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L’applicazione della DBT con adolescenti che manifestano comportamenti autolesivi

L’applicazione delle DBT con gli adolescenti è stata manualizzata recentemente adattando il programma originale alla popolazione adolescente.

Di Marta Chemello

Pubblicato il 26 Feb. 2021

Nelle situazioni in cui vi sia un elevato livello di rischio suicidario, sembra che la DBT si riveli una forma di intervento potenzialmente efficace anche con gli adolescenti, specialmente se associata a strategie concrete per la regolazione delle emozioni e al coinvolgimento dei familiari.

Marta Chemello – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Mestre

 

La Dialectical Behavior Therapy (DBT) nasce con l’obiettivo di affrontare la disregolazione emotiva e comportamentale che caratterizza alcuni pazienti, diventando ad oggi una terapia empiricamente supportata per il trattamento del Disturbo di Personalità Borderline. Molto spesso in adolescenza emergono tali caratteristiche e nel modello DBT vengono concettualizzate come fattori scatenanti di comportamenti impulsivi ed evitanti che vengono attuati al fine di regolare le emozioni sperimentate. L’applicazione delle DBT con gli adolescenti è stata manualizzata da Rathus e Miller (2016), i quali hanno adattato il programma originale per adulti alla popolazione adolescente; nello specifico i familiari sono stati inclusi nel percorso di intervento, sono stati identificati nuovi dilemmi dialettici, è stato identificato un diverso modo per la gestione dei conflitti familiari e infine il materiale è stato semplificato e reso accattivante per la nuova utenza. Gli autori hanno previsto che tale programma possa essere utilizzato in programmi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria; nel presente articolo verranno presentati due trial randomizzati controllati relativi all’efficacia dello DBT skills training in quest’ultimo contesto.

Un primo studio (Mehlum et al., 2014) ha indagato l’efficacia della DBT in un gruppo di adolescenti che manifestava comportamenti autolesivi; nello specifico sono stati considerati pazienti che avessero attuato almeno 2 comportamenti autolesivi nella propria vita (di cui almeno uno nelle ultime 16 settimane) e soddisfacessero almeno 2 criteri del DSM-IV per il Disturbo di Personalità Borderline (o almeno 1 criterio con 2 sotto soglia). Come “atti di autolesionismo” sono stati considerati tentativi di avvelenamento o lesioni attuati allo scopo suicidario, senza scopo suicidario oppure con scopo non chiaro. I partecipanti sono stati quindi casualmente assegnati al gruppo sperimentale, nel quale veniva applicata la DBT, e al gruppo di controllo dove si ricorreva a protocolli generalmente applicati nei diversi contesti di cura. Gli sperimentatori chiamati a valutare i partecipanti non erano a conoscenza del gruppo di appartenenza dei soggetti e, in fase di assessment, identificavano il numero degli episodi di autolesionismo riferiti, l’ideazione suicidaria e la sintomatologia depressiva, parametri che sono stati valutati prima dell’assegnazione casuale ai due gruppi e, successivamente, a 9, 15 e 19 settimane a partire dal primo incontro.

I dati raccolti alla baseline non denotavano differenze significative tra i due gruppi; entrambi i programmi implementati prevedevano una durata di 19 settimane; nel caso specifico della DBT tre incontri venivano svolti individualmente mentre i successivi erano di gruppo; anche nel gruppo di controllo era previsto l’utilizzo di entrambi i setting.

I risultati ottenuti hanno mostrato come in entrambi i gruppi vi sia stato un buon livello di partecipazione, senza differenze statisticamente significative tra i due. Nel gruppo sperimentale è stato possibile apprezzare una significativa diminuzione nei comportamenti autolesivi, nell’ideazione suicidaria e nella sintomatologia depressiva. Un’osservazione interessante è come i miglioramenti riportati dai pazienti si manifestino durante tutto l’arco di tempo dell’intervento DBT, mentre altrettanto non si è verificato nel gruppo di controllo. Non vi sono stati suicidi e pochi sono stati i ricoveri oppure le visite in ospedale, nonostante non siano riscontrabili differenze statisticamente significative tra i due gruppi.

Uno studio successivo (McCauley et al., 2018) ha applicato un trial randomizzato controllato con la finalità di approfondire un aspetto non indagato nel precedente studio, ossia i tentativi di suicidio. Nella presente ricerca gli autori hanno valutato i tentativi di suicidio separatamente rispetto ai soli atti autolesivi poiché sembrava rilevante identificare trattamenti efficaci per adolescenti che manifestassero un elevato rischio suicidario.

Similmente al precedente trial sono stati individuati, all’interno dei servizi di cura, gli adolescenti che riferivano almeno un tentativo di suicidio, una cospicua ideazione suicidaria nel mese precedente, ripetitivi comportamenti autolesivi (almeno 3 nell’arco della vita e 1 nelle ultime 12 settimane), 3 o più sintomi che soddisfacessero i criteri del DSM-IV per il Disturbo di Personalità Borderline e un’età compresa tra i 12 e i 18 anni. Sono stati successivamente assegnati casualmente ad una delle due condizioni sperimentali: nel gruppo sperimentale veniva applicata la DBT mentre in quello di controllo la Terapia Supportiva individuale e di gruppo. In entrambi i casi i programmi terapeutici hanno avuto durata di 6 mesi, alternando sedute individuali ad incontri di gruppo, includendo i genitori e considerando un numero di assenze superiore a 4 come indice di dropout.

La valutazione ha indagato principalmente i tentativi di suicidio, gli atti autolesivi privi di intenzionalità suicidaria, l’autolesività, la presenza di ulteriori disturbi associati e la presenza di tratti riconducibili al Disturbo di Personalità Borderline; tali parametri sono stati valutati prima dell’assegnazione casuale, a 3, a 6 (fine del programma), a 9 e a 12 mesi.

L’analisi dei dati raccolti mostra come gli adolescenti che hanno preso parte al gruppo DBT abbiano partecipato maggiormente al programma, rimanendo coinvolti per diverse settimane. Inoltre durante il periodo dell’intervento nel gruppo sperimentale vi è stata una riduzione nel numero dei tentativi suicidari, nei comportamenti autolesivi non suicidari e in generale nelle condotte autolesive; non vi sono tuttavia differenze statisticamente significative tra i due gruppi al follow-up a 12 mesi, poiché entrambi hanno mantenuto i progressi mostrati in precedenza.

Quanto emerge da questi due studi può portare a concludere come, nelle situazioni in cui vi sia un elevato livello di rischio suicidario, la DBT si riveli una forma di intervento potenzialmente efficace, rendendo tuttavia auspicabile un intervento di lungo termine che includa eventualmente degli incontri di monitoraggio e ulteriori strategie di intervento. In questo specifico contesto appare necessario offrire agli adolescenti delle strategie concrete per la regolazione delle proprie emozioni, in associazione al coinvolgimento dei familiari nel percorso di trattamento.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • McCauley, E., Berk, M. S., Asarnow, J. R., Adrian, M., Cohen, J., Korslund, K., et al. (2018). Efficacy of Dialectical Behavior Therapy for Adolescent at High Risk for Suicide. A randomized Clinical Trial. JAMA Psychiatry, 75(8), 777-785.
  • Mehlum, L., Tormoen, A. J., Ramberg, M., Haga. E., Diep, L. M., Laberg, S., et al. (2014). Dialectical Behavior Therapy for Adolescents With Repeated Suicidal and Self-harming Behavior: A Randomized Trial. Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 53(10), 1082-1091.
  • Rathus, J. H., Miller, A. L. (2016). Manuale DBT per adolescenti. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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