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Caino nella terra del rimorso

Il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio dovrebbe essere il tema principale nella società quando avviene una tragedia di sangue

Di Maria Adele Capone

Pubblicato il 27 Nov. 2020

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avviene una tragedia di sangue, poiché molte ancora possano essere prevenute elaborando quei traumi sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando non più tarantati, né santi ed eroi portatori di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

 

Salento, «terra del rimorso», «terra del passato che torna e opprime col suo rigurgito».

Questa è la prima frase che si legge sulla quarta di copertina del libro di Ernesto De Martino, noto etnologo e antropologo che si occupò principalmente dei culti, sacri e civili, e delle tradizioni del meridione, da figlio partenopeo qual era.

Ne La terra del rimorso, De Martino descrive il retroterra e la subcultura rurale salentina da cui emerse il fenomeno del tarantismo, ‘antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta – il ragno che morde e avvelena – e dalla potenza estatica e terapeutica della musica e della danza’. Della Comunità, soprattutto, che prendeva in carico e in cura la persona che gridava in tal modo il proprio disagio, e attraverso la musica e la danza le si stringeva intorno, lenendo la sua sofferenza.

Secondo Giovanni Jervis, lo psichiatra presente nell’équipe dell’antropologo, il concetto che meglio rispecchia i cicli di crisi e di riscatto dei tarantati è quello di ‘nevrosi’. Ma si tratta di un concetto-limite, poiché il fenomeno non denotava un conflitto tra pulsione naturale (ad esempio sessuale) e un dettame sociale (‘non si fa’), bensì un contrasto tra due pulsioni culturalmente indotte: per dirla con le parole di Lichtenberg e della psicoanalisi contemporanea, tra il sistema motivazionale dell’avversività – il bisogno di ribellarsi alla società che aveva scatenato il sintomo – e il sistema motivazionale dell’attaccamento/affiliazione – il bisogno allo stesso tempo di essere da questa riconosciuti, amati, curati. A questi si potrebbe aggiungere anche il bisogno di assertività, di esserci e lasciare traccia di sé. La società, con i suoi dettami culturali e familiari spesso ambigui e contraddittori, era la causa dell’isteria, quel ragno che morde e avvelena, la terra del rimorso: in altre parole del non detto, del figurato, dell’inconscio. Una terra solitamente matriarcale in cui a qualsiasi bisogno e motivazione del singolo veniva anteposta la famiglia, in una costante incapacità di differenziazione e di separazione-individuazione. Tuttavia, quella stessa società a sua volta era chiamata a fare ammenda, a curare, mantenendo in equilibrio la persona, ‘dando una forma storicamente plausibile a un rischio angoscioso e senza nome’.

Società tra colpa e accudimento: prendersi cura di chi ha un disagio

Imm. 1 – Curing Tarantism by Dancing the Tarantella

Il rimorso è al tempo stesso un luogo ancestrale, nascosto e inospitale, che alberga nel profondo di ognuno in ogni era e luogo. E’ la zona franca in cui gli istinti primordiali, le sofferenze e le angosce dei nostri antenati corrodono, tarlano, manipolano il vivere quotidiano, lì dove non viene riconosciuta la propria identità, finché non si intraprende un percorso di catarsi.

In un’epoca come quella in cui viviamo, individualistica e globalizzata già prima del Covid, ma che negli ultimi tempi, giustamente, ha aggiunto anche una maggiore distanza sociale e isolamento, l’individuo non può più contare sull’altro per elaborare quei traumi relazionali e sociali che come miti familiari si perpetuano di generazione in generazione, causando dei paria distruttivi: non più tarantati, né santi e eroi portatori anch’essi di una concretizzazione del simbolo, ma ciò che i giornali chiamano ‘mostri’.

E il passato che torna e opprime con il suo rigurgito, porta all’esasperazione di un giovane che grida il suo disagio nel modo più atroce e efferato possibile, ponendo fine a delle vite e alla sua stessa umanità: per vendetta, attua una covata e ben studiata carneficina verso coloro che lo avevano tagliato fuori dalla loro vita vista come perfetta e ovattata, ricalcando probabilmente il suo vissuto di emarginazione e portandolo a inscenare sadicamente la sua sofferenza. Qualche anno prima, una giovane pone fine alla vita della cugina, Sarah Scazzi, sempre perché la rabbia e l’invidia covata per la ragazzina, che le stava portando via il carisma che aveva sul gruppo e la persona amata, esplode in un raptus omicida. Notevole come la nevrosi sociale ritorni sempre come un mantra: il conflitto tra bisogno di affiliazione e avversività ha scatenato nei singoli l’invidia omicida.

Da odierni Caino, portano addosso il trauma familiare dell’Eden desiderato e perduto, e odiano la felicità altrui. L’invidia stessa non è altro che l’odio scaturito da un fortissimo desiderio. Luke Burgis, imprenditore e filosofo americano appassionato di storia dell’umanità, accomuna tutti i periodi di crisi della società, tarantismo compreso, a una ‘crisi del desiderio’. Citando la teoria del desiderio mimetico del polimatematico René Girard, l’autore spiega come la storia opera nei cicli del desiderio. Imitiamo i desideri degli altri senza la consapevolezza che stiamo imitando, e questo porta alla rivalità e al conflitto con altre persone, e può inghiottire una comunità o una società nel caos. ‘Per Girard’, continua Burgis, ‘riti strani come il tarantismo potevano essere compresi solo comprendendo uno strato più profondo della psicologia umana: il luogo in cui il desiderio nasce e prende forma. Il modo in cui risolviamo i desideri frustrati – individualmente e in comune – è la chiave per comprendere il comportamento umano quando la medicina, l’economia e tutte le forme di scientismo si agitano’.

Dalla ricerca condotta ben sei decenni fa, De Martino aveva colto inoltre degli elementi simbolici ricorrenti che ricalcavano la vita e la discesa agli inferi dei tarantati: il periodo di vita in cui insorgeva tale disagio, simbolizzato dal morso del ragno, ossia la tarda adolescenza-prima età adulta, una situazione traumatica o di crisi (matrimoni forzati, amori impossibili, la perdita del lavoro, ecc.) e la ritualità sacra che si rifaceva a San Paolo, protettore dei tarantati, che avrebbe concesso la grazia della guarigione. Il rituale sacro e quello civile della comunità sentita come vicina e accogliente, un rito iniziatico, ‘ripetuto nel tempo e ordinato da regole antichissime’ e volto a prendere in carico ed esorcizzare il desiderio frustrato, non può più rimettersi in atto al giorno d’oggi, tuttavia, come dimostra l’antropologo nel suo scritto, ha avuto per secoli la funzione di scongiurare le ansie di un’esistenza segnata dal disagio o dall’emarginazione.

La psicologia, la psicoanalisi, la psicoterapia, seppur recenti nel vasto mondo delle scienze, ereditano il valore antropologico e terapeutico che in maniera inconsapevole e primitiva hanno svolto questi rituali e che continuano a svolgere in aree sperdute della terra, avendo lo stesso fine: ‘un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell’oscurità dell’inconscio rischiando di farsi valere come sintomo nevrotico, viene evocato e configurato su un altro piano (mitico-rituale nel caso del tarantismo, relazionale-fenomenologico nella relazione terapeutica), e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni e facilitando periodi un relativo equilibrio psichico’.

Prendere in carico e riconoscere, rispecchiare, la persona come individuo permette di svolgere il processo identitario di cui ogni giovane ha bisogno e che non sempre appunto trova nella famiglia o nella società, sfociando talvolta, come abbiamo visto, in molti episodi di cronaca in un dolore e una rabbia malevola che non vede l’altro, che lo distrugge come essere inanimato.

Basti pensare al film che circa un anno fa ha riscosso critiche e riconoscimenti, il Joker di Todd Phillips, altro odierno Caino spinto dalla mancanza d’ascolto e di riconoscimento a trovare la propria malvagia identità nella rabbia distruttiva e nella vendetta, a farci comprendere che tali dinamiche non possono essere confinate a un unico retroterra culturale ma che rappresentano l’inconscio primitivo di qualsiasi società, anche la più evoluta. Lì dove l’individuo non riesce a riconoscersi, lì dove il desiderio rimane frustrato, appare ciò che Jung chiamava l’Ombra.

Recuperare come società il dovere etico e morale di prendersi cura di chi ha un disagio, dovrebbe essere il tema principale di cui discutere quando avvengono tragedie di questo genere, poiché molte ancora possano essere prevenute. Come ci si è mossi per preservare l’integrità fisica della persona, con l’assunzione di medici e infermieri nel periodo pandemico, così dovrebbe avvenire per l’integrità psichica, che, passo dopo passo stiamo vedendo franare davanti ai nostri occhi, con l’aumentare dei suicidi e delle esplosioni di violenza eterodiretta, senza poi chiedere a posteriori, come avrebbe detto il Joker in una terra del rimorso in stile newyorkese, ‘a chi ha una malattia mentale di comportarsi come se non ce l’avesse’.

Mosso da simili riflessioni De Martino arrivava infine a concludere che ‘per questo orientamento il simbolo della taranta comporta un ethos, cioè una mediata volontà di storia, un progetto di ‘vita insieme’, un impegno ad uscire dall’isolamento nevrotico per partecipare ad un sistema di fedeltà culturali e ad un ordine di comunicazioni interpersonali tradizionalmente accreditato e socialmente condiviso: un ethos che, per quanto elementare e storicamente condizionato, e per quanto ‘minore’ nel quadro della vita culturale dell’Italia meridionale, consente di qualificare il tarantismo come ‘religione del rimorso’ e come ‘terra del rimorso’ la molto piccola area del nostro pianeta in cui questa religione ‘minore’ vide per alcuni secoli il suo giorno’. Il rimorso di una società che cerca empaticamente e catarticamente di risollevare il singolo dai suoi traumi e disagi, molto spesso da essa stessa creati.

Il simbolismo della taranta rimane potente: la danza della tarantata la epurava dalla sua malattia, si credeva che lei stessa in quel momento ballasse con il ragno perché la miscela di sangue e veleno li univa, finché il veleno non fosse definitivamente estirpato. In altre parole: i musici, i chitarristi, la comunità che le si stringeva intorno non erano altro che quella società che l’aveva figurativamente morsa, e ora ballavano con lei, finché il veleno della colpa e del rimorso non fosse stato definitivamente esaurito. E’ necessario quindi impegnarci a trovare nuove narrazioni che possano intersoggettivamente nascere in seno a una crisi sociale come quella in cui stiamo vivendo, nuovi modi che possano far defluire il veleno prima che questo torni a distruggere ancora. Il prendersi carico della salute mentale, come abbiamo visto, potrebbe essere la soluzione.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ernesto De Martino (1961). La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Il Saggiatore, 2015.
  • Joseph D. Lichtenberg, Frank M. Lachmann, James Fosshage (1992). Il Sé e i sistemi motivazionali. Verso una teoria della tecnica psicoanalitica. Astrolabio, 2000.
  • Luke Arthur Burgis (2020). Secret Desires: The Great Dancing Plague of 1518. Available here.
  • Imm. 1 - Curing Tarantism by Dancing the Tarantella; sourced allposters.com
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