Durante le videocall il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale. Questo è uno dei fattori che contribuiscono alla cosiddetta Zoom Fatigue.
La pandemia che ci ha colpito ha mutato radicalmente le nostre abitudini e senz’altro abbiamo trovato molto confortante che la tecnologia ci permettesse di mantenere un legame con chi non potevamo più abbracciare.
Anche la scuola si è trasferita online, così come le riunioni, i colloqui di lavoro, le sessioni di laurea e anche gli aperitivi o le cene tra fidanzati sono diventati telematici.
Abbiamo cercato di tenerci compagnia con video divertenti ed emozionanti, rilanciato post, abbiamo approfittato di questo tempo sospeso per aggiornarci mediante webinar o per trovare forme innovative per le nostre professioni e attività.
E qualcuno di noi si è anche perso nei meandri di videogiochi, scommesse online, shopping senza limite, alla ricerca compulsiva di contatto virtuale, dell’anima gemella o di sesso online: un mondo dei balocchi di cui troverà purtroppo il conto da pagare all’uscita. Ma forse non saranno gli unici.
Tutti noi abbiamo aumentato esponenzialmente il nostro tempo di connessione per svago, per fuga, per studio, per lavoro. E forse mai come prima, abbiamo la possibilità oggi di sentire sulla nostra pelle ciò di cui molti autori, rimasti nell’ombra fino a poco tempo fa, ci avvisavano: internet e lo smartphone hanno anche pesanti effetti collaterali.
Sapevamo già dalle ricerche riportate da Jean Twenge (2018) che l’attività a schermo prolungata oltre le due ore quotidiane correla con aumenti significativi di percezione di infelicità, solitudine, depressione e, addirittura, ideazioni suicidali nelle nostre ultime generazioni (Millennial e iGen) e, dalla lettura dei libri di Manfred Spitzer (2015, 2018, 2019), trasalivamo nel costatare che la presenza continua dello smartphone incide davvero su attenzione, memoria, sicurezza stradale, capacità di lettura e calcolo, sonno, salute, stati ansiosi e depressivi.
Così come era chiaro, a chiunque si permettesse di osservarsi, che lo smartphone è diventato il nostro migliore amico, cui diamo da mangiare, per il quale ci preoccupiamo quando sta per morire, che vestiamo con protezioni colorate o glitterate quasi fosse un cucciolo: un oggetto ormai animato che condivide tutto il tempo con noi, veglia su di noi di notte, il primo ad essere guardato al mattino e a cui affidiamo sempre più la nostra memoria e possibilità di controllo degli altri (Valorzi e Berti, 2019).
Ma mai come adesso abbiamo anche la possibilità di sentire quanto possano essere stancanti e/o invasive le videocall, tanto che ricercatori e stampa internazionale stanno già parlando di Zoom Fatigue.
Ma perché ne usciamo così a pezzi?
Intanto, perché il nostro cervello si trova a dover integrare due informazioni contrastanti: sono solo in questa stanza eppure ho informazioni che Altri ci sono. Innaturale.
Così come innaturale è essere deprivati di tutta una serie di comunicazioni non verbali che in presenza avvengono in modo automatico e che ora possiamo solo provare a ricostruire (faticosamente). Sempre che almeno si possano notare le espressioni sottili del viso che, visto la qualità della connessione, spesso si freezano, si quadrettano, si offuscano.
L’attenzione alle parole deve rimanere altissima e altissimo è il rischio di “perdere” l’altro o di essere interrotti anche solo perché la carica di un device è insufficiente o perché c’è una chiamata altrui in entrata.
Lo sguardo è continuo, sebbene disallineato (chi mai guarda solo l’obiettivo e non lo schermo?), perché guardare lo schermo sembra essere il modo con cui comunichiamo silenziosamente la nostra attenzione a chi sta parlando (i microfoni si attivano solo all’occorrenza e non per sussurrare un empatico “mhmm”) e il viso dell’altro appare a una distanza (reale) dai nostri occhi che mai terremo dal vivo (troppo vicini).
Dato non da poco: avete notato come si abbia la sensazione di essere guardati da tutti? Un po’ come nei peggiori incubi dei ragazzi che a scuola soffrono di ansia sociale immaginando che tutti (anche i compagni delle file dietro e davanti) li stiano guardando con aria giudicante.
Sì, giudicante, perché sembra che quando il piccolo ritardo nel suono, dovuto al mezzo imperfetto, supera i 1200 ms (Schoenenberg, Raake, Koeppe, 2014) aumenti la sensazione di avere un interlocutore meno amichevole. Come parlare dal vivo con qualcuno che ha un viso tirato e che lascia scorrere il tempo prima di esprimersi lasciandoci il tempo di pensare “Oddio, avrò detto una cosa intelligente?”. Innaturale.
Non parliamo del fatto che la nostra attenzione, già messa a dura prova dall’attrazione del guardare gli scorci delle abitazioni di ogni partecipante, si trova spesso nella tentazione di osservare e controllare la nostra stessa immagine nel riquadro anziché rimanere in quel flusso comunicativo, nel ballo del dialogo sintonizzato.
Le emozioni sono più faticose da lasciar emergere (i nostri neuroni specchio funzionano meglio a distanza reale ravvicinata) e non possiamo neppure fare un commento simpatico al nostro virtuale compagno di banco, fosse anche solo per chiedergli di ripeterci l’ultima parola che ci è sfuggita.
Ecco, avessimo avuto bisogno di capire quanto la comunicazione tecnologicamemte mediata possa incidere sulla nostra mente e sul nostro corpo, ora non possiamo non notarlo.
Eppure siamo qui e l’alternativa è non poter comunicare (o lavorare) o farlo a distanza con la mascherina. Niente di molto attraente.
Così, come le scimmiette di Harlow (1958) dovevano accontentarsi di una madre di stoffa piuttosto di quella di freddo metallo per non cadere nella depressione anaclitica osservata nei bambini degli orfanotrofi di Spitz (1965), dobbiamo accontentarci di questo in assenza di una madre di carne e ossa.
Cosa possiamo fare allora per non soffrire massicciamente di questa alterazione (speriamo meno prolungata possibile) di piano comunicativo, visto che nel nostro DNA è inciso i nostro bisogno di contatto?
- Intanto possiamo già lasciare spazio al desiderio di ricongiungimento reale e non confonderci illudendoci che sia la stessa cosa.
- Potremmo anche comunicare che non è necessario avere sempre la videocamera accesa, anzi, senza possiamo concentrarci meglio sui contenuti che possono piuttosto essere proposti in slide che tutti potremmo guardare senza distrazioni.
- Possiamo ridurre le videocall a quelle davvero necessarie alla nostra operatività e al nostro cuore che sente tanto nostalgia senza avere alternative.
- Lasciarci spazio per muoverci, bere dell’acqua, dare acqua alle piante (giusto per ricordarci che anche noi facciamo parte della natura) durante pause più ravvicinate, e sottolineare che stiamo tutti facendo uno sforzo importante e che ci meriteremo poi una attività piacevole (noi psicoterapeuti potremmo consigliare anche una visualizzazione compassionevole o di un luogo sicuro, ma ci starebbe bene anche una bella canzone o un abbraccio forte alla persona con cui conviviamo).
- Possiamo declinare gentilmente gli inviti alle videoconferenze non preventivamente concordate e invadenti della privacy ricordando che sarebbe più sano non esporsi al sovraffaticamento e che una telefonata in cui si cammina sembra attivare più facilmente la creatività.
Il fatto che abbiamo tutti scoperto che ci si può anche “incontrare” su Zoom, su Skype, WhatsApp o FeceTime in condizione di crisi non vuol dire che dovremmo tenerlo come abitudine quando potremo finalmente uscire.