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La ribellione dell’anima (2019) di M. V. Saccone – Recensione del libro

"La ribellione dell'anima" riesce a far capire a chiunque cosa significhi soffrire di depersonalizzazione e la necessità di uscire dalla depressione.

Di Vanessa Romani

Pubblicato il 05 Giu. 2020

Che succede al nostro io quando rinunciamo a ciò che sogniamo o a quello che ci fa sentire vivi? Che succede quando conduciamo un’esistenza che non ci appartiene, ma che continuiamo per accontentare gli altri non ascoltando più la nostra essenza?

 

Sono questi gli interrogativi a cui risponde la scrittrice, appassionata di psicoanalisi, Maria Valentina Saccone, nel suo libro La ribellione dell’anima. Inserito dalla casa editrice Aracne nella sua collana di narrativa Istantanee, questo racconto affronta un tema molto delicato di cui raramente si sente parlare, quello della depersonalizzazione e lo affronta in modo semplice e diretto, dove “semplice” non sta per banale. L’autrice, attraverso le sue pagine scritte come un diario, riesce a far capire a chiunque cosa significhi soffrire di depersonalizzazione e come sia difficile, ma necessario, il percorso per uscire dalla depressione.

Chi è Sabina? Chi siamo tutti noi? Chi sei tu?

Questa domanda non trova una risposta immediata e forse per nessuno di noi può esserci una risposta univoca. Ma ancora di più: forse non c’è una vera risposta a “chi sono io”.

Nel corso degli otto capitoli del libro vediamo infatti come la protagonista Sabina, attraversa una vera e propria trasformazione di se stessa che non si concluderà di certo con la delineazione perfetta del proprio io. Noi siamo esseri in divenire, ma soprattutto, tutte le nostre scelte, tutte le nostre esperienze, aggiungono un particolare al nostro io rendendoci diversi da quello che eravamo nell’istante precedente.

Proprio per questo motivo il percorso alla scoperta della nostra essenza dura almeno quanto la nostra esistenza. Ciò che colpisce dalle prime righe del libro è proprio il sottolineare questo concetto attraverso la presentazione di Sabina come una ragazza alla “continua ricerca di se stessa”.

Apparentemente ha tutto ciò che si possa desiderare: bellezza, un lavoro e una storia d’amore nata da poco. Ciò non basta a preservarla da un trauma subito nell’infanzia a cui nemmeno lei credeva dover ancora farci i conti.

La quotidianità che rappresenta la gabbia del nostro io

Nel primo capitolo si racconta la routine di Sabina, proprio quella quotidianità che ha contribuito alla ribellione della sua anima. Sabina infatti non è contenta o soddisfatta della vita che sta conducendo e il rituale della sveglia, impostata alle 7:05, non fa altro che scandire il ritmo di una vita che non era quella che sognava. Aveva abbandonato le sue passioni per passare le giornate chiusa in un ufficio, con un lavoro che oltre a non rappresentarla, non faceva altro che procurarle un enorme stress. Si legge infatti:

Avevo abbandonato tutti i miei sogni per passare l’intera giornata nella più profonda solitudine alternata allo stress mentale che il mio lavoro implicava.

Questa vita diversa da quella desiderata era il frutto di quello che nel corso della sua adolescenza si era sentita dire dalla madre. Ciò che segna però più di tutto Sabina, sono le ansie trasmesse proprio da quella madre, la quale a sua volta era cresciuta in un clima simile. La casa per Sabina non è quindi un rifugio, ma è una “gabbia dorata” che annienta la sua personalità ricordandole costantemente tutto ciò che non aveva. Passò la maggior parte della sua infanzia e adolescenza da sola e la sua unica via di fuga era la scrittura.

All’età di ventotto anni, aveva finalmente trovato un uomo da cui non sentiva di dover fuggire, Mattia, eppure dopo qualche tempo lui si rivelò essere una persona superficiale e poco empatica. Questo porta la protagonista di La ribellione dell’anima a immaginare altro, nonostante ciò non riesce a fare a meno di lui. Anche in questa relazione, però, la madre di Sabina si intromette volendo conoscere i genitori del suo ragazzo, che nemmeno Sabina stessa conosceva. Si comincia già ad evincere da qui come l’io della ragazza protagonista del libro cominci a scricchiolare:

Il limite della mia sopportazione era ormai stato superato, eppure sforzavo la mia mente e il mio cuore ad accettare quella vita che non mi apparteneva, con un lavoro che mi stava stremando completamente, un uomo che sembrava un vegetale ambulante e una madre con tratti narcisistici […] e totalmente incapace di empatia.

L’unico appiglio alla realtà è il padre che la ama in modo genuino e questo sarà uno dei fattori positivi che la aiuterà nel difficile percorso che dovrà affrontare.

La depersonalizzazione: io non sono più io

Già nell’introduzione ci immedesimiamo in quello che sta succedendo a Sabina. Come dal titolo del libro, la sua anima si sta ribellando. Sabina si guarda allo specchio, ma non si riconosce. L’immagine che vede riflessa non sa a chi appartiene, le sue emozioni le sono estranee. Ogni cosa intorno a lei, tutti gli oggetti, è come se perdessero consistenza. Lei stessa perde consistenza, si sfiora un braccio, ma non sente nulla. Il velo tra immaginazione e realtà si è dilaniato condannando la protagonista a vivere una vita, la sua vita, come se ne fosse solo la spettatrice. Non riesce però a comprendere quanto le stia succedendo, perché al contempo riesce lucidamente a descrivere e scrivere le proprie sensazioni, anche se di suo ormai non sente più nulla.

In un giorno come un altro, nella sua solita routine, nella sua gabbia, qualche meccanismo si intoppa. Improvvisamente sente una pesantezza allo stomaco accompagnata da una sensazione di profondo terrore che le impedisce di vedere il futuro, inteso come l’attimo successivo rispetto a quello che sta vivendo.

La domanda che accompagna tutto il libro e quindi la sofferenza di Sabina è quale sia il senso della vita, nella misura in cui essa ha un termine: che senso ha tutto ciò che facciamo se siamo destinati a morire?

Una sua amica, Marta, psicoterapeuta, le dice che soffre di depersonalizzazione. Se ne parla poco di questo disturbo, eppure è un disturbo che aggredisce proprio l’io di un individuo e allo stesso tempo si manifesta come una difesa dell’individuo stesso. Dal momento in cui la mente si trova di fronte ad un dolore che sa di non poter sopportare è come se si distaccasse dal corpo. Non sono più io a vivere un incidente, un trauma, ma io sono lo spettatore. Così è come se la mente si mettesse al riparo.

Sabina, come la maggior parte delle persone, sente per la prima volta questa parola ed è spaventata perché non capisce cosa le stia capitando, si sente impazzire.

Nonostante la sua passione per la psicologia e la psicoanalisi, all’inizio è riluttante all’idea di dover rivolgersi ad uno specialista. Sarà proprio però l’inizio di questo percorso ad offrirle la possibilità di rialzarsi, unita alla sua voglia di tornare a stare bene.

La paura del giudizio: la “normalità” che non comprende

Nel corso dei capitoli successivi si entra sempre più nel vivo di ciò che sta accendendo a Sabina, o per meglio dire, dentro la sua anima. Superato l’iniziale spavento dovuto dall’idea di dover assumere dei farmaci, o anche semplicemente dall’entrare negli studi degli psicoterapeuti, comincia un percorso che la porterà a dover affrontare i traumi subiti all’infanzia, traumi che credeva aver rimosso, superato, ma che invece erano lì, nel proprio inconscio, aspettando il punto di rottura. I capitoli centrali del libro rendono senza filtri la sensazione di terrore e angoscia che caratterizzano le giornate di Sabina. Il suo dolore fisico e mentale è tangibile. Attraverso un linguaggio semplice e comune, la scrittrice Maria Valentina Saccone, oltre a farci sentire in prima persona il dolore di Sabina, ci delinea anche uno spaccato della società contemporanea: perché infatti la protagonista del libro mostra un’iniziale avversione al rivolgersi ad uno specialista? Da cosa nasce la paura di intraprendere un percorso che la porterebbe inizialmente ad un uso controllato di psicofarmaci teso alla guarigione? In semplici parole: la paura del giudizio.

La diffidenza di Sabina, nonostante – come già accennato – sia appassionata di psicologia, nasce dalla paura del giudizio delle persone che comunemente chiamiamo “normali”. Oltre a vivere un difficile momento di depressione, la protagonista del libro della Saccone, si trova a dover fuggire gli sguardi di tutti quelli che la vedono entrare nelle cliniche o negli studi degli psicoterapeuti.

È invece proprio grazie a questo percorso che cominciano a delinearsi le cause della depersonalizzazione prima e della depressione dopo che hanno colpito l’io di Sabina e che colpiscono molte persone. A seguito di quanto era accaduto, il livello di serotonina della protagonista si era notevolmente abbassato provocando l’impossibilità da parte del suo sistema nervoso di produrlo in modo autonomo. Gli antidepressivi servivano per riattivare un meccanismo che si era momentaneamente fermato, e successivamente si andava diminuendone l’assunzione fino ad arrivare alla totale sospensione.

Verso la guarigione Sabina si rende conto di come la paura del giudizio nasca dalla poca comprensione dei disturbi mentali. Le cosiddette “persone normali” relegano ai margini chi è affetto da patologie mentali, eppure siamo tutti esseri umani, tutti meritevoli di rispetto.

Questo racconto ci fa comprendere quanto ancora si sappia poco dei disturbi mentali, della depressione, e di come spesso se ne faccio un uso improprio nel linguaggio quotidiano. Ci sono molte realtà che non conosciamo, ma che nonostante questo, sbagliando, giudichiamo.

La ribellione dell’anima è un invito per chi soffre, a sentirsi meno solo, e a chi non soffre, a rendersi conto che siamo tutti esseri viventi, e tutti abbiamo una mente che a volte, per proteggersi, si ribella e così facendo ci mette di fronte ad un’unica scelta: iniziare a conoscere noi stessi.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Saccone, M., V., (2019) La ribellione dell’anima, Aracne, Roma.
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Fuori da me. Superare il disturbo di depersonalizzazione (2016) – Recensione

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