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Il dolore cronico come preformatore: strategie d’intervento

Le persone affette da dolore cronico si identificano e restano intrappolate nel dolore stesso, nella patologia, nelle emozioni e da essi si fanno manipolare

Di Esmeralda Greco

Pubblicato il 25 Set. 2019

Il dolore è il risultato di un’elaborazione cognitiva-valutativa, spesso non consapevole, di vari fattori; un coacervo di risultanze: aspetti fisici, genetici, biologici, struttura di personalità, storia personale, emozioni, contingenze, cultura, modelli appresi e anche coordinate spazio/temporali..

 

Un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata a un danno tessutale, in atto o potenziale, o descritto in termini di tale danno (International Association for the Study of Pain – IASP).

Con tale definizione il dolore diventa il risultato di un’elaborazione cognitiva -valutativa, spesso non consapevole, di vari fattori, un coacervo di risultanze: aspetti fisici, genetici, biologici, struttura di personalità, storia personale, emozioni, contingenze, cultura, modelli appresi, coordinate spazio/temporali (passato, presente e futuro). Il dolore è stato ed è un segnale importante per l’uomo, gli ha permesso e gli permette di proteggersi da danni, è un campanello d’allarme per eventuali pericoli, ha promosso l’omeostasi fisiologica. Allorquando il dolore persiste e perde queste sue caratteristiche “protettive” diventa disfunzionale ed esso, con un meccanismo a feedback, influenza e viene “colorato” dalle emozioni: C(d)olore. Questo sistema d’allarme, quinto segno vitale in grado di avvisarci se siamo in zona di danneggiamento, perde questa sua funzione essenziale per lasciare spazio ad altro.

L’insieme dei dati clinici e sperimentali indica che il dolore in origine è mediato sulle fibre nervose mieliniche ed amieliniche, le quali hanno corpi cellulari nei gangli dei nervi cranici e spinali, o sinaptici, per finire nella cute, nei tessuti sottocutanei o nei visceri. Le branche prossimali di questi nervi entrano nel sistema nervoso centrale; nel cervello, nel caso dei nervi cranici, e nel midollo spinale nel caso dei nervi spinali, dove continuano mediante sinapsi con fibre connettici o coi neuroni specifici.

Sappiamo che i recettori specifici deputati per la recezione, localizzazione e trasmissione del dolore sono i nocicettori; siamo a conoscenza che esistono due vie del dolore, anatomicamente individuate in una via della regione sottocorticale ed un’altra nella corteccia, ma poco sappiamo ancora oggi di come questo meccanismo che ci appartiene viene integrato con altri altrettanto complessi procedimenti cognitivi, che ci permettono di elaborare l’esperienza nocicettiva.

Oggi, comunque, generalmente ammesso che sebbene esista una disposizione topografica delle fibre nervose, esistono tuttavia considerevoli variazioni individuali le quali spiegherebbero molte delle apparenti contraddizioni riscontrabili fra i dati patologici del midollo spinale, quando paragonati con i dati clinici (Bonica, Il dolore ,1959)

Già nel 1950, l’autore si interrogava su come il cervello poteva attuare un’azione integrativa nell’interpretazione del dolore, riferendolo ad uno stato emotivo presente, inoltre introduceva un concetto importante: quello della profonda interconnessione tra mente e corpo, della loro reciprocità nel comunicarsi il dolore e di seguito esprimerlo e/o in dati fisici o in un comportamento.

Oggi sappiamo che sono molti i fattori che vengono a convergere e influire su questa comunicazione neuronale: la memoria, l’attenzione, le emozioni, i tratti di personalità e assieme questi riescono a mediare la relazione tra danno fisico e percezione del dolore. Gli autori riuscirono a localizzare le aree deputate alla percezione illusoria; esse sono dovute a una rete neurale disposta tra il talamo e la corteccia e tra la corteccia e il sistema limbico; Melzack(1965) denominò questa rete body – self neuromatrix, che, sebbene sia geneticamente determinata, può trasformarsi in base all’esperienza sensoriale. Il cervello elabora gli stimoli che giungono dalle aree periferiche e li integra in uno schema corporeo, ne consegue che il dolore non è solo la risultanza di dati dovuti a danno tessutale, esso è dovuto ad uno schema sinaptico (in continuo divenire) della neuromatrice, capace di originare pattern neuronali specifici, unendo dati sensoriali con quelli affettivi, cognitivi.

Melzack e Wall(1965) hanno riconosciuto, con le loro ricerche, che nel dolore cronico vi sono delle componenti psicologiche e sociali e che quest’ultime svolgono il ruolo importante nel mantenimento del dolore. Fordyce (1969) notò che le risposte comportamentali che le persone affette da dolore cronico attuavano, venivano rinforzate dall’ambiente, sia perché era il loro stesso comportamento che le sosteneva, sia per fattori culturali. Da qui ne dedusse che vi erano, oltre ad aspetti spiacevoli della malattia, anche benefici o vantaggi secondari che diventavano rinforzatori e mantenevano i comportamenti non adattivi. Fu così che si iniziò ad attuare un trattamento al dolore con approccio multifattoriale.

Nel modello di intervento psicoterapeutico cognitivo comportamentale di terza generazione Acceptance and Commitment Therapy (ACT) viene sottolineato che all’origine della sofferenza umana vi è un voler controllare le proprie esperienze interne; J. Dahl e T. Lundgren nel loro libro (Oltre il dolore cronico, 2014) rintracciano nella persona con dolore cronico comportamenti atti al fine di evitare, allontanare, controllare, modificare i pensieri, le emozioni, i ricordi, tutto ciò che viene ritenuto spiacevole e doloroso. Gli autori differenziano il dolore in pulito e sporco; nel primo fanno rientrare il dolore fisico, mentre in quello sporco rintracciano quello che chiamano la catena del dolore. La persona affetta da dolore cronico inizia ad utilizzare strategie per poter allontanare, cambiare il dolore e questi comportamenti di evitamento diventeranno di seguito degli script rigidi, pervasivi e continuativi nel tempo, l’individuo metterà in atto una lotta con se stesso, contro i propri contenuti mentali spiacevoli e dolorosi.

La persona affetta da dolore cronico è una persona che è stata sottoposta ad esami, più o meno invasivi, ad una serie estenuanti di visite specialistiche, a volte ha subito diagnosi errate prima di poter approdare a quella esatta, altre volte l’accertamento è stato tardivo e il danno si è venuto ad aggravare, si è sottoposto a terapie errate, oppure infinite, chirurgiche, alternative, terapie al limite della scientificità e ha sopportato tutto ciò pur di non sentire il suo dolore. Sono persone che non si sono sentite capite, credute, ascoltate o accolte dai medici, dalle persone che hanno accanto, familiari, amici, parenti. Si sono viste stravolgere la loro vita, hanno rinunciato, o interrotto, non volontariamente, la loro attività lavorativa, gli hobby, le loro relazioni affettive, il loro stile di vita. Sono persone che si trovano imprigionate dai loro sintomi, dalle loro stesse lamentele, dal rumore di sottofondo che quotidianamente gli ricorda che hanno perso dei gradi di libertà.

Inizialmente la persona sente “il dolore pulito”, quello che nasce in una specifica area fisica, esso è solo dolore, successivamente questo diventerà un ritmo pervasivo, un rumore costante e quotidiano, l’individuo sentirà che il dolore lo sta preformando (studi di neuroimaging MRI, fMRI Danes 2016), mutando sia nella sua struttura che nella sua funzionalità. Il dolore pulito si trasforma in dolore sporco. Dahl e Lundgren(2014), paragonano il primo al brusio vitale, mentre il secondo al fango, l’unione dei due dolori porterà la persona a cercare comportamenti di evitamento per non sentire e per poter controllare il suo dolore, bloccando il fluire delle sue azioni, avviandosi verso una restrizione dei valori, verso degli script mentali disfunzionali e verso comportamenti di evitamento.

Nella pratica clinica ho potuto riscontrare come in verità da questo dolore sporco nasce qualcosa di creativo, che porta a trasformare il fango, elemento materico, in giara o altro contenitore di narrative intrapsichiche ed interpsichiche rielaborate e ristrutturate e di dolore/colore accettato in tutte le sue possibili nuance; appunto una preformazione sia in profondità che in superficie come viene attestato dagli studi di neuroimmaging.

Attraverso studi (Vadivelu, 2017) effettuati tramite revisione della letteratura scientifica sappiamo che vi è una maggiore probabilità, per chi ha una sofferenza cronica, di sviluppare ansia, depressione, rabbia, somatizzazioni, bassa autostima e un senso di impotenza, non self efficacy e in generale comportamenti emotivi disfunzionali. Spesso chi soffre di dolore cronico può sviluppare una psicopatologia. La persona con sofferenza cronica mette in atto strategie disfunzionali pur di evitare l’esperienza dolorosa, vi sono dei pensieri irrazionali. La catastrofizzazione è una delle possibili strategie che le persone affette da dolore cronico possono mettere in atto; essa è un’amplificazione dell’evento spiacevole, doloroso, degli effetti negativi del dolore; è il pensare che l’evento che gli sta “capitando” possa diventare minaccioso, nocivo, appunto catastrofico.

La CBT prende in esame un vasto range di contenuti di elaborazione cognitiva che coesiste con i pensieri delle persone affette da patologie croniche risultando così utile sia per prevenire sia per il trattamento terapeutico attivo. Essa viene usata nel trattamento dei disagi, delle abitudini disfunzionali, per ridurre i sintomi di tanti disturbi picopatologici; viene impiegata attraverso tecniche quali: il rilassamento (rilassamento progressivo, stress inoculation, ad es.), la Cognitive restructuring, il Coping skills training, la psicoeducazione, il goal setting, pianificazione mediante diari delle fasi quotidiane del paziente (ad es. circa il suo ritmo circadiano). Lavora sui costrutti di attribuzione causale come quelli della self- efficacy, del locus of control, permettendo di avviare un percorso attivo per motivare e mantenere il tragitto della cura. Un valido strumento che viene in aiuto a noi operatori del settore e che possiamo somministrare durante l’assessment per poter individuare indici di cronicizzazione è il Cognitive Behavioural Assessment (CBA). Obiettivo di base delle terapie cognitivo comportamentale è quello di ridurre i comportamenti non adattivi, disfunzionali, dovuti ad apprendimenti, a sentimenti di impotenza, all’eccessiva sensibilità al dolore. Per attuare ciò si utilizzano strategie che rendono capace la persona di affrontare il dolore, modificando e migliorando la sua flessibilità psicologica, la capacità di controllare il dolore, promuovendo nuove strategie di coping, empowerment, nuove competenze ed abilità. Nel setting e grazie alla relazione terapeutica e al conseguente empirismo collaborativo, si lavora assieme al paziente verso obiettivi condivisi, lo si pone nella condizione di attuare le sue scelte poiché è lui che sa qual è la direzione dei sui valori, come vuole vivere la sua Vita. Compito dello psicoterapeuta è quello di aiutare a riconoscere i sentimenti, i comportamenti, i pensieri e il dolore, dolore che non verrà ad essere eliminato; assieme al paziente si analizzeranno gli ambiti di vita per cercare di renderli più variegati, significativi, ricchi, flessibili; gli si indica l’accettazione come apertura verso il proprio dolore cercando di non contrastare quest’ultimo, prediligendo di vivere realizzando scelte e azioni “libere” e non in relazione al dolore; portando la persona verso la costruzione di nuovi pattern flessibili di comportamento.

Le persone affette da dolore cronico si identificano e rimangono intrappolate col dolore stesso, con il dolore “sporco/ colorato”, con la loro patologia, con le loro emozioni e da essi si lasciano manipolare: spesso questi comportamenti sono supportati dalle contingenze (modelli culturali ad esempio). La defusione è un’opportunità per ritornare ad esperire la vita rielaborando l’esperienza nocicettiva e ampliando il repertorio esperienziale. Da supporto per poter attuare la defusione si può utilizzare la Mindfulness (letteralmente significa “piena consapevolezza”), secondo Thich Nhat Hanh (2017) essa è come un energia dell’essere consapevole e svegli nel momento presente. Nel 1979 il dr. J. Kabat- Zinn ideò e strutturò la Mindfulness- Based Stress Reduction (MBSR) per poter somministrare una terapia ai malati cronici; questa tecnica risulta d’aiuto ai pazienti affetti da dolore cronico, nello specifico nel ridurre i pensieri e i comportamenti di rimuginio e di distrazione. Obiettivo della terapia è quello di defondersi dai propri pensieri dolorosi ampliando e sviluppando il Sé Osservante, per porsi in una posizione di differente prospettiva, iniziando un percorso verso l’accettazione del dolore, passo importante per poter vivere una vita che si incammina verso i propri valori: come un impegno quotidiano.

L’accettazione non è la rassegnazione passiva… non significa arrendersi e accettare semplicemente che non possiate fare nulla per il vostro dolore o per la vostra vita. Questo stato mentale non scaturisce dal darsi per vinti nella lotta con il dolore, ma è la conseguenza dello smettere di lottare contro sé stessi  (J. Dahl, Oltre dolore cronico, 2014)

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Aaron T. Beck- Principi di terapia cognitiva. 1984, Casa Editrice Astrolabio, Roma
  • J.J. Bonica – Il dolore, diagnosi- prognosi – terapia.1959 Casa Editrice dr. Francesco Vallardi Torino.
  • J. Dahl, T. Lundgren- Oltre il dolore cronico.2014 FrancoAngeli editore, Milano.
  • G. Denes- Plasticità cerebrale. 2016 Croccio editore, Roma.
  • Daniel J. Siegel- Mindfulness e cervello. 2009, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Thich Nhat Hanh - Camminare in consapevolezza.2017 Terra Nuova edizioni, Firenze.
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