Come mai una persona che ha fatto esperienza delle privazioni a cui porta la dipendenza patologica, che ha capito che per fare solo quella cosa deve rinunciare a tutte le altre e a tutti gli altri: come mai continua a drogarsi?
FATICA A CREDITO: STORIE PARZIALI DI DIPENDENZA PATOLOGICA – (Nr. 5) Storie in comunità
Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo.
Ti aspetterò là.
(Rumi, 1258)
Così come in un campo da tennis ogni giocatore ha infinite soluzioni in un campo definito, ognuno ha infiniti modi per contrarre una tossicodipendenza e infiniti modi per affrontarla o curarla.
In alcuni casi il primo contatto con una sostanza può essere del tutto accidentale se non frutto di sventura, in altri casi può essere una consapevole ricerca di esperienze, in altri ancora una semplice soluzione alla timidezza, può essere un incontro genetico o un tentativo paradossale di ribellione adolescenziale, può essere la migliore alternativa alla follia o l’unica sensazione di calore a disposizione dopo la propria nascita.
Se siamo tutti in cerchio e uno di noi propone di fumare una canna (a differenza dell’oppio, i cannabinoidi fanno desiderare di condividere l’esperienza con qualcuno) la persona prima di me potrebbe essere decisiva per la mia scelta di fumare oppure no e, allo stesso tempo, io potrei essere decisivo per colui che sta dopo di me. Nel caso in cui il mio vicino decida di non fumare, per me sarà molto più facile accodarmi a lui, è molto meno faticoso condividere una decisione che doverla prendere.
Come direbbe un professore di fisica: se c’è un vuoto, prima o poi arriva qualcosa che lo riempie.
La possibilità di ricostruire storie personali complesse o traumatiche nei pazienti tossicodipendenti è molto frequente, esperienze evolutive disorganizzate e caotiche non sono rare. Si riscontrano, però, anche contesti familiari da manuale in cui la droga ha finito per addentrarsi ugualmente, relazioni nelle quali ai figli è stato dato tutto tranne ciò che loro volevano veramente, oppure rapporti in cui i comportamenti reciproci si sono intesi ma non spiegati.
Vi possono essere contesti iperprotettivi che non hanno permesso ai fallimenti di favorire la costruzione di una identità capace di affrontarli, che hanno impedito l’acquisizione di quelle risorse che generano un senso di autoefficacia personale, che hanno fatto sentire la persona sola, quando doveva rialzarsi da sola.
Spesso raccontiamo ambienti che hanno privilegiato il far vedere piuttosto che il guardare, il confessare piuttosto che il condividere, la paura come dimostrazione di rispetto, la sottomissione come sinonimo di vicinanza e il silenzio come scappatoia all’incomprensione.
Se l’incontro con le sostanze stupefacenti può essere difficile da rilevare e, anche quando individuato, povero di informazioni salienti, il mantenimento della dipendenza patologica presenta delle caratteristiche che possono essere descritte con più precisione e utilità.
Come mai una persona che ha fatto esperienza delle privazioni a cui porta la dipendenza patologica, che ha ricevuto ripetutamente conseguenze punitive dall’uso di sostanze, che ha perso amici, famiglia, amore, lavoro, credibilità, dignità, che è stato in carcere, che ha dormito per strada, che non prova più neanche il piacere di una volta, che impiega ore a rintracciare una vena nel suo corpo, che ha capito che per fare solo quella cosa deve rinunciare a tutte le altre e a tutti gli altri: come mai continua a drogarsi?
Nessuno stupido si avvicinerebbe al fuoco dopo aver capito che scotta. Nessuno tranne chi ha un valido motivo per bruciarsi
(A. Einstein)
Innanzitutto capire non significa guarire, il fatto che un individuo capisca le fonti della sua sofferenza non lo porta a smettere di provarla, inoltre il motivo per cui un tossicodipendente si droga o un alcolista beve quando lo incontriamo, non è lo stesso per cui ha iniziato a drogarsi o a bere.
A differenza di quanto accade con altre patologie, il tossicodipendente non ci racconta un problema ma una soluzione.
Giovanni
Tutte le volte che Giovanni andava al bar, impiegava ore per pettinarsi e scegliere i vestiti, lo faceva perché sapeva di incontrare Iris, la sua coetanea di 18 anni alla quale tentava di presentarsi da tutta l’estate.
Ogni giorno, davanti allo specchio, preparava le parole e i gesti con cui avrebbe recitato la sua parte e, anche se incontrava delle difficoltà nel prevedere le risposte che Iris gli avrebbe dato, alla fine lo specchio acconsentiva sempre ad uscire con lui.
Giovanni aveva anche cercato di recitare il copione con sua madre, ma lei non era mai sufficientemente viva per essere in contatto con lui e le battute non sarebbero state realistiche.
Quando era un appassionato di puzzle passavo molto tempo in cucina mentre sua madre preparava la cena. Giovanni era molto bravo ed era arrivato a concludere quelli da 1000 pezzi.
La cosa migliore che poteva capitargli era che sua madre fosse proprio lì con lui mentre incastrava l’ultimo tassello dell’immagine, la gioia doveva arrivare dal suo stupore per la bravura di Giovanni e non dalla fine del puzzle.
Ma non riusciva a distrarla dai fornelli, lei girava il sugo e lo invitava a togliere tutto per apparecchiare. Quell’immagine di San Pietro ritornava in 1000 pezzi, come lui.
La madre di Giovanni non aveva più spazio per altre parole, non aveva più accesso al suo cervello e al suo cuore, era una routine umana di azioni consequenziali che dovevano portarla al termine di ogni giornata. Non evitava più le possibili deviazioni di programma, semplicemente non le percepiva, il suo comportamento era identico con qualsiasi circostanza perché le circostanze l’avevano distrutta.
Quella donna aveva smesso di ricevere un sentimento troppo presto nella sua vita, per un pò aveva cercato di rimediarne qualche briciola in modo caotico e poi aveva concluso che il niente è meglio del poco.
Suo padre riusciva a guardarla solo quando era girata di spalle, come se potesse tollerare la sua presenza solo se lei dava l’impressione di allontanarsi. La strategia di guardare quella donna solo di spalle non era però sufficiente a placarlo, infatti, per farsi del male, gli bastava chiudere i suoi di occhi.
Era in quel momento che sentiva una specie di incendio nelle tempie, un frullatore di lava che creava immagini devastanti, una specie di eruzione vulcanica che si riproduceva anche sulla sua cute.
Aveva bisogno di raffreddare tutto quel calore con tipi diversi di alcolici, pensava che se avesse usato sempre la stessa bevanda, il dolore avrebbe trovato un modo per non spegnersi, come una malattia che sconfigge una stessa medicina che si assume da troppo tempo.
Questo alimentava, fomentava sempre di più l’odio di Giovanni per l’alcol e per gli alcolisti.
Giovanni non aveva mai fatto le prove per corteggiare Iris davanti a suo padre, non gli aveva mai chiesto alcun suggerimento, di lui aveva paura, lo odiava e ne aveva paura.
Aveva paura quando suo padre tornava a casa strisciando i piedi sul pavimento di marmo, si svegliava quando sentiva le chiavi di casa cadere a terra e poi coordinava le palpebre con i suoi passi per farsi trovare con gli occhi chiusi.
Quando entrava in camera il respiro di Giovanni non coincideva con il tentativo di fingere un sonno profondo, ma il padre non se ne accorgeva, per questo poteva cavarsela con una pesante carezza alla testa ed un odore di vino di pessima qualità.
Giovanni odiava l’alcol e soprattutto gli alcolisti.
Una volta decise che avrebbe portato tutto il teatro fatto davanti allo specchio per chiedere ad Iris di uscire nel mondo reale e si recò dopo cena, a digiuno, al solito bar per aspettarla.
L’ansia che aveva in corpo rendeva il caldo ancora più insopportabile, il difetto di competenza in campo femminile era coerente con i suoi 18 anni, ma quei torrenti di sudore che gli scendevano dalle tempie lo rendevano così nervoso da obbligarlo a sforzi inauditi per non scappare.
Erano le 20.00 e Iris non si sarebbe fatta viva prima delle 22.00, Giovanni era già alla decima sigaretta del pacchetto nuovo che aveva rubato alla madre prima di uscire.
Anche la reazione che avrebbe avuto sua madre non trovando le sigarette lo preoccupava particolarmente, ma cercava di rimanere concentrato sul discorso che aveva preparato per Iris.
Quando si prova ansia per qualcosa la nostra attenzione selettiva tende a vedere quel qualcosa ovunque, per questo Giovanni si accorgeva che intorno a lui ogni ragazzo, anche quello più brutto, riusciva a parlare con un ragazza come se fosse la cosa più facile del mondo.
Sentiva tutte le persone presenti osservare solo lui, come un pubblico in attesa del primo Atto e si asciugava le mani strofinandole sui pantaloni. Si guardava intorno, lanciava occhiate al barista che da dietro il bancone sembrava deridere tutta la paura che stava perlustrando il cervello di Giovanni.
Quel bicchiere di vino bianco, che aveva ordinato quasi senza accorgersene, lo aveva bevuto troppo velocemente e così ne prese un altro.
Il suo stomaco non aveva cibo utile a metabolizzare comodamente i due bicchieri che aveva bevuto, e l’alcol non trovò ostacoli fino ad arrivare rapidamente al cervello e fungere da ottimo ansiolitico. Quando arrivò Iris ebbe comunque un sussulto, ma si sorprese mentre pronunciava con una specie di sorriso: —Piacere Giovanni— tendendole la mano.
La strategia dei due bicchieri di vino prima di riuscire finalmente a presentarsi ad Iris, non fu né pianificata né consapevole, non l’aveva neanche mai ipotizzata quando faceva le prove davanti allo specchio, fu solo una cosa che funzionò, per questo Giovanni la ripeteva ogni volta che usciva con Iris, si sentiva semplicemente meglio quando beveva.
Nei primi anni della loro relazione, Iris non si accorse che l’alcol era troppo presente nella vita di Giovanni e anche a lui quel bicchiere sembrava solo un luogo in cui far terminare la sua mano.
Quando lei lo lasciò, Giovanni non vide altre soluzioni possibili.
Domenico
Domenico faceva uso di sostanze da circa 20 anni, era stato pulito (è interessante che in gergo si usi il termine “pulito” per riferirsi al periodo in cui una persona non fa uso di sostanze, come se nella fase in cui le sostanze si usano si dovesse usare il termine “sporco”) quando decideva di assumere regolarmente la terapia metadonica e, per qualche anno, quando il carcere aveva reso più complicata la reperibilità dell’eroina. Il breve piacere che, ormai, la droga gli concedeva era anticipato da una lunga ricerca per una vena disponibile nello stradario del suo corpo e, negli ultimi mesi, era costretto a guardarsi allo specchio mentre gonfiava la giugulare.
Quando parlava dei suoi 18 anni e della sua iniziazione all’eroina, lo faceva come se non raccontasse se stesso ma un qualsiasi ragazzo degli anni ’90, forse timido e poco attraente, forse impacciato con gli altri, forse poco interessato a ciò che gli capitava intorno, forse poco capace di dare parole alle proprie emozioni, forse terrorizzato di esprimere i propri desideri ai genitori o forse privo di desideri.
Non c’erano state particolari esperienze traumatiche nella sua vita, nulla di ciò che è comune rilevare nella vita di altri uomini.
Aveva smesso di usare i traumi della vita come alibi per giustificare la sua tossicodipendenza, era capace di riconoscere come la maggior parte degli esseri viventi che soffrono non si drogano.
Aveva ascoltato da molte persone la teoria secondo cui la tossicodipendenza deriva da una qualche fragilità interiore, e non aveva mai trovato una coerenza tra le azioni che era stato capace di fare, i luoghi in cui era sopravvissuto e la fragilità. Domenico comprendeva come la forza di volontà può essere un elemento fondamentale ma può non essere sufficiente per raggiungere un obbiettivo, si rendeva conto che la volontà ha un andamento altalenante mentre il desiderio procede in modo costante e, quindi, è necessaria una disciplina precisa e una valida motivazione per affrontarlo.
Non riusciva a rassegnarsi al fatto che l’impegno non garantisce il successo, che spesso le persone fanno fatica a credito, senza sapere a priori se sarà ripagata.
Ognuno ha una parte di sé a cui piace una cosa che non può fare, ognuno ha desideri che deve ridurre a rimpianti e non a ricordi.
Questo non è facile, soprattutto quando i desideri si trasformano in necessità.
Negli ultimi mesi, prima di iniziare un percorso terapeutico in Comunità, aveva smesso di raccontarsi le ricadute nell’uso di eroina come una cosa che gli capitava, come se fosse possibile, per una persona che si droga da 20 anni, drogarsi per caso.
Sapeva che ogni accenno di astinenza che il suo corpo produceva, terminava già quando decideva di andare a comprare la droga e non quando se la iniettava, tutte quelle sensazioni somatiche cessavano dal momento in cui ce l’aveva in tasca e non in corpo, era come se sentisse la mancanza di qualcosa e non la necessità di aggiungere qualcosa.
Quando parlavamo ci addentravamo spesso in una contraddizione, da una parte era stanco di continuare a fare uso di eroina, era quasi arrabbiato con lei perché non riusciva più a dargli i piaceri di una volta, voleva lasciarla non come si fa con una moglie che ti tradisce ma con una moglie che non ami più anche se le vuoi molto bene, è stata molto buona con te e non vuoi farla soffrire.
Dall’altra parte, quando si immaginava senza eroina, cadeva nel panico, come quando vuoi lasciare una moglie che non ami più, a cui vuoi molto bene, che è stata molto buona con te, che non vuoi far soffrire e con cui stai da vent’anni.
Doveva anche fare i conti con il fatto che lasciarsi a vent’anni è una cosa, lasciarsi a 48 un’altra, nessuno si può costruire un passato migliore e anche se cerchi di venderlo ricamato di orpelli o di bugie, difficilmente qualcuno accetterà di comprarlo senza un’accurata verifica.
Quando Domenico si confrontava con altro paziente più giovane, si sentiva dire: — Con un lavoro, una brava ragazza e una casa sarebbe stato più facile smettere di drogarsi.
Domenico gli rispondeva: —Secondo te se una è una brava ragazza si mette con te?— e non si dilungava troppo in questi discorsi con lui, forse per non distruggergli anche queste illusioni.
Non gli diceva che si era drogato anche quando viveva con una donna in una casa tutta sua e andava al lavoro tutte le mattine, che l’unica differenza era che aveva uno stipendio e quindi non doveva sbattersi più di tanto per rimediare i soldi per la sua dose.
Non è una questione di avere delle cose ma di capire cosa ti manca, non dipende dagli appigli che non trovi ma dal saper gestire la caduta, è come se ci fosse un’assenza dentro di te.
Gli argomenti che Domenico preferiva riguardavano gli aspetti paradossali della tossicodipendenza.
Si stupiva quando si accorgeva di tutte le volte che chiedeva un aiuto per smettere e contemporaneamente sabotava la cura, ascoltava i suggerimenti che riceveva per non seguirli e lamentarsi del fatto che non funzionavano, scagliandosi contro chi glieli aveva proposti.
Si ricordava di tutte le volte in cui, rivendicando il suo diritto di essere una persona indipendente, aveva chiesto ad altri di fare le cose al posto suo, si era reso ricattabile o si era venduto per pochi spiccioli.
Con una contrariata ironia ripeteva alcune frasi che aveva detto negli anni: — Dottore oggi vi ho fatto le urine pulite —, oppure se l’infermiere gli chiedeva: — Domenico come sono le urine oggi? — lui rispondeva: — Non lo so…— oppure: — Gialle….
E’ facile credere di aver fatto una cosa solo se qualcun altro se ne accorge, è possibile alleviare il proprio senso di colpa o la propria vergogna con maggiore semplicità se nessuno ci ha visto compiere l’infrazione, allo stesso modo Domenico riusciva a convincersi di essersi drogato solo se qualcuno lo beccava, come se il reato esistesse solo in flagranza.
Probabilmente questo dipende anche dall’aver relegato un impulso o una compulsione, come l’atto di drogarsi, prevalentemente dentro la sfera della volontarietà, dipende dalla difficoltà ad accettare che gli esseri umani possono sentirsi obbligati a fare cose che non vogliono fare, che a volte il conflitto è tra te e te e per amor proprio ti lamenti con gli altri.
Anche quando facciamo delle promesse a noi stessi o ad altri può capitarci di non essere capaci di mantenerle, non per questo mentivamo quando le abbiamo fatte. Una moglie che non ama più suo marito dopo anni di matrimonio, non necessariamente stava mentendo quando sull’altare prometteva il fatidico finché morte non ci separi, la vita è una precarietà con cui si convive.
Domenico non voleva essere un tossicodipendente, voleva drogarsi, voleva intenzionalmente e consapevolmente usare eroina, voleva un’azione senza conseguenze, una scelta senza rinuncia, voleva un amico per stare da solo.
La cosa più difficile da abbandonare per un uomo è quella che, alla fine, in realtà non vuole
(Camus, 1935)
Anche questo sembrava paradossale, lo rendeva una persona adulta che si atteggiava da adolescente o, viceversa, un adolescente che aveva le sembianze di un adulto.
Questa assenza di sincronia tra le sue intenzioni e le sue azioni era pienamente rilevabile dopo una conversazione di pochi minuti, a volte era anche destabilizzante per il suo interlocutore perché non si capiva con quale parte di Domenico si stesse parlando.
Io cercavo di unire i suoi frammenti e speravo che l’immagine che ne sarebbe scaturita avesse un senso, altrimenti per lui sarebbe stata altra fatica a credito.
Alessandro
L’argomento preferito di Alessandro era la spiegazione neurobiologica dell’effetto delle sostanze stupefacenti sul cervello.
Durante i gruppi terapeutici in Comunità gli piaceva guardare il disegno del cervello umano sulla lavagna e vedere le aree coinvolte e danneggiate dall’uso delle droghe.
Forse per lui era rassicurante apprendere che la sua impulsività, la sua difficoltà a prestare attenzione all’ambiente circostante, la labilità con cui restava ancorato ad un obiettivo, potevano avere una spiegazione alternativa alla colpa o alla mancanza di impegno, potevano essere descritte e affrontate anche in modo descrittivo e pragmatico.
Per me non era tanto importante che lui sapesse come funzionava il cervello di una persona che fa uso di droghe, quanto che si rendesse conto che io lo sapevo.
Ritengo utile descrivere come funziona una dipendenza patologica anche dal punto di vista neurobiologico perché, con queste informazioni, il paziente può oggettivarla e tentare di identificarla come qualcosa di esterno a se stesso, può affrontarla come qualcosa che ha e non come qualcosa che è, può prendere le distanze da una condizione invece che essere lui stesso la condizione, specialmente nel caso di una patologia così totalizzante come la dipendenza patologica.
Impegnarsi nel definire un obiettivo concreto e avere un piano per raggiungerlo è una strategia di cambiamento utile, mentre quando si combatte contro se stessi non si hanno alternative alla sconfitta, per definizione perde l’io o perde il me.
Una persona che è stata resa consapevole di se stessa attraverso le domande che le sono state fatte si trova in una posizione migliore per predire e controllare il suo stesso comportamento. (Skinner, 1953)
Alessandro era giovane, aveva 23 anni, ma ne aveva passati circa la metà in Strutture psichiatriche o per tossicodipendenti: prima perché la sua impulsività doveva in qualche modo essere attenuata, poi perché aveva scoperto che alcuni prodotti anfetaminici lo avevano tranquillizzato ma reso confuso e infine quando oppiacei e stimolanti lo avevano fatto smettere di calmarsi solo procurandosi dolore fisico.
Era talmente abituato ad essere in cura che preferiva relazionarsi esclusivamente da malato.
Il poliabuso di sostanze gli aveva permesso sia una continuità nell’uso di droghe sia una fuorviante immunità alle crisi astinenziali.
Il suo concetto di sé era così liquido da non consentirgli nemmeno di legarsi ad una sostanza, Alessandro non cercava un certo tipo di sensazione, cercava una sensazione, cercava un rumore che sospendesse il suono di pensieri caotici.
Provava la stessa angoscia di chi deve percorrere un corridoio buio sapendo che sul pavimento sono disposti casualmente dei pezzi di vetro.
Provava la stessa vergogna di chi viene spiato nei momenti più intimi e, per lui, ogni momento era un momento intimo, credeva che ogni sua emozione sarebbe stata divorata dagli altri, che ogni suo pensiero e ogni sua azione sarebbero stati interpretati come sintomi di una patologia o di un difetto psichiatrico.
Il suo funzionamento generale non era così diverso dai suoi coetanei, voleva delle cose ma non sapeva quali, voleva essere capito ma non si sapeva spiegare, voleva creare una realtà virtuale in cui il passato è solo quello che scrivi su uno schermo, voleva una relazione con gli altri ma distanti, senza quelle rischiose implicazioni dal vivo che ti fanno rischiare di soffrire. Per Alessandro non fu facile abituarsi all’idea che sono proprio quelle implicazioni che tanto temeva a rendere le relazioni con gli altri vere, non reali, ma vere.
Una relazione virtuale può essere reale, dal momento che esiste e si può oggettivare, ma è più facile non sentire una cosa reale che una cosa vera.
Posso non provare nulla per la realtà che accade in questo momento in Siria, ma dal momento in cui quel Siriano è vicino a me e diventa vero, le cose cambiano, inizio a provare emozioni contraddittorie, a fare pensieri che non mi aspettavo di fare, a sentirmi coinvolto.
Alessandro cercava in tutti i modi di non essere coinvolto, e a volte ci riusciva, il problema emergeva quando desiderava la vicinanza di qualcuno. Questo aspetto si presentava in modo evidente con i suoi genitori, loro lo amavano e avevano fatto tutto quello che potevano per aiutarlo a stare meglio, anche tutti gli errori necessari per capirsi di più, avevano anche smesso di essere in conflitto con lui smettendo di averne paura, però volevano starci insieme senza stare con lui.
—Noi vogliamo che Alessandro stia bene, però dopo non si curerebbe più. Vogliamo smettere di controllarlo ma non riusciamo a fidarci di lui. Abbiamo paura di non controllarlo perché potremmo non accorgerci se sta male e quindi non intervenire in tempo. E’ quando sta bene che abbiamo più paura di illuderci.
I suoi genitori erano in balia di quel paradosso interiore che noi umani proviamo quando amiamo qualcuno e contemporaneamente odiamo tutto quello che fa.
Allo stesso tempo Alessandro esercitava un notevole controllo sui suoi genitori facendoli stare continuamente preoccupati per lui. In realtà, nonostante si lamentasse quando loro limitavano la sua libertà, era rassicurato dal fatto che loro fossero preoccupati per lui, perché temeva che in caso contrario lo avrebbero dimenticato.
— Se io non creo problemi, o almeno non gli faccio pensare che potrei crearli, loro si dedicherebbero ad altro e non a me, non avrebbero motivo per occuparsi di me.
Il cervello deve selezionare l’informazione saliente e forse questo è riflesso nel fatto che ricevere attenzione genera sensazioni di autostima, Alessandro pensava di poter ricevere attenzione solo, o prevalentemente, creando potenziali pericoli, doveva tenere gli altri in allerta.
Quando andava a prendere un caffè al bar, si faceva sempre accompagnare dal suo sguardo torvo e dal suo Pittbul, era connesso telepaticamente con il suo cane e tramite lui controllava l’ambiente circostante, otteneva la rassicurazione di essere guardato dagli altri con timore, di essere evitato non perché sbagliato ma perché pericoloso. E’ come quando ci si veste in modo bizzarro per non passare inosservati e contemporaneamente non essere importunati, per essere giudicati subito e al primo sguardo, per evitare l’insopportabile stress di sentirsi sotto esame, per eliminare l’estenuante tentativo di farsi conoscere.
Ero tornato a Sara da tre giorni, ma avevo già postulato la Prima Legge dell’Eccentricità di Noonan: quando sei da solo, un comportamento strano non è più strano per niente. (King. 1998)
Alcuni esseri umani tendono a definirsi per antitesi, sentono di esistere quando sono in contrasto con qualcos’altro o con qualcun altro, per tenersi in piedi devono appoggiarsi alla stessa colonna che vorrebbero distruggere.
Fu molto difficile far cadere Alessandro, fargli abbandonare il dolore che lo proteggeva, fargli accettare di essere capace di tollerare le potenziali ferite della realtà e non soltanto quelle evidenti delle bruciature di sigaretta o dei suoi tagli sull’avambraccio.
Gradualmente sostituì l’idea di essere sbagliato con quella di essere assemblato male.
— Mi sono accorto che se mi guardo tutto insieme non vado bene, mentre se mi prendo pezzetto per pezzetto ci sono delle cose che possono andare. Se mi guardo come un concatenamento di comportamenti diretti verso un desiderio, come dici tu, posso provare ad assemblarmi meglio, a fare in modo che mi portino da qualche parte.
Devo scegliere una direzione non una destinazione.
Marco
Marco aveva imparato molto presto che non basta amare per essere amati.
Aveva sperimentato sulla sua pelle che l’amore è indipendente da ciò che fai per qualcuno, che per quanto ti impegni per stare con una persona lei può non desiderare di stare con te, che anche l’amore biologico può essere incomprensibile, che se tua madre ti sgrida pensi di essere una persona cattiva e non di esserti comportato male.
Quando conoscevi Marco non potevi fare a meno di evitarlo, era così che ti controllava.
Quando ti permetteva di ascoltarlo eri invaso da un’angoscia opprimente, quella tipica angoscia che provi quando ti rendi conto della tua impotenza, quella tipica angoscia che provi quando qualcuno non ti minaccia dicendoti — O fai come dico io o ti ammazzo — ma quando qualcuno ti dice — O fai come dico io o mi ammazzo —
Iniziava facendoti vedere le sue profonde cicatrici, quella sul viso che si era procurato a tre anni frantumando una vetrata, quella sulla spalla e sul torace che servivano a dimostrarti le impavide corse in moto, quelle evidenti lungo le vene di ogni parte del corpo in cui aveva infilato aghi da 5ml.
Se non riusciva ad impressionarti così, o se tu eri capace di tollerare questa esibizione, iniziava con i racconti.
Tutte le volte che era stato abile ad eludere i più severi controlli anti droga, tutte le volte che aveva scavalcato le più rigide restrizioni che gli venivano imposte, tutte le volte che aveva dimostrato un totale disinteresse per la possibilità di morire.
Si vantava tristemente di come nessuno fosse mai riuscito a farlo smettere di fare uso di sostanze, delle punizioni che aveva sopportato con onore e senza mai piegarsi, si gonfiava il petto quando ripeteva che nessun castigo gli aveva mai fatto cambiare idea.
Dopodiché sperava in un rassicurante: non possiamo fare niente per te.
Dal momento che io mi ero limitato ad osservare con lieve stupore come parlava e non cosa diceva, Marco iniziava a cercare le mie cattive intenzioni e dedicava il suo tempo a farmi provocatorie allusioni.
— Chissà quanto ci guadagni con tutti questi tossici….Non penserai che io farò certe cose per te…..Guarda che là fuori io ci vivo senza problemi…..Tu che ne sai di come funziona… A te è andato tutto bene….Al massimo c’hai 5 anni più di me…Ti pare di essere capace di dare una mano a qualcuno….A me non mi cambi…
Se superavi anche questo test senza andartene, iniziavi a percepire quanto fosse complicato per Marco gestire la sola presenza di qualcuno accanto a lui, era più facile capire che quando diceva di essere costretto a chiedere un aiuto, in realtà era terrorizzato dall’eventualità di non saperlo ricevere.
Quando affermava — Lasciami perdere…— aveva una postura da spaccone che non coincideva con il tono della sua voce, non capivi se il senso di quelle parole era di lasciarlo in pace oppure di lasciare che perdesse.
Alcune persone considerano le relazioni umane come trattative, pensano che se qualcuno fa qualcosa per loro ci deve essere un prezzo da pagare, un debito da sostenere, utilizzano i sentimenti come moneta corrente, sono convinti che gli affetti debbano avere un riscontro oggettivo altrimenti sono stati sprecati, pensano che la gentilezza non possa essere di per sé gratificante per chi la esercita, ma sia un metodo per ricattare chi la riceve. Per alleviare il timore di Marco di contrarre un debito con me, precisai che il mio eventuale contributo terapeutico nei suoi confronti prevedeva uno stipendio e che non avevo alcuna intenzione, né voglia, di dedicarmi ai suoi problemi gratuitamente.
Quando Marco andava a scuola riusciva a tollerare di stare seduto per un massimo di 10 minuti, successivamente doveva, in modo incoercibile, esprimere la sua iperattività.
Senza riconoscere di provare un misto di entusiasmo e vergogna, saltava da un banco all’altro, derideva i compagni, appoggiava i gomiti sulla cattedra fissando negli occhi la professoressa e produceva suoni cacofonici con la voce.
Questo comportamento gli permetteva di interrompere gli estenuanti tentativi del suo insegnante di sostegno per farlo restare in classe, gli consentiva di uscire nei corridoi della scuola, di poter correre e continuare a fare casino in uno spazio più ampio.
Per Marco ogni luogo era troppo stretto, si sentiva come costretto all’interno della circonferenza del mondo.
Quando lo legavano alla sedia, i suoi piedi continuavano a battere sul pavimento non per paura, i suoi occhi battevano frequentemente le palpebre non per trattenere le lacrime, era solo che non riusciva a stare fermo.
Verso i 15 anni, non solo si accorse che quando non poteva dare libero sfogo ai suoi movimenti stava male, ma che quando lo faceva non stava bene come sperava.
E’ come quando tolgono le manette ad un detenuto, il piacere deriva dalla soppressione di una costrizione, è conseguente all’eliminazione di un fastidio e non all’aggiunta di una comodità, il sollievo produce piacere come il conforto allevia il dolore.
Gli esseri umani continuano a mettere in atto un comportamento non solo quando, come conseguenza ad esso, ottengono una gratificazione, ma anche quando ad un comportamento segue la cessazione di uno stimolo sgradevole. Nella psicologia operante, un comportamento può essere rinforzato da una conseguenza che consiste in qualcosa che viene rimosso: in questo caso il rinforzo consiste in qualcosa che viene rimosso. Quando un comportamento aumenta perché qualcosa viene rimosso parliamo di rinforzo negativo. Il rinforzo negativo aumenta la probabilità di un determinato comportamento.
Marco era appena maggiorenne quando iniziò ad usare eroina per via endovenosa, l’oppiaceo gli regalava una momentanea interruzione della rissa tra le sue sinapsi.
L’effetto dell’eroina però non aveva una durata soddisfacente, soprattutto perché la voracità di Marco ne favorì una rapida tolleranza, la cocaina invece risultò da subito il pezzo mancante e dedicarsi completamente a lei fu un passaggio automatico. Marco aveva utilizzato in modo continuativo eroina per via endovenosa, perciò quando passò alla cocaina replicò rapidamente, se non immediatamente, la stessa modalità iniettiva.
Poiché gli effetti della cocaina duravano molto meno rispetto a quelli dell’eroina, Marco doveva iniettarsi quasi incessantemente la sostanza stimolante, procurandosi anche bruciature ed ustioni sottocutanee, fori all’inguine ed ulteriori danni organici.
Quando Marco utilizzava eroina l’impulso ad assumere la sostanza aveva un andamento ondulatorio, attraversava momenti in cui il dilemma, pur nella sua costanza, era quasi gestibile, notava che già l’atto di decidere di andare ad acquistare la dose alleviava la sua tensione somatica, poteva anche rimandare l’assunzione dell’eroina dopo averla comprata, senza insopportabili sofferenze.
Questo non gli accadeva con la cocaina, l’impulso ad assumere la sostanza aveva le caratteristiche dell’urgenza, non sarebbe mai riuscito a rimandarne l’utilizzo una volta acquistata né a non iniettarsi tutta la quantità che possedeva.
Spesso Marco si accorgeva di aver deciso di comprare la cocaina solo dopo averla utilizzata. Come per altre persone che compiono uno switch dall’eroina alla cocaina, anche per Marco si evidenziò un peggioramento psicofisico e un diverso modo di affrontare l’astinenza.
L’eroina bussava incessantemente alla porta con le falangi delle dita e, a volte, Marco riusciva a non farci caso, ad esempio alzando il volume della TV, parlando voce alta o litigando con qualcuno.
La cocaina, invece, era come Jack Torrance:
Cappuccetto rosso? Cappuccetto rosso? Su, apri la porta. Su, apri! Non hai sentito il mio toc, toc, toc? Allora vuoi che soffi? Vuoi che faccio puff? Allora devo aprirla io la porta? Sono il lupo cattivo!. (King, 1977)
Gianluca
Gianluca era appena uscito da una Comunità Terapeutica di Palermo, a 960 Km di distanza dalla città in cui viveva.
Era alla sua decima ora di viaggio quando finalmente si trovò da solo nello scompartimento del treno e poté distendere le gambe sul sedile davanti al suo.
Il sollievo delle ginocchia fu breve perché fu costretto a ritirare rapidamente le gambe quando vide entrare un’altra persona appena salita sul treno.
La rapidità del suo gesto era determinata dal timore che fosse il controllore dato che lui era sprovvisto del biglietto. Stava già imprecando per il fatto di essere stato beccato a poche fermate dall’arrivo, quando alzò gli occhi e il sollievo lo pervase accorgendosi che era un altro semplice viaggiatore.
Rimise le gambe sul sedile e lo salutò.
— Senta scusi io sono senza biglietto mi può dire dove posso cercare il controllore?
Gianluca rispose: —Lascia perdere il controllore per favore…
L’altro viaggiatore ascoltò la voce di sevizio comunicare che il treno avrebbe fatto una sosta di cinque minuti.
— Forse faccio in tempo ad andare a fare il biglietto mi può dare un’occhiata alle valigie?
— Certo, nessun problema, guarda però che secondo me non fai in tempo.
Il viaggiatore aveva terminato di ascoltare Gianluca fino a nessun problema e scese in fretta dal treno per adempiere al suo obbligo.
Pochi minuti e si sentì il fischietto del ferroviere che suggeriva a tutti di rientrare nel treno per evitare di rimanere a piedi.
Non vedendo tornare il viaggiatore, Gianluca osservò le valigie e pensò che quello non solo avrebbe perso il treno ma anche i bagagli, si compiacque con se stesso per averlo avvisato prima e senza attendere ulteriormente li prese e li gettò dal finestrino.
Tronfio si riaccomodò sul sedile, distese le gambe e si sentì come uno che aveva fatto una buona azione o almeno che era stato gentile, in fondo era merito suo se quello non aveva perso le sue cose, quasi riusciva a percepire il senso di riconoscenza che gli spettava.
Non fece in tempo a godersi questa sensazione da brava persona che il viaggiatore trafelato rientrò nello scompartimento, il biglietto convalidato in mano e il sorriso soddisfatto di chi rispetta le regole anche se nessuno le guarda.
Guardò Gianluca come per rivendicare il suo trionfo inaspettato poi sgranò gli occhi quando non vide le sue valigie.
Lo sguardo del viaggiatore scattava ripetutamente dalla faccia sbigottita di Gianluca al ripiano dal quale erano scomparsi i suoi bagagli, non parlava ma già così si capiva che cercava delle spiegazioni.
Il silenzio fu rotto da un — Pensavo che non saresti riuscito a risalire… e quindi io…..
Questa fu una delle prime storie che Gianluca raccontò.
Successivamente si dedicò a precisare i dettagli delle sue rapine e del modo elegante ed educato con cui le realizzava, dell’attenzione che prestava al suo abbigliamento prima di entrare negli appartamenti per non passare per un ladruncolo da quattro soldi.
Quella volta che era rimasto appeso ad una grondaia per alcune ore, quella in cui sbagliò appartamento ritrovandosi di fronte un arredamento più scarno di quello di casa sua, quella in cui la paura che aveva trasmesso alla signora lo fece desistere ed allontanarsi sconsolato.
Raccontando questi episodi otteneva sempre una certa ilarità in chi lo ascoltava, in questo modo si dava una professione, non quella del ladro ma quella del comico.
Anche quando si tentava di affrontare con lui eventi, ricordi o stati d’animo più dolorosi, Gianluca deviava sempre sugli stessi argomenti, continuava con gli stessi episodi le stesse storie.
Quando iniziava a parlare si impegnava per evitare i momenti di silenzio, i tempi morti di una conversazione, come quando si esce con una ragazza e si parla in continuazione per paura che alla prima pausa lei dirà che deve andare a casa.
Gianluca parlava, raccontava, scherzava, per farti restare lì con lui, perché se fosse rimasto in silenzio ti avrebbe dato l’occasione per distogliere l’attenzione, perché se ti avesse manifestato il suo dolore ti avrebbe annoiato e lo avresti evitato.
Perché si vergognava di dirti che a 8 anni restava sveglio quasi tutta la notte per verificare che suo padre tornasse a casa, che se squillava il telefono di solito era la polizia e non un amico che gli chiedeva di uscire, che sua madre cadeva troppo spesso dalle scale proprio quando in salotto trovava le bottiglie vuote. Si vergognava di dirti che quando andava a scuola doveva sottrarre la merenda a qualcuno non per golosità, che odiava tutto il mondo perché non gli aveva dato una lista di problemi normali ma solo una serie di giustificazioni per tutti i casini che si poteva permettere.
L’immaginazione è una qualità che è stata concessa all’uomo per compensarlo di ciò che egli non è, mentre il senso dell’umorismo gli è stato dato per consolarlo di quel che è. (Groucho Marx)
Quando Gianluca affermava con insolente certezza che, date le premesse della sua esistenza, non ci sarebbe potuto essere un epilogo migliore e che adesso, a 45 anni, c’erano poche cose da fare per avere una vita dignitosa, mi sembrava più tendenzioso che realista.
Sembrava che dicesse quelle cose per farsi contraddire, come quando dici a qualcuno che non ti vuole bene solo per farti dire che non è vero, che te ne vuole moltissimo.
Quando ti costringeva a prendere le decisioni al posto suo, sembrava intenzionato solo a costruirsi un nemico da attaccare, un colpevole delle scelte sbagliate su cui versare i propri rimpianti.
Era come uno che cerca nella faccia degli altri gli indizi per prendere una decisione giusta, la sua rabbia non deriva dal fatto che non li ottiene ma dal dubbio che li abbia interpretati male. Facciamo così quando l’obiettivo della nostra decisone non è possedere una delle alternative proposte dalla scelta ma avere qualcosa da condividere con qualcuno, quando la relazione deve avere un oggetto pratico come ponte altrimenti non c’è nulla che la unisce.
Gianluca il dolore lo aveva ricevuto gratis alla nascita, se ne era procurato altro da solo con le sue azioni e ne aveva procurato altrettanto agli altri, ora Gianluca sembrava un pendolo che oscillava tra rancore e senso di colpa.
Quando il dolore diventa un elemento costante della propria vita alcune persone smettono di sperare che svanisca, cercano solo di sospenderlo, di rubargli alcuni attimi di pausa.
Sono talmente immerse in quello stato di cose che non cercano di distrarre se stesse ma il dolore. Quando riescono a ritagliarsi uno spazio all’interno di un dolore costante esagerano, pensano di avere poco tempo per fare tutto quello che non hanno potuto fare e che tra un’attimo non avranno più tempo di fare.
Sentono lo scandire del tempo alimentare rabbia e urgenza, come quando hai fame e ti danno pochi secondi per mangiare, non ti gusti nulla, ingurgiti tutto, sei pieno, ma solo di rimpianti.
— E quindi dovrei accettare il dolore?— chiedeva sarcastico e spaventato Gianluca alla fine di lunghe conversazioni.
— No, per accettare una cosa devi avere anche la possibilità di non farlo. Si accetta un regalo perché puoi dire anche di no, per accettare devi avere la possibilità di rifiutare. Non si può accettare una cosa che non può non essere come è, non accettiamo che il cielo sereno è celeste, è così e basta.
Quando ci chiedono di accettare gli episodi drammatici della nostra vita, probabilmente, soffriamo più perché non siamo capaci di farlo che per gli episodi in sé, ci troviamo a fare i conti più con il nostro senso di incompetenza ad accettare che con l’evento doloroso.
Non posso accettare il dolore, posso accettare di portarlo con me, posso scegliere di essere più grande io invece che più piccolo lui.
Il dolore ti insegna molte cose, una delle più utili è che smetti di usarlo come giustificazione delle tue azioni.
Attraverso il dolore impari a non procurarne agli altri, a diventare una persona, a capire che non fare qualcosa a qualcuno è già sufficiente per essere altruisti.
Quello che il dolore non ti insegna, o almeno non riesce a farti capire, è che non ti proteggerà da altro dolore. Spesso pensiamo, o speriamo, che l’aver sofferto ci regali una certa immunità dalla sofferenza, crediamo che se un evento doloroso ha calpestato la nostra vita ci garantiamo una protezione da altri dolori.
Altre volte il dolore si esprime solo nelle sue conseguenze, cioè in un dialogo interno per disquisire se lo si merita o meno, diventa l’arma con cui combattere il proprio mondo, l’argomento con cui ci si presenta agli altri, il lamento che sopisce ogni ribellione. E’ in questo momento che il dolore diventa tutto ciò che hai da raccontare, lo spazio in cui arredare l’esistenza, il meridiano con cui scandire il tempo, diventa te.
Vi sono anche delle circostanze in cui il dolore è usato come esca, accade quando diamo per scontato che qualcuno ci soccorrerà o si sentirà obbligato a prestarci delle cure.
Oppure auspichiamo che la stessa persona o la stessa cosa che ci ha procurato un dolore, poi si senta colpevole e per redimersi si impegni anche ad alleviarcelo.
Quando soffriamo e nessuno se ne accorge ci rendiamo conto di un altro aspetto del dolore, cioè che può essere inutile, che non basta esibirlo per convincere gli altri a stare con noi.
Gianluca doveva scegliere se stare attaccato al suo dolore o se affrontare tutte le conseguenze che il dolore alimentava, tutte le protezioni che manteneva, tutte le giustificazioni che offriva.
Il dolore c’è, ma come ti comporti mentre ce l’hai può fare la differenza.
— Ti pare facile…
— No, non lo è. E non stiamo parlando di fare cose facili. Stiamo parlando di come si può stare con un dolore non di come evitarlo o eliminarlo. Stiamo parlando di come desiderare altro e non di come non desiderare il dolore.
Gianluca doveva scegliere se vivere la sua vita come una prova per una successiva reincarnazione, la prossima la vivrò meglio, oppure accorgersi che al resto della sua vita poteva ancora dare un senso.
Davide
Davide aveva 43 anni e tre nipoti da due dei suoi cinque figli.
Era il suo primo weekend a casa dopo 19 mesi di detenzione ed il caos prodotto dalle numerose persone che vivevano nella sua abitazione era decisamente più piacevole di quello che aveva respirato nella sua cella.
Erano tutti a tavola, i bambini correvano per i corridoi, i discorsi si sovrapponevano l’uno sull’altro e restavano tutti incompiuti, ma era piacevole sentire tutte quelle voci al di là delle parole che venivano pronunciate. Il desiderio di parlarsi era così dirompente da eludere completamente il bisogno di ascoltarsi, in fondo per le cose importanti a loro bastava guardarsi.
Dopo il secondo caffè, Davide si alzò da tavola.
La nipote di due anni stava bussando alla porta del bagno senza ricevere alcuna risposta, gradualmente il suono di quelle piccole dita si trasformò da un eco ad una specie di rumore e raggiunse le orecchie di Davide. Il suo cervello non riusciva a decifrare il significato di quel rintocco ondulatorio che proveniva da troppo lontano, poi i suoi occhi aprirono una piccola fessura per la vista e così Davide iniziò a raccogliere indizi. Lavandino, più linoleum, più cabina della doccia, più braccio penzolante, più siringa, uguale sono nel bagno di casa; porta che riceve colpetti dall’esterno, uguale qualcuno che bussa.
Cercò di alzare la sua voce di una tonalità per dire:
— Arrivo.
Raccolse la siringa, si slacciò la cinta dall’avambraccio e la infilò nei passanti dei pantaloni, mise la testa per alcuni secondi sotto la doccia, diede un rapido sguardo alla specchio per controllare quanto doveva impegnarsi a mentire e, respirando lentamente, preparò un sorriso, girò la chiave e abbassò la maniglia.
— Nonno ti aspettiamo di là. – Disse la bambina con un’innocenza che lui non riusciva a sentirsi addosso.
Davide si inginocchiò davanti alla nipote, un pò per abbracciarla e un pò per illudersi di farsi perdonare.
— Andiamo amore.
All’interno del quartiere in cui vivevano, Davide e la sua numerosa famiglia erano quasi delle celebrità, il loro cognome era sufficiente a garantire che una minaccia non era solo un’intimidazione.
Non era Jenny Savastano, ma aveva un certo potere, quel tipo di potere direttamente proporzionale al timore che si riesce ad incutere negli altri.
Il contesto in cui si era srotolata l’esistenza di Davide era così spugnoso che non c’era altra possibilità se non quella di assorbirlo completamente, in ogni azione, in ogni pensiero e in ogni prospettiva.
Il processo decisionale con cui determinare i propri comportamenti o con cui stabilire le strategie per raggiungere un obiettivo era relegato a semplici ed ovvi automatismi, soprattutto di tipo pulsionale, che funzionavano perfettamente e che garantivano la soddisfazione delle proprie necessità.
L’apprendimento che consegue dalle esperienze che un individuo nato e cresciuto in un determinato contesto fa, ha un effetto molto diverso rispetto a quello che potrebbe avere in un individuo che entra in un determinato contesto in un certo periodo della propria vita.
Infatti, oltre ad essere maggiormente stabile e ramificato, non si presenta come un’alternativa possibile ad altri ipotetici stili di vita, non è una questione su cui poter riflettere o sulla quale si può procedere secondo una valutazione razionale, è un dato di fatto all’interno del quale si è immersi senza sentirsi bagnati.
E’ come la storia dei due pesciolini giovani che incontrano il pesce più anziano: quest’ultimo chiede loro — Salve ragazzi com’è l’acqua?— e i due pesciolini giovani rispondono — Che diavolo è l’acqua?— (D. F. Wallace, 2007)
Per tutti gli esseri umani, compreso Davide, l’esistenza è condizionata dal contesto in cui essa si esprime, in cui ci si relaziona, in cui si imparano le parole con cui ci si racconta a se stessi e agli altri.
Si è condizionati da ciò che è disponibile in un determinato contesto, da ciò che posso utilizzare per aggiungerci ciò che manca, o meglio, ciò che mi accorgo, che sento che mi manca, ciò che il contesto in cui vivo mi suggerisce e mi impone come desiderabile, come capace di definire la mia identità o come determinante per farmi appartenere alla categoria nella quale voglio che sia riconosciuta la mia identità.
E’ all’interno del contesto che si imparano le strategie per esprimere la propria autonomia, cioè le condizioni per stabilire la propria autodeterminazione, il proprio modo di avere potere sugli eventi e sulle circostanze al fine di riconoscersi coerenti con se stessi nel tempo e differenti o simili ad altri individui.
Tale autonomia ha a che fare con il potere decisionale che ho su di me, con la possibilità di agire in modo coerente con i miei valori e di agire nella direzione dei miei scopi, di trovare un modo per perseguire i miei scopi rimanendo in equilibrio con le mie convinzioni morali.
E’ anche per questo motivo, per questa difficile ricerca di una postazione comoda in cui far coincidere ciò che voglio, ciò che posso e ciò che devo, che la realizzazione di uno scopo o di un desiderio ha a che fare con il come lo raggiungo.
Il come lo raggiungo, cioè cosa sono disposto a fare o a non fare per arrivare ad uno scopo, dipende da quali valori sento di dover mantenere o sono disposto consapevolmente a tradire, da quale teoria di me stesso devo proteggere per poter continuare a conviverci e da come voglio dirigere la teoria che gli altri hanno di me.
Il fatto che lo scopo individuale a cui tendo sia una proposta o un suggerimento esterno, e magari sociale, del tipo avere una determinata cosa indica ciò che rappresento per gli altri, se ottengo uno specifico oggetto mi posso dire di essere in un certo modo, fare un certo comportamento mi permette di darmi un’appartenenza, mi rende dipendente dall’arbitrario senso che si danno alle cose, dalla moda, da luci sparse ed intermittenti più che da un faro stabile che illumina la decisione personale di percorrere un tragitto.
Il fine giustifica i mezzi solo quando il fine è davvero importante per te.
Una cosa è attraversare il deserto, un’altra è nascere nel deserto e Davide c’era nato.
Quando nasci in un certo ambiente la questione non è semplicemente quella di apprendere quali regole ti servono per sopravvivere, ti costruisci lì.
E’ come per Victor dell’Aveyron (Truffaut, 1970) che non ha imparato a vivere nella giungla, c’è nato e cresciuto senza alcun termine di paragone, sviluppando una condotta incompatibile con il vivere esterno.
Una delle differenze che c’è tra apprendere una regola e vivere secondo un codice è che la prima la puoi imparare e ti viene spiegata, il secondo lo devi capire da solo.
Lo devi capire da solo in base a ciò che accade dopo le tue azioni, a quali comportamenti degli altri seguono i tuoi comportamenti, a ciò che ti fanno gli altri per dirimere i tuoi dubbi su cosa devi fare tu.
Davide lo aveva capito da sempre, non come un’alternativa ma come l’unico mondo possibile, ed era anche molto convincente nel farlo capire agli altri.
Un codice non è solo un’abitudine, ma è uno stile onnicomprensivo con cui dare un senso alla realtà e a tutte le relazioni, prima ti permette di sopravvivere e poi è l’unico modo di vivere.
Un codice è l’elemento che discrimina le cose, è lo sguardo automatico con cui dare significato alle parole, il vocabolario con cui tradurre ogni conversazione sia con gli altri sia con se stessi.
Quando Davide si relazionava con gli altri non era mai concentrato sulla relazione stessa ma solo sul dover confermare quell’idea che l’altro doveva avere di lui.
Davide aveva il compito di alimentare una rappresentazione di se stesso che governasse anche i comportamenti, le intenzioni, i pensieri e le emozioni che gli altri potevano permettersi di avere nei suoi confronti. Come gli altri esseri umani, anche Davide aveva stabilizzato gli slanci pulsionali incanalati dall’apprendistato socioculturale a cui era stato sottoposto fin dalla nascita. Davide, come ognuno di noi, possedeva una soggettiva idea di se stesso, quell’idea che tentiamo di imporre a coloro che ci circondano e che si riduce, quasi sempre, a quella costruita in noi da coloro che ci circondano.
— Dovevo fare così altrimenti non avrei avuto scampo, o schiacci o sei schiacciato. Il rispetto degli altri lo conquisti solo se vinci il conflitto con loro. E’ semplice: combatti e se vinci ti rispettano, se perdi no.
Il rispetto non era una cosa reciproca, ci doveva sempre essere uno che lo aveva e uno che non lo aveva, uno che conquista e uno che viene conquistato, il rispetto non era altro che un sinonimo di potere. Potere che non significa più solamente avere la possibilità di fare, ma che si traduce con l’avere il diritto di non permettere di fare agli altri, di decidere cosa gli altri possono o non possono fare.
— Per fare così devi essere aggressivo, non è che ti ubbidiscono se glielo spieghi con gentilezza, penserebbero che sei debole. Lo so che è sbagliato, cioè adesso so che non è utile fare così se voglio vivere in un contesto diverso, ma lì funziona così
Ad alcune persone questo accade quando nascondono e giustificano i loro comportamenti con i ruoli che interpretano: non sono io a pensarla così è il mio ruolo che me lo impone.
Ci capita di accomodarci nella platea delle vittime delle circostanze, un po’ per trovare sollievo dalla vergogna di un’indifferenza consapevole, un pò per raccontarci che la vita non dipende da noi. Davide non aveva eliminato i suoi codici e tantomeno li poteva rinnegare, aveva gradualmente scelto di tenerli in disparte, non di nasconderli ma di lasciarli in pausa.
— Da quando faccio così mi suda il cervello.
Si era allenato per molto tempo a riconoscere i suoi pensieri automatici e fare l’opposto di ciò che gli suggerivano, non li contestava ma li guardava al contrario.
Tutte le mattine Silvia, l’infermiera della Struttura dove era ricoverato anche Davide, procedeva nel rituale quasi eucaristico delle terapie farmacologiche.
L’aspetto eucaristico, almeno ai miei occhi, derivava dalla speranza o dal disprezzo con cui ogni paziente si rivolgeva al farmaco che riceveva dalle mani dell’infermiera, mi sembrava simile alla modalità con cui alcuni si avvicinano all’ostia ogni Domenica, mi salverai? Neanche questo riuscirà a salvarmi! male non mi farà…. e se poi esiste?
Davide assumeva la terapia metadonica con un atteggiamento di sfida e in modo distratto.
La sfida era conseguenza del suo essere un uomo che non deve chiedere mai, che non ha bisogno di qualcuno per risolvere i suoi problemi, figuriamoci di uno sciroppo.
La distrazione dipendeva dal fatto che alle spalle di Silvia era posizionato l’armadietto in cui ogni paziente della Struttura aveva la propria scatola degli oggetti personali, Davide guardava sempre con estrema attenzione tutte le scatole per accertarsi che la sua non fosse sotto a quella di nessun altro, non tollerava di leggere il suo nome sotto il nome di un altro paziente. Quando mi accorsi di questa premura con cui Davide osservava l’armadietto alle spalle dell’infermiera, gli chiesi come avrebbe potuto vivere al primo piano di un palazzo, con tutti i nomi degli altri condomini sopra al suo.
Rispose: — Io il nome sul campanello non ce l’ho messo mai.