabilmente la più basilare delle funzioni rappresentative. Essa consiste, molto banalmente, nella capacità di raffigurarsi internamente, in uno spazio privato, uno stato mentale proprio o altrui. Quando una persona identifica una precisa emozione nel sé o in un altro, essa riconosce l’esistenza di tale emozione. Nel paziente psicotico o con grave disturbo di personalità, la consapevolezza degli stati mentali interni è compromessa tanto che tali stati non vengono neppure rilevati e non si è capaci di osservarli. Un paziente simile si mostrerà mutacico o darà risposte vaghe e indefinite a domande come “Cosa provava?” o “Cosa ha pensato in quel momento?”. Già questo pone una fondamentale differenza rispetto a pazienti nevrotici o comunque con disturbi in cui tale capacità è presente ma è poco allenata, oppure è distorta da errori cognitivi che amplificano un problema senza risolverlo.

La differenziazione è intrinsecamente collegata all’identificazione, ma se ne distingue sottilmente in quanto essa non è più la capacità di rappresentarsi uno stato mentale, bensì di differenziare tra uno stato mentale proprio/altrui ed una realtà esterna ad esso e quindi tra una credenza, un’opinione o una fantasia e un fatto che si verifica al di fuori della propria mente. E’ facile intuire come, nei casi più gravi, l’alterazione di questa funzione porti alla totale incapacità di distinguere tra realtà e credenza, quindi al diniego o al delirio e alla impossibilità logica di considerarsi malato. Nei casi meno gravi, il soggetto ha difficoltà a mettere in discussione le idee che ne guidano il comportamento, dimostrandosi inamovibile nella sua interpretazione dei fatti, che però è quantomeno differenziata dal fatto in sé, riconoscendo la differenza tra le due cose. Un classico esempio di scarsa capacità di differenziazione può essere quella di un paziente con disturbo paranoide di personalità, con le sue granitiche convinzioni di complotti ai suoi danni e nel quale tali convinzioni vengono considerate fatti acclarati. Per il paranoico ciò che pensa non è “una sua idea”, ma “è così”.

L’integrazione si definisce come la capacità di mettere insieme in un sistema coerente di rappresentazioni di stati interni propri/altrui differenti, se non proprio contraddittorie. Una funzione simile è fondamentale per mantenere un buon equilibrio della vita psichica e, più in particolare, risulta essenziale per costruire un’identità completa di sé e degli altri, per produrre narrative e spiegazioni complesse del comportamento altrui e in ultimo anche per regolare efficacemente le proprie emozioni mantenendo un comportamento organizzato. Quando questa funzione è deficitaria, il soggetto perde il proprio senso di coerenza; ne consegue che l’immagine di Sé/altro dominante è quella del momento presente e viene persa la complessità del reale e la visione d’insieme. Le spiegazioni del comportamento si semplificano e, nella visione dell’altro, conta solo il qui e ora e non sono evocate spiegazioni alternative e più raffinate. Spesso è lo stesso terapeuta, in seduta, a non riuscire a identificare lo stato mentale del paziente e ad entrare in confusione per i cambiamenti bruschi e repentini del comportamento del soggetto. Un deficit di integrazione è frequente nel Disturbo Borderline di Personalità, in cui la persona assume subito una reazione aggressiva in risposta ad una visione negativa (es. persecutoria) dell’altro anche per una minima mancanza, entrando poi in una serie di stati problematici che nella sua mente appaiono del tutto scollegati tra loro, come se fossero di più persone diverse (es. sé furioso, poi sé cattivo e indegno e quindi infine sé abbandonato). Ad un osservatore ignaro del funzionamento, il comportamento del paziente apparirà caotico, imprevedibile e contraddittorio.

Il decentramento è la capacità di comprendere gli stati mentali altrui, ovvero di assumere la prospettiva dell’altro. E’ una funzione rappresentativa e si distingue quindi dalla capacità di condividere le emozioni altrui, ovvero dall’empatia propriamente detta. Va da sé che questa sia una capacità che richiede già un buona capacità di identificare e differenziare i vari stati mentali, essendo impossibile assumere la prospettiva di un altro se prima non si è capaci di associare ad esso stati mentali e di comprendere il loro stato di rappresentazione interna. Decentrarsi significa dunque descrivere credenze e comportamenti altrui a prescindere dai proprio contenuti mentali e quindi attribuire all’altro un mondo psicologico del tutto indipendente dal proprio. Se c’è un deficit, la persona agirà attribuendo all’altro obiettivi e comportamenti esclusivamente in base alle proprie interpretazioni o emozioni del momento. Ad esempio, un paziente può considerare il volto perplesso dell’altro in risposta ad una propria affermazione come svalutante o critico se si trova già in uno stato mentale di allerta, senza configurarsi la possibilità che invece l’altro non ha effettivamente compreso il messaggio. Un caso in cui si attribuiscono agli altri stati mentali in base alle proprie credenze è, ad esempio, il disturbo di personalità paranoide in cui il comportamento altrui si legge sempre come maligno e nocivo in conseguenza della propria visione dell’ambiente come pericoloso e persecutorio. Se mi sento aggredito significa automaticamente che l’altro è aggressivo.

Le funzioni di mastery, invece, includono tutta una serie di capacità non più rappresentative, bensì di monitoraggio e controllo degli stati interni. Semerari e colleghi suddividono tali strategie in tre livelli a seconda del livello di elaborazione metacognitiva richiesto. Le strategie di primo livello sono quindi quelle in cui la persona ha una capacità metarappresentativa nulla o scarsa e il suo ruolo dinanzi all’emergere di uno stato problematico è passivo. Ne consegue che il solo modo di gestire un’emozione o risolvere un problema sarà agire direttamente sull’organismo per modulare il livello di attivazione ad esempio assumendo sostanze, tramite l’autolesionismo o ancora abbuffandosi. Le strategie di secondo livello richiedono un maggiore livello di consapevolezza e un ruolo più attivo della persona. Esse includono, ad esempio, il distrarsi reindirizzando la propria attenzione altrove, l’inibizione volontaria di un pensiero doloroso o la condivisione sociale con altri significativi. Un caso tipico in cui questa strategia può portare ad una disfunzione è quando si tenta continuamente di rielaborare un evento per riassegnarvi un significato ma senza approdare ad una soluzione, ovvero il rimurginio. In ogni caso, nelle strategie di secondo livello le funzioni rappresentative devono essere almeno minimamente presenti. Le strategie di terzo livello sono le più complesse e richiedono una buona capacità metacognitiva, in quanto in questo caso il soggetto agisce direttamente sui propri stati mentali. Esempi possono essere il riflettere criticamente sull’efficacia delle proprie credenze o soluzioni al problema, il negoziare un compromesso raffigurandosi obiettivi e desideri altrui oppure accogliere e accettare il proprio stato interno in quanto non è possibile modificare una situazione in nessun modo (es. lutto) ma restando consapevoli che esso è momentaneo e legato alle contingenze.

Le funzioni metarappresentative sono condizione necessaria (ma non sufficiente) affinché ci siano buone capacità di monitoraggio. In particolare, non è possibile avere un buon livello di autoregolazione se sono assenti i contenuti mentali da modulare, che dovranno per forza di cose essere prima identificati e differenziati adeguatamente. Ad esempio, non sarà possibile modulare adeguatamente uno stato mentale di rabbia da presunta ingiustizia subita, se non si riescono nemmeno a identificare motivazioni e credenze proprie e altrui che compongono la complessità della relazione interpersonale e delle emozioni in atto in quel momento. Oppure ancora, in terapia, il paziente si sentirà impotente e in balia degli eventi, manifestando frustrazione perenne e scarsa fiducia nel trattamento, se prima non riuscirà a rappresentarsi i vari stati mentali problematici su cui lavorare e che sono all’origine della sua sofferenza.

In conclusione, avere una visione integrata dell’architettura cognitiva della mente e delle sue funzioni di metarappresentazione risulta centrale per il terapeuta. Partire da una valutazione di tali funzioni nel paziente risulta utile sia ai fini della comprensione dell’origine strutturale dei sintomi, sia per spiegare il suo difetto nel funzionamento interpersonale dentro e fuori dal setting terapeutico sia infine per pianificare gli obiettivi e la modalità della terapia stessa, identificando le aree problematiche su cui lavorare con il paziente.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Allen, J. G., Fonagy, P., & Bateman, A. W. (2008). Mentalizing in clinical practice. Arlington: American Psychiatric Publishing.
  • Baron-Cohen, S., Leslie, A., & Frith, U. (1985). Does the autistic child have a “Theory of Mind”?. Cognition, 21, 37-46.
  • Carcione, A., Semerari, A. & Nicolò, G., (2016). Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Edizioni Laterza.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R. & Salvatore, G. (2013). Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità. Raffaello Cortina Editore.
  • Dimaggio, G. & Semerari, A. (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Edizioni Laterza.
  • DSM-5. Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali. 2014. Raffaello Cortina Editore.
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