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Se è amore non ferisce: psicodinamica dello stalking

Nel fenomeno dello stalking, il persecutore (stalker) deposita nell’altro la prospettiva di un amore totalitario, in cui il Sé, se non possiede, distrugge

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 29 Lug. 2020

Spesso ci si chiede per quale motivo un soggetto non riesca ad accettare la fine di un rapporto di coppia. “Lasciami libera di lasciarti”, si è sentito dire in riferimento a quei rapporti sentimentali in cui uno dei due partner non è capace di accondiscendere alla rottura del legame e insiste a perpetrarlo pur contro la volontà dell’altro.

 

Non vorremmo doverci porre questo problema, o almeno non con la frequenza impostaci dalla realtà quotidiana. Invece, esistono persone cui sembra negato il diritto di separarsi dal proprio compagno, per un motivo che sfugge alla logica, all’etica, al senso di giustizia. Ma perché un soggetto, specie maschile, non riesce rassegnarsi alla perdita della partner?

Una possibile spiegazione potrebbe essere trovata risalendo alla concezione psichica che Freud attribuisce all’innamoramento, considerato un investimento ben più duraturo rispetto alla pulsione sessuale, che può essere provata nei confronti di qualsiasi persona, è effimera e meramente rivolta alla soddisfazione di una libido fisiologica. Al contrario l’innamoramento si distingue dalla pulsione sessuale per la sua durata e la sua direzionalità verso un oggetto insostituibile, non surrogabile e stabile nel tempo (Freud, 1921).

Freud ne parla come di pulsione “inibita nella meta” proprio in riferimento ad un bisogno che non si scarica soltanto con l’appagamento, in quanto la sua origine non è identificabile in una pulsione fisica, bensì in una necessità affettiva ( Freud, 1921).

In questo senso l’oggetto d’amore viene ad essere un investimento affettivo di vitale importanza: amando qualcuno l’Io si impoverisce, sacrifica se stesso per il bene dell’oggetto amato, si spoglia di parti di sé per approssimarsi all’oggetto fino a lasciarsene possedere interamente. In questa fase dell’innamoramento si riscontra anche una forte connotazione idealizzante, in ragione della quale l’oggetto amato incarna l’Ideale dell’Io, ovvero tutto ciò che si desidera, tutto ciò che si vorrebbe essere.

Ma investendo se stessi nell’oggetto d’amore si ribadisce anche una forma di identità che Freud definisce sociale, definendola non come alternativa a quella individuale, bensì complementare, in un certo senso necessaria. Legarsi ad un altro è anche un mezzo per affermare se stessi, per costruire un’identità stabile e sicura. Non si può esistere senza l’altro, e la relazione amorosa ne è una conferma. Questo testimonia come innamorandosi il soggetto riesce ad affermare la propria identità relazionale (Freud, 1921).

Dunque l’innamoramento non rappresenta solo una fase di investimento libidico nei riguardi di un altro diverso dal Sé, ma anche un’affermazione della propria identità, che nell’altro si riconosce e si struttura.

Ma quando l’amore finisce?

Quando una storia d’amore giunge al termine, il soggetto deve rimpossessarsi delle parti del Sé che aveva investito nell’altro, deve cessare di considerarlo come un oggetto libidico e constatare il distacco da lui. Il suo compito è quello di separarsi dal partner, di de-idealizzarlo, di rinunciare a vederlo come la meta del proprio investimento pulsionale affettivo.

Per quanto la separazione possa rappresentare un evento emotivamente destabilizzante, dopo un iniziale squilibrio dell’omeostasi affettiva il soggetto riesce a ricostruire una propria identità individuale e si rassegna alla rottura del legame in attesa di reinvestire su un nuovo oggetto d’amore. Sono queste le fasi della separazione funzionale.

In taluni casi, tuttavia, questo processo di differenziazione non avviene, ed è come se l’innamoramento non avesse mai fine. Questo può verificarsi nei soggetti che hanno sofferto una deprivazione affettiva durante l’infanzia e nei quali l’innamoramento, più che un senso di esistenza funzionale con l’altro, si identifica in una sorta di compensazione per la deprivazione subita. Per questi individui il partner, più che un oggetto esistente in se stesso, svolge una funzione meramente depositaria dei propri investimenti narcisistici. Di rimando l’abbandono viene a costituire una disconferma del Sé idealizzato che nell’altro si identifica, un vulnus alle parti che questi ha investito narcisisticamente nel partner, ma che non ha cessato di avvertire come proprie.

La personalità dello stalker, il persecutore

Ecco dunque la radice del problema: lo stalker, come viene chiamato il persecutore affettivo, non vede l’altro come un soggetto autonomo e indipendente, ma come un mero prolungamento del Sé. E si vede legittimato a possederlo pur contro la sua volontà, perché nell’altro abita il Sé: l’altro, in un certo senso, è il Sé. È come se l’oggetto d’amore gli appartenesse perché porta dentro una parte di se stesso. Il disinvestimento del legame è impossibile. L’altro è il Sé e riconoscere la fine del legame amoroso equivarrebbe a decretare la morte psichica di un soggetto che nell’altro ha investito tutto il Sé, in una sorta di rivalsa affettiva. I rispettivi limiti individuali assumono dimensioni confusive, e nel momento in cui al partner non viene riconosciuta la propria autonomia esistenziale, l’amore si trasforma in un possesso compulsivo e persecutorio.

Una visione psicodinamica dello stalking

In questo caso si evidenzia un mancato superamento della fase infantile che la Mahlher (1975) chiama simbiotica, nella quale il bambino si considera unito alla madre in un nucleo indistinto, e non riesce a percepire come esistente il confine fisico tra se stesso e lei. Le immagini del Sé e della madre sono condensate, unite, indistinte. La natura della relazione con l’oggetto materno è totalmente parassitaria, ovvero il bambino acquista benefici unilaterali dal rapporto diadico e reagisce con aggressività alla frustrazione empatica. Dunque la madre è il Sé, e il Sé è la madre, e in questa visione sincretica della realtà intrapsichica si riflette una visione della realtà esterna in egual modo globalizzante, nella quale i legami affettivi sono simbiotici e comportano la fusione totale delle individualità. Da qui nasce la coazione a ripetere del legame simbiotico, anche in età adulta, in base alla quale lo stalker crederà che la propria compagna rappresenti la figura della madre cui si sente ancora irrimediabilmente legato (Infrasca, 2010).

Fino a che questa condizione di unione fagocitante perdura, il soggetto non si sente minacciato da un’angoscia abbandonica, ma con l’avvento della separazione si presenta l’evento critico: di colpo il soggetto realizza l’impossibilità di attuare il proprio progetto di invasione, di possesso dell’identità dell’altro. Questa frustrazione della libido simbiotica, oltre a riattivare arcaici vissuti abbandonici subiti nell’infanzia, vede l’amore verso l’oggetto amato tramutarsi in un agito rabbioso finalizzato al ripristino della simbiosi interrotta, che si esplicita a mezzo di comportamenti compulsivi persecutori volti al recupero dell’altro (Infrasca, 1990).

Il narcisista reagisce con aggressività all’abbandono, perché la sua considerazione dell’altro è meramente ricondotta ad una dimensione strumentale. L’altro, in questo caso il partner, è un soggetto cui viene negata l’alterità, la libertà, l’autonomia: egli esiste solo per compiacere le sue fantasie simbiotiche, alle quali non può opporsi.

Da qui l’origine del pensiero psicotico in base al quale lo stalker si sente legittimato alla persecuzione dell’oggetto d’amore per riprendersi ciò di cui si sente ingiustamente deprivato e che crede gli appartenga. Da qui la sua certezza di poter esprimere comportamenti persecutori ispirati dalla brama di possesso verso l’altro che considera come un mero prolungamento del Sé, e la pretesa che anche lui debba mostrarsi connivente con questa sua delirante pulsione simbiotica compulsiva.

Sembra proprio questa la discriminante tra innamoramento funzionale e persecutorio.

Colui che sa porre fine ad un legame amoroso è anche un soggetto che ha raggiunto una capacità di differenziazione dall’oggetto materno, di regolazione delle pulsioni, di maturazione del Sé relazionale e di un adeguato esame della realtà inter ed intrapsichica. Questo gli consente di disporre di un Sé funzionale che sa esistere anche senza l’altro nel quale si è amorosamente riconosciuto; al contrario, colui che non accetta il termine di un rapporto amoroso è un soggetto che non sa esistere senza l’altro nel quale ha identificato un Sé fragile e inconsistente, capace solo di vivere in maniera simbiotica, e che nella libertà dell’altro vede una minaccia alla propria stabilità.

Il lutto mai rielaborato dello stalker

L’oggetto materno perseguitato dallo stalker è la madre-donna che egli identifica nell’oggetto d’amore; la stessa dalla quale si è sentito abbandonato e che, tramite la separazione, riattualizza la dolorosa separazione mai rielaborata. Il lutto dovuto a questa perdita è dunque di natura circolare, perché continuo, reiterato, che si presenta con andamento compulsivo in ogni tipo di relazione affettiva (Infrasca, 1990).

Nel momento in cui il partner (che a sua insaputa riflette l’immagine allucinatoria dell’oggetto materno) afferma la propria alterità attraverso la fine del rapporto, egli perpetra inconsapevolmente un nuovo tradimento che lo stalker non può accettare: il suo progetto di simbiosi con la madre abbandonica è di nuovo infranto, e l’oggetto d’amore, dapprima approcciato con meccanismi di idealizzazione e ipervalutazione, viene perseguitato con rabbia predatoria, perché divenuto un “crudele traditore”.

Conclusioni

L’innamoramento dello stalker consiste nel depositare nell’altro la prospettiva di un amore totalizzante e totalitario, in cui il Sé possiede per vivere, e se non possiede distrugge. Ma che nello stesso atto di possedere, distrugge.

Il suo non è amore, bensì una crociata volta all’invasione e all’annullamento dell’alterità del partner, attuata con una pretesa collusiva e autoriferita. Lo stalker è in realtà vittima di un legame simbiotico intrapsichico che in qualità di carnefice impone all’altro. Ed è proprio questo il punto da cui iniziare il trattamento terapeutico: dissolvere il legame simbiotico con l’oggetto materno interiorizzato, creare consapevolezza del Sé e dell’altro, capacità di mentalizzazione, contenimento degli agiti aggressivi, stabilimento di confini esistenziali autonomi. Perché lo stalker riesca finalmente a superare la fase simbiotica infantile.

I bambini vengono abbandonati. Gli adulti vengono lasciati. E forse è proprio questa la differenza. Lo stalker non ha mai smesso di sentirsi il bambino vittima di un crudele abbandono materno.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1921), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 2015;
  • Infrasca, R. (1990), Il disturbo distimico. Una rivisitazione del processo di lutto. Quaderni Italiani di Psichiatria, 9, pp. 469-480;
  • Infrasca, R. (2010), Stalker: una teoria psicodinamica, in Pratica Medica e Aspetti legali, 4 (3), pp. 103-111;
  • Kohut H. (1980), Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica. In: Kohut H. La ricerca del Sé. Torino: Bollati Boringhieri, 1982;
  • Mahler MS, Pine F, Bergman A. (1975), La nascita psicologica del bambino. Torino: Bollati Boringhieri, 1978.
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