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Filo d’erba. Storie d’infanzia: tra ferita dell’attaccamento e grido di speranza – Psicologia & Musica

Con la sua canzone, Filo d'erba, Fabrozio Moro parla di attaccamento e di quanto fa male crescere quando il diritto al legame sicuro viene negato

Di Elena Coletti

Pubblicato il 19 Mar. 2021

Aggiornato il 24 Mar. 2021 12:30

La canzone Filo d’erba di Fabrizio Moro (2019) racconta la storia di un bambino, il lato struggente dell’infanzia, una spensieratezza negata che colpisce al cuore di chi ascolta

 

Racconta il lato struggente dell’infanzia, una spensieratezza negata che colpisce al cuore di chi ascolta, perché, con i suoi 4 minuti di parole in note, l’autore ci racconta che Filo d’Erba potrebbe essere la storia di chiunque. Quel bambino potrebbe essere ciascuno di noi.

Ti vedo stanco, ti vedo silenzioso e spento, debole come un filo d’erba che attraversa il vento, smarrito come un cane abbandonato che ne ha viste tante…

Il brano inizia così: senza radici. E parla, attraverso immagini forti, di attaccamento. E di quanto fa male crescere quando il diritto al legame sicuro viene negato.

Ogni bambino viene al mondo con bisogni a cui non può rinunciare: protezione, sicurezza, affetto, contatto, calore; viene al mondo per crescere, sviluppare, vivere e amare. Per questo tutti noi nasciamo con un istinto innato al legame di attaccamento (Bowlby, 1969), ovvero una predisposizione biologica, geneticamente determinata e filogeneticamente trasmessa al legame nei confronti della persona che si prende cura di noi. L’attaccamento è, pertanto, un sistema motivazionale che spinge il bambino a ricercare sicurezza, vicinanza, protezione ed è, nei primi anni di vita, funzionale alla sopravvivenza, tanto fisica quanto psichica. L’immaturità dei primi anni, infatti, espone ad una vulnerabilità tale che il bambino, per poter sopravvivere, deve essere protetto; in tal senso, nella figura dell’adulto, generalmente la madre, troviamo un comportamento complementare, il comportamento di accudimento, che fa sì che in condizioni normali la figura materna sia responsiva, fornisca cioè quella protezione e sicurezza di cui il bambino ha bisogno. L’ambiente affettivo ed emotivo genitoriale ha profonde implicazioni sullo sviluppo psichico e somatico del bambino (Giannotti et al., 1984): grazie a prime relazioni sicure egli è in grado di costruire mappe interiori di sé e del mondo, sulle quali si plasma il senso di sé, l’empatia, la capacità di riconoscere e regolare le proprie emozioni, di controllare i propri impulsi, la capacità di mentalizzare e di sentirsi reali (Winnicott, 1969).

..scendi dalla macchina di un padre assente e poi cammini a testa bassa tra gli altri bambini: una mano in tasca e l’altra in aria – sospesa – come a creare un confine tra te e quello che hai rimosso.”

Ad alcuni il diritto all’amore viene, almeno parzialmente, negato. Non sempre – e non solo – per cattiveria, per violenza, per situazioni traumatiche estreme; al momento della nascita di un bambino o, potremmo dire, fin dal suo concepimento, egli dà vita, nell’immediato, ad una mamma ed un papà: è solo in quel momento, al momento dell’effettiva realtà della nuova esistenza, che nascono i due genitori. Accade, però, a volte, che per via di traumi irrisolti, dolori propri dell’infanzia, relazioni insoddisfacenti, problematiche psichiche di varia natura, non si sia pronti a diventare mamma o papà; non si sia capaci – e quasi mai per propria volontà – di investire ogni parte di sé nella crescita del proprio bambino. Ed è così che, in un contesto tutt’altro che sicuro, il bambino plasmerà il proprio sé e i propri modelli interni secondo modalità insicure evitanti, ambivalenti o, nel più estremo dei casi, disorganizzate.

Difficile affermare con certezza quale sia, tra queste tre, la tipologia di attaccamento del bambino in questione. La cosa che emerge, con un’intensità a tratti difficile da tollerare, è il dolore che attanaglia il bambino, la malinconia e la tristezza che pervadono un’epoca – quella dell’infanzia – che dovrebbe essere caratterizzata da una quasi completa spensieratezza. Se si ascolta bene, si riescono ad immaginare gli occhi, privi di luce, di quel bambino lì.

“…e intanto vedi il mondo così grande che ti pisci ancora addosso. Hai pochi anni, ma sembri grande: gli occhi segnati di chi ha visto già, ma pieni ancora di domande.

Perché se manca la sicurezza all’interno delle proprie relazioni primarie, la forza per crescere e gli strumenti per farlo vengono acquisiti in altro modo: la personalità del bambino, la sua psiche, svilupperanno in direzioni dettate dal bisogno di sopravvivenza; dalla necessità di prendere tutto quanto c’è sia di buono che di cattivo nei propri genitori, per interiorizzarlo, per costruire il proprio Sé su una frattura intergenerazionale, con la convinzione che, anche se fa male, doveva andare così; che in fondo un po’ di quel dolore ce lo siamo meritati, perché non siamo stati abbastanza bravi. E cresciamo in fretta, con quanta più fretta possibile per essere indipendenti, o per cercare qualcuno che curi le nostre ferite, che ci possa amare con tutto sé stesso per sopperire – troppo tardi – a dei vuoti, a delle insicurezze, alle troppe domande che l’infanzia ci ha lasciato.

Difficile anche dire se a cantare sia un padre, che chiede perdono al proprio figlio; o l’uomo, ormai cresciuto, che parla al proprio bambino interno, che cerca di trovare delle risposte ad un’infanzia mal vissuta. Quale che sia per ciascuno la propria verità, ciò che è certo è che alla fine della canzone, Fabrizio emette, a gran voce, un grido di speranza:

No, tu non puoi guardare, ma quello che oggi stai imparando, un giorno lo potrai evitare.
Giuro no, tu non puoi guardare, ma quello che oggi stai ascoltando un giorno lo potrai spiegare…

Perché se è vero che niente e nessuno può cancellare determinate ferite, è altrettanto vero che delle cicatrici è possibile farne un proprio punto di forza. È possibile perdonare il passato, ricucire il presente, migliorare il futuro. È possibile diventare genitori sufficientemente buoni (Winnicott, 1969) curando le proprie fratture, accettando le proprie debolezze, amando tanto il bambino reale quanto – imprescindibile – il proprio bambino interno. Perché:

Crescere non è facile, però, tante cose ancora non le so, ma non devi avere mai paura…

 

FILO D’ERBA – Guarda il video del brano:

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bowlby, J. (1969 - 80) Attaccamento e perdita. Vol 1,2,3. Trad.it. Torino: Bollati Boringhieri
  • Giannotti, A., Lanza, A.M. & Del Pidio F. (1984) Genesi della patologia psicosomatica. Ipotesi sul ruolo svolto dalle fantasie inconsce. In Carratelli, T. & Lanza, A.M. (Eds.) (2007) Corpo Mente. Roma: Edizioni Borla
  • Moro, F. (2019). Filo d’erba. Album: Figli di Nessuno.
  • Winnicott, D. (1969). L’esperienza di mutualità tra madre e bambino. In Winnicott, C., Sheperd R. & Davis, M. (Eds.). (1995). Esplorazioni psicoanalitiche. (pp. 273 - 283) Milano: Raffaello cortina editore
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