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Dolore e attaccamento

L'attaccamento è un aspetto che può agire come catalizzatore di strategie negative che conducono ad una peggiore gestione del dolore.

Di Mariano Musci, Stefania Bonazza

Pubblicato il 30 Nov. 2020

Aggiornato il 04 Dic. 2020 12:31

Sembra che avere un attaccamento insicuro determini quantomeno una vulnerabilità dell’individuo verso atteggiamenti e comportamenti psico-sociali negativi. Avere un attaccamento insicuro possiamo dire ci faccia mettere degli occhiali che distorcono negativamente il nostro modo di reagire al dolore.

 

Abbiamo già parlato altrove della profonda poliedricità del dolore, che non si può definire solo nella sua componente nocicettiva (sensoriale), bensì riguarda aspetti psicologici complessi (Musci, 2017). Più importante forse è il fatto che il rapporto tra la componente nocicettiva e quella psicologica è bi-direzionale, pertanto se provare dolore influenza certamente il nostro modo di rapportarci al mondo è altrettanto vero che aspetti squisitamente psicologici come la valutazione cognitiva influenzano il nostro modo di percepirlo e affrontarlo. Sempre nello stesso articolo avevamo discusso di aspetti per lo più “interni” all’individuo e relativi alla valutazione del dolore (e a ciò che mette in atto per farvi fronte). Ora affronteremo un argomento che apre il nostro intendere il dolore a dinamiche sociali: l’attaccamento. Si tratta di un fenomeno complesso, ormai ampiamente studiato su molteplici aspetti della vita degli individui, che si radica nella relazione primaria con il caregiver.

Prima però di approfondire il rapporto tra attaccamento e dolore pare necessario accennare in questa sede ad un modello teorico piuttosto recente e comunque ancora ampiamente trascurato soprattutto dal campo clinico psicologico (ed anche medico), che bene si sposa sia con l’interpretazione del dolore sia con lo stesso utilizzo dell’attaccamento come chiave di lettura di alcuni meccanismi messi in atto dall’individuo per interpretare il dolore e fare fronte al dolore; stiamo parlando del modello bio-psico-sociale (Gatchel et al., 2007)

Noi tutti siamo più o meno d’accordo nel pensare alla nostra realtà come determinata dall’interazione tra biologico, psicologico e sociale, tuttavia ci è voluto davvero tanto tempo prima che si prendesse sul serio una tale prospettiva. Per quanto concerne il dolore, è fondamentalmente dagli anni ’90 che si è iniziato a parlare di modello bio-psico-sociale e si è iniziato seriamente a studiarlo solo a partire dall’inizio del millennio. Senza addentrarci troppo nella spiegazione delle singole componenti, che va oltre l’obiettivo di questo articolo, possiamo immaginarci il dolore (o meglio l’esperienza dolorifica), come il frutto di tutto quello che vedete in figura 1.

Figura 1 – Modello bio-psico-sociale

Capite bene che il dolore è quindi qualcosa di diverso rispetto ad una semplice “presenza/assenza” di sintomo dolorifico (nocicezione), è un qualcosa che prende in considerazione fenomeni emotivi, cognitivo/valutativi, affettivi e di risposta allo stress (ricordiamoci che il dolore è la fonte stressogena per antonomasia), insieme a tutto quel bagaglio personale, culturale e sociale che viene racchiuso nel dominio “social” (dove sicuramente ci potrebbero entrare molte altre variabili). Va da sé che questo modello ha delle implicazioni enormi sul modo in cui vediamo il dolore (ma anche la malattia in generale) e quindi a come vi interveniamo clinicamente. Prima di tutto presuppone che ogni soggetto esperisca il dolore in modo diverso rispetto a ogni altra persona (ciò vale per qualsiasi fenomeno mentale), pensate a quante volte vi è capitato di dire “… ha una soglia del dolore diversa della mia”. In questo rientrano tutti quei fenomeni predisponenti o protettivi di cui l’attaccamento è il miglior rappresentante. Secondo, presuppone un ampio (ri)utilizzo delle aree cerebrali soprattutto corticali (dove l’esperienza cosciente prende vita) e terzo presuppone un ampio rapporto di ritrasmissione del segnale e un’ampia dislocazione su più livelli di elaborazione dell’informazione (il dolore è processato a tutti i livelli, dal midollo osseo fino alla corteccia, passando per tronco dell’encefalo e circuito limbico). Questi due ultimi aspetti spiegano perché il dolore è un fenomeno tanto poliedrico e complesso, quanto “antico” e governato da aspetti non coscientemente processati, bensì vissuti in modo automatico e corporeo.

Questo modello ci permette di avere una veduta più ampia circa il dolore, traghettandoci verso la sua interpretazione in termini di fenomeno caleidoscopico, assolutamente unico e determinato anche dal dominio sociale. L’attaccamento si colloca perfettamente nel solco di questa nuova prospettiva dei fenomeni mentali e, secondo il parere di scrive, rappresenta al meglio quel punto di intersezione tra biologico, psicologico e sociale. Al netto delle importanti ripercussioni teoriche e cliniche del sistema di attaccamento, verso le quali rimandiamo ad un altro articolo (Attaccamento e Teoria dell’attaccamento, State of Mind), quello che ci preme sottolineare in questa sede è il fatto che influenza in modo importante il nostro modo di approcciarci al mondo anche da adulti, l’attaccamento diviene il filtro della nostra realtà esterna, ma anche interna, infatti, lo stile di attaccamento influenza il nostro sistema di regolazione cognitiva ed anche la componente metacognitiva (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). Per esempio, chi ha uno stile ansioso dirige l’attenzione costantemente verso i segnali di minaccia (Natural Threat Monitoring – NTM), mentre chi ha uno stile evitante tende a sopprimere gli stimoli minacciosi e vulnerabilità personali (Natural Threat Repressing – NTR) (ibidem).

Sul rapporto tra dolore cronico e attaccamento si sa, tuttavia, ancora poco. Un tentativo per colmare questo gap è stato proposto da Meredith e colleghi (2008) che prima analizzano la letteratura disponibile (che dal 2008 ad oggi non ha fatto tantissimi passi in avanti) e poi propongono un modello teorico di interazione tra dolore e sistema di attaccamento. Presentano il modello Attachment-Diathesis Model of Chronic Pain (ADMoCP) che oltre alla teoria dell’attaccamento attinge anche alla teoria cognitiva della risposta allo stress di Lazarus (1993). Il presupposto è che l’attaccamento influenzi a tutti i livelli gli aspetti primari della valutazione e della risposta (figura 2).

Figura 2 – Modello Attachment-Diathesis Model of Chronic Pain (ADMoCP)

Il dolore è primariamente “filtrato” dal sistema di attaccamento individuale (A) che attiva a sua volta una valutazione cognitiva (B) e una risposta (C). Tutto questo ha un impatto sull’adattamento al dolore (D). Interessante notare come il sistema di attaccamento appaia influenzare direttamente l’adattamento alla situazione e il rapporto che la valutazione cognitiva e la risposta a tale valutazione hanno (insieme) sull’adattamento.

Così il sistema di attaccamento può esacerbare il dolore e favorire aspetti (comportamenti, valutazioni, strategie di coping etc.) in contrasto con le terapie mediche e controllo del dolore (tabella 1). Questi “meccanismi” sono svariati e sono stati aggiornati nell’ultima review proposta dalla stessa autrice (Meredith e Strong, 2019) sul rapporto tra attaccamento e malattia cronica che, tuttavia, si possono quasi completamente integrare rispetto il rapporto con il dolore cronico e rappresentano un’estensione di quanto già proposto da Meredith e colleghi nel 2008.

Tabella 1 – Aspetti connessi al sistema di attaccamento – Tratta da Meredith e Strong 2019

Non ci soffermeremo su ogni aspetto presentato in tabella 1, è sufficiente comprendere come il sistema di attaccamento porta con sé una serie di meccanismi che fanno in modo di controllare (o almeno tentare) i risvolti più negativi della condizione morbosa e algica. L’attaccamento può agire come catalizzatore di strategie negative che conducono ad una peggiore gestione del dolore, un esempio è il catastrofismo che è stato visto sostenere una condizione di dolore cronico, ma anche l’ipervigilanza, l’ipersensibilità che potremmo benissimo inserire nelle strategie di un soggetto NTM oppure la repressione della propria espressività emotiva, l’inibizione delle emozioni e il ritiro dalle relazioni di cura, aspetti che ben rappresentano un soggetto NTR.

In definitiva, avere un attaccamento insicuro determina quantomeno una vulnerabilità dell’individuo verso atteggiamenti e comportamenti psico-sociali negativi. Avere un attaccamento insicuro possiamo dire ci faccia mettere degli occhiali che distorcono negativamente il nostro modo di reagire all’esperienza dolorifica.

Il nostro interesse per il dolore deriva proprio dal fatto che si tratta di un fenomeno che inequivocabilmente è figlio del “lavoro” bio-psico-sociale e dove definire i confini tra questi tre domini è praticamente impossibile. Bene si sposa con il concetto di attaccamento: comprendere che il sistema di adattamento sociale (così pensiamo all’attaccamento) di cui ognuno di noi è equipaggiato (chi meglio, chi peggio) possa essere uno dei modi per valutare come ogni individuo risponde al dolore è sicuramente uno strumento clinico prezioso. Sempre di più bisogna fare affinché l’attaccamento venga studiato nei reparti ospedalieri, perché sembrerebbe essere la base sulla quale si instaura la relazione terapeutica e quindi anche l’aderenza alle terapie, ma non solo, interagirebbe su tutti quegli aspetti che promuovono il benessere individuale (comportamenti, valutazioni, interazioni sociali, strategie di coping etc.). Se ciò non bastasse, l’attaccamento appare influenzare “direttamente” la percezione del dolore, per esempio aumentandone la sensibilità individuale. In definitiva, il dolore, nel suo essere una “sensazione” ancestrale, disponibile ai livelli più primordiali di evoluzione (addirittura negli invertebrati) si è evoluto nell’essere umano in modo peculiare, mantiene il suo “scopo” originario, quello di farci scappare o rispondere ad una minaccia, ma raccoglie in più caratteristiche cognitive, emotive, affettive e sociali complesse (come l’attaccamento) che rendono il dolore non più “nocicezione” bensì “esperienza dolorifica”.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bowlby, J. (1982). Attachment. In J. Bowlby, Attachment and loss. New York: Basic Books.
  • Caselli, G., Ruggiero, G. M., & Sassaroli, S. (2017). Rimuginio: teoria e terapia del pensiero ripetitivo. Raffaello Cortina.
  • Gatchel, R. J., Peng, Y. B., Peters, M. L., Fuchs, P. N., & Turk, D. C. (2007). The biopsychosocial approach to chronic pain: scientific advances and future directions. Psychological bulletin, 133(4), 581.
  • Lazarus, R. S. (1993). Coping theory and research: Past, present, and future. Psychosomatic Medicine, 55, 234−247.
  • Lazarus, R. S., & Folkman, S. (1984). Stress, appraisal, and coping. New York: Springer Publishing Company. Immagino modello bio-psico-sociale (Gatchell)
  • Meredith, P., Ownsworth, T., & Strong, J. (2008). A review of the evidence linking adult attachment theory and chronic pain: Presenting a conceptual model. Clinical psychology review, 28(3), 407-429.
  • Meredith, P. J., & Strong, J. (2019). Attachment and chronic illness. Current opinion in psychology, 25, 132-138.
  • Musci, M. M. M. (2016). Come valutare il dolore: una checklist per la valutazione del dolore in bambini non comunicanti (Bachelor's thesis, Università di Parma. Dipartimento di Neuroscienze).
  • Redazione State of Mind. Attaccamento e Teoria dell’attaccamento.
  • Musci, M.(2017). Il dolore non è solo dolore. State of Mind.
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