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Caregiver & Covid-19

E' utile riconoscere ed apprezzare il ruolo del caregiver e aiutarlo a comprendere la singolarità della sua posizione e il suo impegno.

Di Febronia Riggio

Pubblicato il 08 Gen. 2021

Durante le fasi della pandemia, i caregiver hanno continuato a prendersi cura dei propri cari. Le difficili situazioni delle RSA, la chiusura dei centri diurni, i rapporti lavorativi interrotti con le badanti, hanno contribuito a rendere ancora più complessa una situazione paludosa già esistente prima della pandemia. 

 

Il termine caregiver tradotto significa “qualcuno che dà cura”, indica proprio il prendersi cura dell’altro; l’altro che non è autosufficiente, l’altro che è affetto da una patologia cronica e invalidante, l’altro con il quale, di solito, si ha uno stretto rapporto familiare.

Sono due le tipologie di caregiver che vengono distinte:

  • Caregiver formale: tutte quelle figure professionali che svolgono questo per lavoro e che quindi vengono retribuite.
  • Caregiver informale: colui che si prende cura in maniera continuativa e non retribuita.

Spesso, a monte della scelta del caregiver informale, vi è l’affetto rivolto ad una madre, ad un figlio, ad un marito. L’affetto, il legame di parentela, le condizioni socio-economiche, le condizioni di vita conducono alla scelta di abbandonare o di mettere temporaneamente in stand-by la propria vita: gli obiettivi di studio, la vita lavorativa, la vita sentimentale; “la vita costruita o in via di costruzione.”

Il lavoro del caregiver è un lavoro a tempo pieno, non solo pratico ma soprattutto psicologico ed emotivo. Il voler dare un aiuto all’altro, a volte anche il “sentirsi in dovere” di farlo, fa indirizzare tutte le proprie energie verso l’altro, credendo erroneamente che quelle stesse energie non servano più al proprio sé, al proprio benessere.

I dati Istat del 2018 riportano che

2 milioni e 827 mila persona , sul territorio italiano, curano familiari di 15 anni e più non autosufficienti e 646 mila persone curano contemporaneamente figli con meno di 15 anni e altri familiari di 15 anni e più non autosufficienti.

Migliaia di caregiver italiani quindi fronteggiano ogni giorno le problematiche relative al prendersi cura dell’altro che necessita di assistenza, di vigilanza, di attenzioni. Una situazione che facilmente è associabile ad una condizione di stress in cui il proprio vissuto personale, lavorativo, emotivo si sovrappongono e si intrecciano ai bisogni del familiare di cui ci si prende cura.

Ma anche il caregiver ha i propri bisogni.

Se già per antonomasia, la situazione del caregiver è una situazione che necessita di aiuti sia istituzionali che di professionisti specializzati, risulta semplice immaginare il duplicarsi dei problemi durante la pandemia e, soprattutto, durante il lockdown: i caregiver hanno avuto poche possibilità di scelta.

Come mostrato dal report di ricerca (Maggio 2020), condotto nell’ambito del progetto Time to Care, che ha coinvolto quasi 100 caregiver nel territorio nazionale, la situazione dei caregiver italiani necessita di essere attenzionata:

  • l’85% dei caregiver sono donne con un’età media di 57 anni. Le risposte dei partecipanti sono pervenute per la maggior parte dalle città del Nord Italia;
  • il 6% ha perso definitivamente l’attività lavorativa mentre un caregiver su quattro ha ridotto le ore di lavoro o ha temporaneamente sospeso l’attività professionale;
  • per il 45% dei caregiver l’emergenza Covid-19 ha aumentato il carico di aiuto e per il 52% il bisogno di compagnia, è un bisogno primario;
  • nel 27% dei casi, il rapporto con la badante è stato interrotto;
  • al primo posto, l’88% dei caregiver chiedono informazioni riguardanti l’assistenza alla persona in stato di necessità;
  • il 73% chiede servizi di assistenza domiciliare;
  • il 51% richiede un sostegno psicologico, aiuti per sé e nella propria casa.

Riassumendo, i caregiver durante il periodo di lockdown necessitavano di più assistenza e di più aiuti. Il motivo appare chiaro: in un contesto come quello che vivono i caregiver, la difficoltà è risultata doppia: oltre ad esperire il proprio disagio, il caregiver ha dovuto badare al bisogno dell’altro, vertendo in una situazione in cui il carico percepito aumentava giorno dopo giorno.

In termini scientifici, il “caregiver burden” si riferisce proprio al “carico” del caregiver, a quello che si potrebbe definire “lavoro”; chi si prende cura dell’altro si fa sempre “carico” di quest’ultimo e di situazioni ad esso connesse. Il contesto in cui opera il caregiver spesso è un contesto familiare e il lavoro richiesto è h24. La percezione del “carico del caregiver” dipende e comprende i seguenti fattori:

  • La durata dell’aiuto: per quanto tempo durante l’intera giornata, il familiare necessita di cure e assistenze. Quali autonomie ha perso, quali ha conservato, in quanti aspetti della vita quotidiana necessita di aiuto; co-residenza e situazione socio-economica.
  • Il proprio benessere: quanto tempo il caregiver dedica a se stesso; se e in che misura la vita sociale ne ha risentito; qual è la percezione del proprio benessere psico-fisico; qual è il proprio stato emotivo.
  • Sviluppo di sintomatologie: disturbi del sonno, disturbi gastrointestinali, salute a rischio, fatica, fiacchezza.
  • Essere riconosciuti: quanto gli sforzi quotidiani vengono riconosciuti dagli altri familiari, dagli amici, dai coniugi.

La letteratura scientifica ci indica i possibili effetti del “caregiving” (dare cura) sulla salute psico-fisica, individuando le patologie a cui potrebbero andare incontro i caregiver quando il loro “prendersi cura” diventa un impegno a lungo termine:

  • Stress cronico
  • Ansia
  • Depressione
  • Sindrome del colon irritabile, disturbi gastro-intestinali
  • Malattie cardiovascolari
  • Disturbi del sonno
  • Isolamento sociale

Lo  stress cronico, ad esempio, è definito come il fattore di rischio per altre condizioni: esso è associato ad un’iperattività dell’asse ipotalamo- ipofisi- surrene (HPI), il maggiore responsabile del rilascio di glucocorticoidi o più comunemente “ormoni dello stress”. Maggiore è lo stress a cui ci esponiamo, maggiore sarà anche l’attività infiammatoria: i processi infiammatori riguardano il nostro sistema immunitario e, a cascata, lo sviluppo di una varia sintomatologia che può ricondurre alle patologie di cui sopra.

Questi effetti che potremmo definire “collaterali” rispecchiano la condizione gravosa in cui vive il caregiver. Maggiore sarà il carico a lungo termine, peggiore sarà la percezione della qualità di vita. In accordo ai bisogni esplicitati nel contesto del report nazionale, in un periodo di intenso stress, come quello che stiamo attraversando, dovrebbero essere più proficue le attività territoriali per il supporto ai caregiver, figura che oltretutto non è ancora riconosciuta legalmente nel nostro Paese.

Quali suggerimenti dare allora ad un target di popolazione così a rischio? L’istituzionalizzazione del paziente malato, potrebbe essere davvero l’unica soluzione?

Per cercare di ridurre il carico sociale, emotivo, personale bisognerebbe, innanzitutto, che il caregiver si rivolga ai sostegni locali presenti nel territorio per un aiuto nelle attività quotidiane: assistenza domiciliare come fare la spesa, accompagnamento alle visite mediche, compagnia per passeggiate; il caregiver dovrebbe attenzionare il proprio benessere psico-fisico, con un sana alimentazione e associando, ove possibile, l’attività fisica. Il caregiver necessita l’accettazione e la condivisione dei propri momenti di rabbia, di disperazione escludendo che i sensi di colpa, per il proprio vissuto emotivo, prendano il sopravvento. Proprio per questo, è utile  riconoscere ed apprezzare il suo ruolo, aiutando lo stesso caregiver a comprendere la singolarità della sua posizione e il suo impegno, ricordando in maniera costante che sta già facendo tutto ciò che rientra nelle sue possibilità.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Adelman, R.D., Tmanova, L.L., Delgado,D., Dion, S. & Lachs, M.S. (2014). Caregiver burden. A clinical review. Clinical Review & Education, 311(10): 1052-1059.
  • Indagine realizzata nell’ambito del progetto “Time to Care” finanziato da Fondazione Cariplo. Hanno promosso questa indagine: Associazione per la Ricerca Sociale (ARS), Acli Lombardia e VillageCare, sezione lombarde di Legacoop, Spi Cgil, Fnp Cisl, Ordine degli Assistenti Sociali, Auser, Anteas; Maggio, 2020.
  • Istat (2018). Report Conciliazione tra lavoro e famiglia. 
  • Vitaliano, P.P., Ustundag, O & Borson, S. (2016). Objective and subjective cognitive problems among caregivers and matched non-caregivers. The Gerontological society of America, 00, 1-11.
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